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giovedì 2 febbraio 2017

Gli altri film del mese (Gennaio 2017)

Gennaio è stato un mese abbastanza turbolento, non solo per quanto riguarda il blog e i post spostati, rinviati e quelli che all'inizio dell'anno hanno affollato le pubblicazioni settimanali, ma anche personalmente e quotidianamente parlando, con alcuni problemi immobiliari sistemati ma ancora in pieno sviluppo, altri di salute momentaneamente alle spalle e poi i tanti problemi d'attualità, neve, terremoti, valanghe, attentati e per finire pure Trump. Insomma un macello di cose, che in ogni caso non hanno rallentato le visioni filmiche, anzi, sono addirittura aumentate, tanto che oltre ai 9 film visti su Sky, ho avuto anche il tempo di vedere (sempre su Sky ovviamente) la saga, che si compone per adesso di una 'duologia' che sicuramente diverrà trilogia e forse più, dato che il finale del secondo (come già si vedeva nel primo) lo lascia intendere chiaramente, per ragazzi intitolata V8, sì come i motori, perché V8: Si accendono i motori (2013) e il suo sequel (più o meno identico anche nella narrazione) V8: La sfida dei Nitro (2015), parlano infatti di un gruppo di ragazzini, coetanei con la passione per i motori che formano un team per gareggiare in un circuito cittadino misterioso con i loro go-cart (un po' come il manga Capeta). Cosa che mi aveva incuriosito, come anche il fatto che il regista tedesco Joachim Masannek (specializzato in film per ragazzi, genere molto apprezzato in Germania) era lo stesso della mirabolante straordinaria saga de La tribù del pallone (datata 2005-2009 con 5 film), la migliore del genere ragazzi mai vista, stupenda. Purtroppo però non al loro livello, difatti nonostante il regista sia stato capace di equilibrare il versante fantastico con il realismo, dato che molti campioni automobilistici si sono veramente formati sui go-kart e per una volta le descrizioni delle rispettive famiglie non più tanto stereotipate, tanto non convince, soprattutto la scelta di dare solo 10 minuti a entrambi i film per vederli correre (l'unica comunque cosa bella). In più i dialoghi e le situazioni improbabili e assurde, anche se in linea con il genere, sono davvero troppo insensate, insensata come la scelta di doppiare le canzoni (bruttissime davvero), bastavano i sottotitoli. Comunque in definitiva sono due film che a molti bambini-ragazzi potrebbero piacere, anche se decisamente migliore è il primo, il secondo è troppo surreale, ma entrambi addirittura meglio di certi altri film. Ma veniamo a noi e vediamo i film visti in questo strambo mese di Gennaio.
Padri e figlie (Fathers and Daughters), film del 2015 diretto da Gabriele Muccino, è una bella ed emozionante commedia drammatica che grazie alla sua originale costruzione cinematografica capace di far coesistere due spazi temporali (a distanza di 25 anni) incastrando a mosaico momenti dell'infanzia e della vita adulta di una figlia nel difficile rapporto col padre che con tenacia cerca di crescerla dopo la tragica morte della madre. riesce nell'intento di coinvolgere. Il regista infatti, senza retorica affronta un tema profondo e complesso muovendo i personaggi con grande maestria avvalendosi di interpreti di grandissimo spessore, Russell Crowe (che è anche produttore esecutivo), Amanda Seyfried, Aaron Paul, Diane Kruger, Octavia Spencer e Jane Fonda. Certo non mancano i tipici espedienti 'Mucciniani', le frenetiche corse dei protagonisti, le urla isteriche per strada, i pianti silenziosi, il dramma più puro, ma la qualità dei contenuti riesce a farceli digerire facilmente. Il fruitore è accompagnato attraverso le difficoltà affettive della protagonista (una sorprendete Amanda Seyfried), comprendendo  la sua paura del passato e del futuro, il suo senso di solitudine, l'incapacità di amare. Interessante e ben costruito è lo sviluppo della storia su un doppio piano temporale che vede da un lato il rapporto di un padre con la sua bambina e dall'altro il rapporto di una donna con se stessa e con la sua insana tendenza all'autolesionismo. Sentimenti ben descritti e ben caratterizzati grazie al lavoro del regista e soprattutto alla grande interpretazione della protagonista. Non aiuta in questo senso la scrittura, scontata e banale, però brava a non cadere nelle trappole del sentimentalismo forzato e del melo improntato a commuovere a tutti costi lo spettatore. Anche se il film lascia un po' l'amaro in bocca per certe scelte, non estetiche, perché è quasi perfetto (appagante per la vista, regia, fotografia, scenografia, costumi sono degni di lode), non specificamente musicali, perché coinvolgente è la colonna sonora, che vede la firma di Paolo Buonvino (sue le musiche di L'ultimo bacio e Baciami ancora), anche se la canzone di Jovanotti che si sente per alcuni secondi è decisamente una scelta poco realistica, non nelle interpretazioni, Crowe bravissimo come la Seyfried e la piccola, tenera Kylie Rogers, ma nella sceneggiatura, a tratti vuota, spesso banale e quasi slegata dalle emozioni che si vedono sullo schermo. Un vero peccato, perché per colpa di dialoghi quasi casuali si perde tanta intensità, nonostante il film coinvolga ugualmente senza ricorrere a stereotipi o a forzature emozionali, la morte del padre è vissuta con pacato e rassegnato dolore e il finale che vede il realizzarsi del sogno di Kate, anche se scontato e prevedibile, chiude una pellicola delicata dove commuoversi è lecito e perché no anche giusto. In definitiva se ci sono dubbi sul fratello, di Gabriele nessuno, e dopo Sette Anime e La ricerca della felicità fa nuovamente centro, perché con la macchina da presa è abile (anche se terribili, in senso di credibilità, sono le scene degli attacchi convulsivi) e presenta questo film bellissimo che merita sicuramente la visione, anche solo una. Voto: 6,5
Belle & Sebastien: L'avventura continua (Belle et Sébastien: l'aventure continue), film del 2015 e sequel di Belle & Sebastien del 2013, entrambi tratti dai romanzi di Cécile Aubry, è una delicata e bella avventura per ragazzi, anche se, come nel primo episodio, è ancora una volta un film rivolto a un target abbastanza ampio, non solo infatti ai più piccoli ma anche ai tanti nostalgici, in riferimento della serie anime degli anni '80. E così dopo il successo del primo capitolo, il seguito di Belle & Sebastien diventa più ricco visivamente, ma forse meno spontaneo del suo predecessore. Cambia difatti il regista (al posto di Nicolas Varnier troviamo Christian Duguay) e lo spettacolo proposto, meno naturalistico ma non meno coinvolgente, perciò meno convincente ma comunque gradevole per un pomeriggio in famiglia. Se nel primo film difatti lo spettatore si sente coinvolto dalla trama, che vede Belle e Sebastien nel bosco costretti alla resistenza alla neve ma stimolati dalla reciproca compagnia e pieni di speranza, nel secondo le buone intenzioni vengono un po' messe da parte. Nulla di compromesso per i più piccoli, anche se in Belle e Sebastien: L'avventura continua è proprio l'elemento dell'avventura a essere quasi 'fuori luogo', quasi come una forza maggiore. La guerra è finita, Belle e Sebastien attendono impazienti il ritorno di Angelina ma l'aereo militare che la sta riportando a casa precipita al confine tra Francia e Italia. Allo schianto seguono le fiamme che 'spengono' ogni speranza nel ritrovare superstiti. Ma Belle e Sebastien per recuperare il corpo di Angelina sono disposti a tutto, anche salire sul monomotore di un certo Pierre Marceau. Finalmente il clima è più mite quando, sul percorso dei due amici, arriva una inaspettata presenza, il papà di Sebastien (Pierre Marceau, interpretato da Thierry Neuvic). Peccato che di un personaggio tanto fondamentale, apparentemente conosciuto da tutti in paese, non si sapeva nulla. Effetto sorpresa non tanto riuscito e forse anche un po' ricattatorio. Il film quindi cerca di attaccarsi il più possibile alla storia degli uomini, mettendo da parte la magia e la purezza originati sin dal principio dalla amicizia con Belle, il cane dei boschi. Belle e Sebastien: L'avventura continua però è un film, come detto, ugualmente gradevole. Poiché nonostante la costruzione meno 'intima' dell'amicizia bambino-animale, gli argomenti tanto sentimentali quanto avventurosi riescono a non far notare troppo l'assenza dei panorami da urlo presenti nel primo. Il film poi intreccia una linea narrativa essenziale e infallibile (salvare una persona cara, costi quel che costi) a una trama sentimentale fatta di riconoscimenti ed espedienti da romanzo d'appendice (la madre gitana, il padre perduto e ritrovato, ma pure la ragazzina che si traveste da maschio). Una formula che attira verso lo schermo tutta la famiglia. Forse, l'unica a patire è proprio Belle, sacrificata alle tante svolte del racconto, ma bisogna ammettere che, quando appare, è irresistibile. Insomma il secondo capitolo funziona, anche se non perfettamente, merito non tanto della regia, ma della scrittura capace di reinventarsi da capo. Voto: 6,5
Parlare di Io e lei, film del 2015 diretto da Maria Sole Tognazzi, è davvero difficile, ma non perché la storia non è interessante o perché l'argomento sarebbe censurabile, quanto per il fatto che il film ha davvero poco da dire nonostante il suo evidente tentativo di parlare di una tema alquanto spinoso come l'omosessualità sia da apprezzare. Un film che quindi risulta addirittura coraggioso di questi tempi in Italia, ma se il tentativo è modesto il risultato sarà mediocre. E infatti nonostante il film e la storia con estrema semplicità parli della convivenza e la crisi di una coppia gay al femminile, a complicare la situazione ci pensa la regista da sola, sia contribuendo ad alimentare il cliché della Buy-donna irrisolta che affiancandole in scena Sabrina Ferilli, quintessenza della femminilità prorompente e attrice di modesta caratura. Ambienti ultra-borghesi, stereotipi a gogò (dal domestico filippino con "vizietto", probabile omaggio a papà Ugo), alla canzone della Rettore, icona gay, fino ai maschi con la crisi di mezza età che o si mettono con delle ragazzine o passano le giornate a guardare il calcio in tv, e anche una rappresentazione di Roma che nemmeno in un depliant della pro loco. A poco serve aver reclutato un'attrice di rango come Margherita Buy, costretta a indossare con qualche imbarazzo di troppo i panni di apolide dei sentimenti che già aveva calzato nel precedente film con la Tognazzi, Viaggio sola. La Ferilli dal canto suo (sempre più imbolsita), pur con una recitazione spesso sopra le righe (e a volte inguardabile), finisce per sovrastarla calcando sul pedale del vernacolo e delle sfumature espressive. Ma soprattutto la coppia non c'azzecca, e il cast, che comprende Ennio Fantastichini, Fausto Maria Sciarappa e Domenico Diele, fa quello che può per ribaltare le sorti in meglio. Ma non basta a salvare un film perbenista dove tutto suona fasullo e il compitino sulla legittimità della coppia saffica viene eseguito a colpi di cliché. Voto: 4,5
Ritengo che Io che amo solo te, film drammatico del 2015 diretto da Marco Ponti, liberamente ispirato dall'omonimo bestseller di Luca Bianchini, che ha inoltre aiutato nella sceneggiatura della pellicola, sia un film accattivante e patinato nella sua forma, sia per quanto riguarda il tipo di ambientazione, dove, la bellezza scenografica del paese di Polignano a mare (già teatro di tante produzioni nostrane e non), con il suo stupendo mare e con i suoi vicoli caratteristici, non può non ammaliarci e sia per la presenza degli attori che conferiscono soprattutto a livello di presenza quel certo tocco in più a questa pellicola, la cui trama (abbastanza semplice), se provassimo a sradicarla dal resto, non ci apparirebbe poi tutto sommato particolarmente brillante. Infatti se gli scenari naturali sono magnifici, il film a dire il vero lascia un po' a desiderare, poiché nonostante questa commedia corale riesca a mantenere un buon equilibrio fra il tono e il ritmo brillanti tipici del genere, alla fine prevale un senso di incompiutezza, i personaggi e i vari intrecci sono condotti con abilità, ma anche con una certa dose di superficialità, e ci voleva un maggiore approfondimento in fase di scrittura (ad esempio, il legame fra Riccardo Scamarcio e la bellissima Laura Chiatti che sta al centro della scena non mi sembra che sia analizzato con particolare acume, ci poi sono diversi rivolgimenti e colpi di scena e si arriva ad un finale che sembra un po' volenteroso). Dato che il film si svolge in due giorni, due giorni in cui, tra segreti svelati, amori mai dimenticati, parenti nordici e galeotti, Chiara e Damiano imparano cos'è davvero l'amore. Il film evidenzia pertanto il sottile contrasto tra il rapporto dei due giovani sposi, i quali non sembrano, almeno inizialmente, convinti del loro passo e l'amore interiorizzato e mai effettivamente realizzato dei rispettivi genitori Mimì (padre di lui, un eccelso Michele Placido) e Ninella (madre di lei, una brava Maria Pia Calzone). Il film diretto da Mario Ponti, in fondo, descrive le piccole e grandi ipocrisie dell'uomo e della donna di oggi, sia nell'aspetto delle relazioni umane ed amorose, che in quelle interiori. La narrazione, ad un certo punto e a tratti, però, perde la sua originalità e la sua identità quando omogeneizza il vecchio col nuovo, la ricchezza ostentata delle vecchie generazioni con la necessità di celebrare un evento, il matrimonio, come se fosse un reality, uno show. Non il massimo se questo non viene sostenuta da basi indistruttibili, perché c'è spazio anche per Alessandra Amoroso che interpreta il brano principale della colonna sonora del film (di Sergio Endrigo) ed anche Enzo Salvi. Inoltre vi è il riferimento (secondo me scontato al Sud) alla tematica dell'omosessualità e al diritto di essere felici nella società anche se si è gay. E' il caso di Orlando, fratello di Damiano, il quale per nascondere la sua situazione ai parenti, si accompagna alla cerimonia con una finta fidanzata (mi è sembrata però forzata e inutile la scena delle sue effusioni amorose con un altro uomo all'interno di un bagno, avvenuta durante la cerimonia). Infine, oltre alla voce fuori campo che non riesce ad entrare in sintonia, ci sono diversi ruoli piuttosto insipidi dove perfino interpreti di richiamo come Luciana Littizzetto o Dino Abbrescia possono fare poco. Concludo quindi ribadendo che considero questo film ammiccante, commerciale e godibile per gli spettatori, ma molto mediocre nella sua sostanza narrativa. Comunque non scialbo, soprattutto per la consistenza dei vari temi trattati, anche se rimane un'occasione sprecata pur avendo alcuni elementi che presi singolarmente non sono così male. Voto: 5,5
Tratto dal romanzo di Agota Kristoff  "La Trilogia della città di K", Il Grande Quaderno (A nagy füzet, 2013) di Janos Szasz si rivela essere una pellicola estremamente dura in quanto presenta un mondo ed un'umanità spietata, o resa ancor più tale dalla guerra, che non risparmia niente e nessuno, nemmeno i due giovani fratelli del film a cui, come a tanti altri della loro età, essa ha strappato violentemente e per sempre l'innocenze e l'infanzia. Se difatti i conflitti bellici solitamente inducono a crescere in fretta ed inaspriscono profondamente gli animi degli esseri umani, questo film ne costituisce la conferma più esemplare. Nel corso della Seconda Guerra Mondiale, in Ungheria, due fratelli gemelli adolescenti vengono mandati dai propri genitori, al fine di trovarsi più sicuri, in campagna presso la fattoria della nonna materna. Questa è una dura contadina, che ha interrotto da lungo tempo ogni rapporto con la figlia e con tutti gli individui in generale, vivendo isolata, appunto, in campagna e pertanto non accoglie bene i due giovani. Anzi, dimostrandosi palesemente ostile e contraria alla loro permanenza presso la propria fattoria, costringe i ragazzi a lavorare la terra duramente e li punisce di continuo, anche in maniera piuttosto violenta. I due fratelli, in seguito anche a una svariata serie di avvenimenti, intuiscono sin dall'inizio che per sopravvivere a tale clima ostile e difficile devono imparare a fortificarsi l'animo in modo tale da non provare, o sopportare al meglio, qualsiasi tipo di sofferenza e dolore. Nel corso del tempo e della guerra ovviamente la situazione precipita e una serie di lutti sconvolge la loro esistenza, orrori e violenze di ogni tipo, crudeltà, meschinerie e miserie costellano l'esistenza dei due gemelli che riportano fedelmente tutto su di un grosso quaderno donato loro dal padre, sino alla fine della guerra, quando essi prenderanno una decisione, sempre dolorosa, al fine sempre di uscirne indenni, o quasi. Il Grande Quaderno è un grande gelido film (in tutti i sensi) che descrive lo scivolamento verso la violenza, la follia perenne del nazismo. L'ambientazione infatti, caratterizzata da una povertà e desolazione estreme che viene qui descritta, serve a sottolineare marcatamente la negatività totale e l'assurdità dei conflitti bellici in sé e se le condizioni di belligeranza in generale producono effetti negativi e sono deleteri per tutti, e in questa pellicola la situazione sembra essere ancora più esasperata e cruenta che altrove. Insomma, la negazione più totale di una qualche speranza o rinascita. Anche se in verità, il racconto di formazione con la guerra e la persecuzione nazista è usato solo come sfondo nel film. Film che, ha un ottimo spunto, ma tende a indirizzarlo verso una direzione piuttosto scontata che appiattisce gli elementi narrativamente più liberi e forti. Film anche un po' difficile da collocare, la guerra c'è ma non si vede, la persecuzione ebrea c'è, ma solo di striscio e in fondo anche i due protagonisti non sono poi tanto simpatici da parteggiare per loro (in alcuni momenti sono crudeli quanto la nonna). Decisamente modesta la regia, anche se il gran pregio di questo film, risiede, al di là della trama in sé, proprio in tutta l'atmosfera tragica e violenta e di desolazione che il regista Szasz è riuscito a realizzare e consegnare spietatamente e senza mezzi termini od alcuna forma di edulcorazione allo spettatore, inducendolo a riflettere e colpendolo nel più profondo. I due ragazzi invece, realmente fratelli gemelli, che interpretano i protagonisti, danno una prova di recitazione veramente efficace e toccante, puntando il proprio sdegno ed il proprio dolore sullo sguardo e sulle espressioni varie dei loro volti. Molto efficace e ripugnante risulta anche l'attrice che interpreta la nonna, dura nel volto dietro il quale però si cela, assai bene occultata, un'immensa sofferenza proveniente non solo dalla guerra ma da tutta un'esistenza costellata da dolori e brutti avvenimenti. Insomma Il Grande Quaderno si può vedere comodamente, anche se qua e la emergono situazioni non molto originali, sprazzi di violenza e il regista sorvola comodamente sugli abusi sessuali subiti dai ragazzi, rendendo il film come una favola per tutti. Film che in ogni caso, come interesse di cinema che è poi per me l'unica cosa che conta, l'ho trovato scialbo e monotono, con inquadrature dei ragazzi banalmente illustrative, o altre "drammatiche" tenute oltre il loro limite per renderle enfaticamente retoriche mentre risultano solo noiose. Sufficiente a stento. Voto: 6
Mon roi: Il mio re (Mon roi), film del 2015 diretto dalla me sconosciuta regista Maïwenn, è un film inquietante sull'amore, sui rapporti di coppia, sulle dipendenze e sull'impossibilità di essere 'normali'. I due protagonisti del film infatti, vivono una specie di amore criminale, amore giocato molto sulle dinamiche di tortura psicologica interne alla coppia e sul rapporto vittima-carnefice in una sorta di sindrome di Stoccolma, tale è infatti la forza del rapporto di lei vittima con il suo uomo-carnefice, da quando il 'Don Giovanni' Georgio (impersonato magnificamente da Vincent Cassel in quanto il suo personaggio gli calza a pennello, bugiardo, affabulatore, pieno di contraddizioni, lunatico, imbroglione) decide di darsi una "calmata" e sposare una ragazza 'normale' (Tony, avvocato con problemi autodistruttivi, la vincitrice ex-aequo nel 2015 per la migliore interpretazione femminile a Cannes Emanuelle Bercot, altrettanta sconosciuta da me) dopo una vita affettiva e personale sregolata e tormentata fra feste e festini, amanti di una notte, con problemi con il fisco e con la droga, avrà un bambino da lei, ma niente cambia anzi ritorna su sé stesso, fra tradimenti e tutto il resto in  un modo ossessivo, con lei vittima predestinata anche dopo aver avuto la forza di ottenere il divorzio. Mon roi già dal titolo segnala sottomissione e comunque una devozione o arrendevolezza che sono il frutto di un lavaggio del cervello che il brillante uomo riesce a provocare nella consorte. Il film infatti è un film che opprime e che usa un interessante punto di vista regressivo nel montaggio alternato con lei che rievoca la sua vita sentimentale tormentata con colui che doveva essere l'uomo della sua vita da una clinica di riabilitazione dopo una caduta sugli sci ed essersi frantumata un ginocchio, un intenso simbolismo, quello di una persona, di una donna soprattutto con il suo coraggio, che impara di nuovo a camminare, a vivere, fino al finale quando anche lui, l'aguzzino sembra finalmente aver trovato il modo di vivere, amare e soprattutto mollare la sua preda,  anche se lo sguardo di lei proprio nel finale si posa sul bellissimo volto del suo lui quasi a dirgli 'né con te né senza di te'. Il dilemma quindi rimane aperto, nella finzione del film e nella vita di tante coppie. Georgio difatti è un Moloch, divora la vita e le persone, ma lei perché non riesce a liberarsi di lui né tantomeno a distaccarsene? Perché da lui maledettamente è attratta e poiché una volta entrati nella tela del ragno, non si sa più come uscirne e districarcisi. Si capisce subito che il loro rapporto all'inizio sarà molto intenso, un vero innamoramento, man mano però si trasformerà in una forte conflittualità. che ovviamente bene non finirà. Tale opera insomma ancora una volta fa capire che l'amore passione, fascinoso e prorompente, da solo non basta ad incontrarsi veramente se i due non sono pronti ad accettarsi. Il film tuttavia gioca troppo furbamente sulle emozioni a pelle dello spettatore facendosi bello di battute e situazioni brillanti a cui si alternano, in un continuo flashback cadenzato a ritmi sostenuti, scene madri di crisi di coppia e litigi furenti alternati ad intimità o momenti di cura ospedalieri, un po' troppo edulcorati e costruiti, sguaiati e compiaciuti per non lasciarci qualche dubbio sulla genuinità delle intenzioni della pur valida regista. Nonostante questo, è un film che si lascia vedere, ma leggermente troppo lungo, un po' noioso, paradossale in certi strambi comportamenti e scelte dei due innamorati (forse). Ma quello che comunque insegna il film è che non è possibile cambiare un uomo e che esso va accettato com'è o lasciato dov'è. Voto: 5,5
13 Hours: The Secret Soldiers of Benghazi (o semplicemente 13 Hours), film del 2016 co-prodotto e diretto da Michael Bay, è un serrato e avvincente film d'azione che, prendendo spunto da fatti realmente accaduti l'11 settembre 2012, quando un gruppo di militanti islamici attaccò il consolato statunitense a Bengasi in Libia, adatta per il cinema il libro 13 Hours di Mitchell Zuckoff, e lo fa in modo eccezionale dato che il sanguinoso scontro a fuoco avvenuto nella Libia post-Gheddafi viene ottimamente ricostruito attraverso uno spettacolare assedio, ovvero l'assalto al distaccamento statunitense in terra libica, da parte di miliziani, che costò la vita all'ambasciatore USA, anche se in termini di perdite, il quadro avrebbe potuto essere ben più pesante se non fossero intervenuti dei contractors, i soldati non ufficiali "in affitto" da parte di privati (in sostanza, dei mercenari, ma in una chiave diversa). Una squadra di sicurezza composta da sei membri infatti lotterà fino all'ultimo per difendere i loro compatrioti. 13 Hours: The Secret Soldiers of Benghazi è un film anomalo per la cinematografia di Michael Bay, solitamente dedito a 'spettacoloni' di pura finzione, ma "13 Hours" immettendosi nella scia di pellicole come "Black Hawk Down" e narrando una sconfitta, all'atto pratico e valorizzando il valore della resistenza contro un nemico in condizioni di vantaggio e in territorio sfavorevole, realizza un'opera sorprendente. 144 minuti di tensione profonda, con una perizia tecnica che lascia sbalorditi, con un montaggio che tiene le fila della narrazione, grazie anche ad una sceneggiatura che pur stereotipando un po' i caratteri (con personaggi abbastanza stereotipati anche se funzionali al racconto), contribuisce a creare un senso di smarrimento totale, dove non si capisce chi siano i buoni e chi i cattivi. I 144 minuti infatti reggono proprio per il ritmo e la buona qualità del racconto, perché a differenza di molti titoli bellici americani, non si va a cercare la retorica a tutti i costi e, anzi, secondo quale punto di vista o chiave di lettura si adoperi per analizzarlo, il film di Bay tende a sottolineare la grave difficoltà di operare contro un terrorismo più organizzato del solito, e uno dei temi ricorrenti della storia è appunto il non avere idea di chi dei locali incontrati via via sia nemico o alleato. E quindi via via che il racconto scorre, e l'assedio stringe, la regia tiene in tensione lo spettatore con abile tenacia. Diversi i momenti da ricordare, l'inseguimento del SUV fuori ambasciata lascia senza fiato e l'attacco alla dependance con i ribelli che arrancano nascosti dal gregge in piena notte che sembrerebbe omaggiare "la notte dei morti viventi". E poi per una volta vediamo un finale che non celebra i supereroi americani, che invece vengono soccorsi dalle forze della coalizione governativa. Insomma pellicola, progetto, che pur non risparmiandoci i soliti quadretti familiari strappalacrime e qualche rallenty di troppo, e nonostante il regista abbia realizzato quest'opera non esente da limiti, mi sento di definire più che riuscito. Michael Bay difatti, che può permettersi di produrre investendo milioni, dirige questo film puntando il tutto sulla spettacolarizzazione delle scene d'assalto, ai quali imprime il proprio stile fracassone in barba a qualunque equilibrio narrativo, anche se qui come già detto il regista seguendo uno script e uno schema semplice e lineare, tipico dei film d'azione, riesce abilmente a mettere in piedi un buon prodotto di genere che intrattiene e si concede anche a qualche fugace momento di riflessione, pur senza snaturarsi o tentare di essere quello che non è, ovvero non un film di cinema politico o sociale ma sensazionalistico e spettacolare, dove la trama e le considerazioni etiche lasciano il più spazio possibile all'immagine e all'azione. Film sicuramente non destinato a entrare nella storia ma buonissimo action movie, con effetti speciali molto curati, che si colloca a testa alta tra gli altri film del genere, anche se rappresenta tutto quello che stereotipicamente ci aspettiamo di vedere da una pellicola a stelle e strisce di serie B, ma qui il tutto si amalgama e funziona alla perfezione risultando gradevole da seguire. Fermo restando che la retorica dell'eroismo (in ogni caso seppur marginalmente) soffoca questa storia vera, palesemente romanzata ai fini di renderla un appetibile prodotto d'azione. Ma va bene ugualmente. Voto: 7
Franny (The Benefactor), film indipendente del 2015 scritto e diretto da Andrew Renzi, si basa essenzialmente su un segreto inconfessabile, peccato che questo sia solo un piccolo pretesto del film, dato che così inconfessabile non è. Il film infatti racconta di un milionario filantropico, Franny (Richard Gere), sopra le righe, senza famiglia, né lavoro, che sentendosi responsabile di qualcosa che non ha fatto volontariamente (la tragica scomparsa dei suoi più cari amici avvenuta in un'incidente automobilistico) è convinto di poter alleviare il suo senso di colpa (nei confronti della figlia della coppia di amici a cui però non interessa addossare colpe che lui non ha) con i soldi e la morfina. E quando dopo cinque anni, Olivia (Dakota Fanning) ritorna nella sua vita, per non perdere anche lei, è costretto a mettere a nudo il suo dolore e le sue debolezze. E per fare ciò si immischia nella vita di lei e del suo marito, nel tentativo di rivivere il suo passato, regalandogli case e attenzioni che loro non vogliono, mentre lui dipendente dalla morfina finisce in un vortice allucinato. Franny, opera prima del regista esordiente Renzi (un cognome una garanzia..), è un'opera confusionaria, spacciata come dramma psicologico, poiché ci sono evidenti falle nella sceneggiatura, falle che diventano voragini, tante domande e nessuna risposta. Franny può quindi definirsi un film introspettivo drammatico non riuscito. Lo spettatore infatti è portato a vivere il dramma ed i sensi di colpa del protagonista ma allo stesso tempo ne resta escluso. Il film non ne approfondisce l'essenza, non spiega perché il legame tra Franny ed i genitori di Dakota Fanning era così intenso, al punto da aver provocato un dolore così grande, ma si limita semplicemente a proiettare dei flash back di quello che era. Il resto viene lasciato ad un'immaginazione non a sufficienza stimolata. La pellicola così si limita ad essere pura narrazione ed invita a prendere atto di quello che i personaggi vivono, anziché a sentire ed a comprende nel profondo la sofferenza del protagonista. Insomma film, certamente dai buoni sentimenti, ma nulla di più, in quanto la trama risulta assai banale e quasi scontata, piena di luoghi comuni, con dialoghi privi di spessore, di flashback didascalici, di primi piani obbligati, di una conclusione assolutoria ed edificante, di una superficiale messa a fuoco del protagonista. Protagonista leggermente stantio come il film, che si fa anche vedere, ma solo e perché c'è Gere, anche se al più rimane una fugace, forzata impressione di simpatia, lo stesso si può dire di una Dakota Fanning forse volenterosa ma costretta in una parte avara di complessità e interesse, che insieme a Theo James sembrano essere capitati lì per sbaglio, spaesati e poco convincenti. Persino le musiche sanno di muffa e non perché la musica invecchi, ma perché ci voleva qualcosa di più appropriato e più guizzante. In più, personalmente, le scene che si susseguono alla ricerca della morfina perduta, le trovo assurde. Pertanto il film si presenta principalmente un poco deludente e privo di originalità in maniera tale da venire, presto dimenticato. Voto: 5
The Pills: Sempre meglio che lavorare, è un film del 2016 scritto, diretto e interpretato dal trio romano The Pills (che al massimo due volte ho visto un loro video su youtube), composto da Matteo Corradini, Luigi Di Capua e Luca Vecchi, al loro esordio sul grande schermo. Un esordio abbastanza anonimo, se non fosse che il trio, nonostante la poca esperienza riescono nell'impresa di passare da Youtube al grande schermo in modo davvero discreto, con un film dall'assunto originale e dalla trama scorrevole e divertente. Il film infatti fa fare molte risate, franche e rumorose. L'ironia è intelligente, la comicità mai banale, e già il primo fotogramma ci mostra un'idea originale. Quella di tre bambini, Luca, Luigi e Matteo che da piccoli hanno giurato solennemente di non lavorare, mai. A quasi trent'anni i tre mantengono fede alla promessa fatta, condividendo un appartamento di Roma Sud senza svolgere alcuna attività produttiva, bevendo litri di caffè e cazzeggiando intorno al tavolo della cucina. Ma Luigi viene colto da una "crisi di mezza età" e cerca di tornare ai tempi delle occupazioni liceali, Matteo scopre che il padre posta foto su Instagram per dare una svolta creativa alla sua vita di idraulico, e Luca si innamora di una ragazza che trova eccitante che lui lavori. Nella prova d'esordio del collettivo The Pills ci sono tante cose, troppe probabilmente, i consueti e divertenti sketch, le continue parodie e citazioni cinematografiche, le scene dei Pills bambini (ripetute però fino alla noia), le musiche insistenti e pervasive a riempire buchi e sfilacciature di sceneggiatura. Perché anche se tuttavia ho riso, ho riso di gusto e allo stesso tempo ho trovato una grande pulizia nel trasmettere le sensazioni e, perché no, anche le paure che contraddistinguono i trentenni di oggi, costretti a trovare una nuova strada tra i modelli trasmessi dalle famiglie e una realtà che non permette di realizzarli in alcun modo, quello che manca davvero è proprio il film. E non perché la trama su cui si legano i tanti sketch non sia sufficientemente forte, poiché ci sono esempi di film riusciti dove la trama è solo un pretesto, vedi tra tutti il primo Woody Allen, ma perché manca una mano registica sicura e decisa. Perché la regia non è solo fare belle inquadrature o arditi movimenti di macchina. Regia è anche creare e mantenere omogeneità di ritmo e di direzione attraverso un montaggio consapevole e non indulgente. Invece si assiste continuamente a cali di ritmo e allungature di brodo che portano il lungometraggio nelle pericolose secche della noia, nonostante la breve durata. Si ride, ci sono delle trovate geniali quello si, ma non è abbastanza per fare un film. Un film dove troviamo anche Giancarlo Esposito e Francesca Reggiani ma in ruoli decisamente pessimi. Eppure i tre attori al loro esordio se la cavano pure bene (meglio di altri) e l'idea di fondo alla base del film, la decisione di non crescere mai, e gli assunti che ne derivano, il lavoro come droga da cui bisogna tenersi lontani, sono divertenti e persino condivisibili. E i tre amici sono davvero amabili, ognuno col suo personale percorso di resistenza alla integrazione, mentre il sorriso dolce e seducente di Margherita Vicario aggiunge grazia e sensualità. Ma non basta, perché nonostante il film è piacevole e gradevole non tutto funziona, non tutto diverte, non tutto coinvolge e addirittura quasi irrita, anche se trattandosi di esordio ci può stare, perché in ogni caso è sempre meglio vedere un film come questo che un cinepanettone. Voto: 5,5

14 commenti:

  1. Mado'.. non ne ho visto nemmeno uno.
    Pessima. I know.
    Ma mi rifarò.
    :)

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    1. A parte 2 o 3, sconosciuti non sono, perciò alcuni dovevi già aver visto, anche se in ogni caso c'è sempre tempo ;)

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  2. Per me IL GRANDE QUADERNO, la tua descrizione mi ha colpito molto e ora voglio vederlo assolutamente.
    Il resto... lo salto più che volentieri^^

    Moz-

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    1. Ah sì? non credevo fosse nelle tue corde ma se ti ha colpito faresti bene a vederlo :)
      Gli altri in effetti per te proprio no, anche se tu ci saresti benissimo nei The Pills e credo che il film potrebbe incuriosirti, ma va bene lo stesso ;)

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    2. Piter, giuro: quello mi ha colpito e mi sono informato anche sul romanzo. Grazie alla tua rece.
      The Pills? Dici che ci starei bene? Ahaha XD

      Moz-

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    3. No no ci credo, solo che non credevo ti potesse interessare ;)
      Si certo, perché quello che fanno è praticamente cazzeggiare, ovvero quello che spesso fai tu :D

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  3. Ciao! Mi piacerebbe vedere "Fathers and daughters" e "Belle e Sebastien"!

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    1. Sono due bellissime favole moderne diciamo, per cui credo proprio che ti piaceranno tanto, se quindi riuscirai a vederli, buona visione ;)

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  4. Buon pomeriggio Pietro,
    allora: glissando su The pills-13 hours che non sono proprio il mio genere e premesso che IL GRANDE QUADERNO - IL MIO RE - FANNY non li ho proprio visti, (ma sono incuriosita dalla tua recensione), proseguo nel dirti che "Io che amo solo te" l'ho scartato a priori perché non amo il genere Scamarcio ... non che l'attore non sia bravo e di talento, ma perché molti attori sono una "garanzia" per alcuni film ... visto uno visti tutti ... poi sul film di Muccino, (che ha avuto le sue calate di stile) dico al contrario che non è una brutta pellicola anzi ... mentre di Belle e Sebastien, (di cui anch'io legatissima all'anime '80), questo seguito potevano evitarlo. Dulcis infundo, d'accordo con la tua linea di pensiero sul film IO E LEI, l'ho trovato come un'enorme calderone nel quale han mischiato di tutto e di più su una delicata tematica sociale ... sebbene ottimamente interpretata dalla Bravissima Buy e dalla spettacolare (e sorpresa) Ferilli.
    Buon pomeriggio e grazie mille del post. Stefania

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    1. Ciao Stefania, i primi due in effetti non sono per te e gli altri tre faresti bene a dargli una chance, capisco invece la tua riluttanza su Scamarcio ma non quella su Belle & Sebastien, perché secondo me come di quello di Muccino non è affatto un brutto film, anche se è già il sequel questo da me visto. Infine sul pensiero di Io e Lei ok, ma sulla Ferilli siamo su un'altra strada perché io non la sopporto proprio...
      In ogni caso, buona giornata e di niente ;)

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  5. 13 hours ce l'ho salvato gelosamente in MySky e attendo il momento propizio per godermelo.. The Pills tanto carini sul web.. quanto noiosi e lunghi al cinema... forse guarderò Il grande quaderno.. e ho trovato pessimo Mon Roi. Tutto il resto non mi attizza manco un po'... tempi duri...

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    1. Non aspettare tanto perché almeno personalmente 13 hours ha davvero sorpreso, soprattutto non conoscendo la storia ;)
      Sì i The Pills fanno anche ridere ma il film è davvero poca cosa effettivamente, come Mon Roi drammaticamente povero o emozionante...Il Grande Quaderno ha una storia forte dalla sua, ma non aspettarti un capolavoro :)

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  6. franny l'avevo visto al cinema perché io amo Richard Gere: peccato fosse proprio bruttino come film!

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    1. Infatti, addirittura senza senso alcuno a volte, da dimenticare ;)

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