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lunedì 26 giugno 2017

Truth: Il prezzo della verità (2015)

Basato sulla ricostruzione dell'inchiesta politico-giornalistica del 2004 con cui un'equipe della CBS tentò di dimostrare l'imboscamento militare di G.W. Bush nella Guardia Nazionale per evitare il Vietnam, Truth: Il prezzo della verità, film del 2015 scritto, diretto e co-prodotto da James Vanderbilt, al suo debutto da regista, che ha nel suo titolo l'ambizione di voler condurre lo spettatore attraverso il percorso alla ricerca della verità, nella sua faticosa e scomoda oggettività e nel suo valore idealistico che rappresenta, è un film, una pagina di giornalismo indipendente coraggioso, passionale e a tratti eroico che avvince e convince, anche se l'opera prima dello sceneggiatore statunitense (già sceneggiatore di pellicole come Zodiac e The Amazing Spiderman) è un film controverso e forse troppo lungo. Vero è che sfrutta l'interessante parterre del genere del thriller politico e giornalistico (come Tutti gli uomini del presidente), vero è che è interpretato dai premi Oscar Cate Blanchett e Robert Redford (40 anni dopo), vero è che non sempre la "formule magique" è sufficiente a creare interesse, suspense o "Verità" appunto, ma Truth, che a dire il vero sembra un po' un minestrone riscaldato o una crasi tra Qualcosa di personale ed appunto Tutti gli uomini del presidente, che soprattutto indaga anche fino a dove i poteri occulti possano spingersi senza che nessuno se ne accorga, è un film che merita di essere visto, poiché la storia che viene narrata è così clamorosa, assurda e incredibile, che ancora dopo anni ci si chiede come sia stato possibile o così come sia stato così facile insabbiare tutto.
Alla vigilia della Presidenziali del 2004 infatti, l'incertissima lotta fra G.W. Bush e John Kerry potrebbe venire influenzata da uno scoop della CBS sulle modalità con cui Bush effettuò (o, per meglio dire, non effettuò)  il servizio militare, ingannando il popolo americano. La giornalista Mary Mapes quindi (di cui questo è l'adattamento cinematografico delle sue memorie intitolate Truth and Duty: The Press, the President and the Privilege of Power), fresca del successo avuto con l'inchiesta degli abusi sui prigionieri irakeni nelle prigioni di Abu Ghraib (che successivamente all'emittente gli valse un importantissimo premio giornalistico), non temendo di sfidare il Presidente in carica e il suo establishment, lavora in maniera certosina sulle fonti del suo scoop per scoprire la verità. Ma quando sembra che abbia messo a segno un altro clamoroso colpo del giornalismo d'inchiesta, ecco che le cose cominciano a ritorcersi contro, trascinandosi dietro anche una icona come Dan Rather, celebrato anchorman della CBS. In men che non si dica infatti, una campagna mediatica di schiacciante veemenza, portata avanti con l'ausilio fondamentale dei blog, finì per ribaltare le carte in tavola, riuscendo a minare la legittimità di prove apparentemente schiaccianti e a screditare i responsabili del programma, rei di aver dato la notizia. Così, mentre Bush batté John Kerry confermandosi presidente per il secondo mandato consecutivo, Mary Mapes (produttrice del reportage e anima di 60 Minutes, da cui tutto ebbe inizio) si ritrovò letteralmente processata dal gotha giornalistico della propria emittente, tanto che mai più lavorò in televisione.
Dopo Spotlight quindi (e anche in piccole parti Money Monster) un altro bel film sul giornalismo e su cosa è diventato a 40 anni circa da Tutti gli uomini del Presidente, che consacrò Robert Redford nella effigie di personaggio positivo, paladino della verità a tutti i costi, anche della paura. Un solido e coinvolgente dramma nella tradizione americana del cinema hollywoodiano che esplora i rapporti tra politica e giornalismo, dato che Truth è anche e soprattutto un film sullo scontro tra poteri, quello politico e il Quarto Potere, con i loro condizionamenti reciproci, dove la verità appartiene a chi riesce a dimostrarla fino all'inconfutabilità, al di là della buona fede e del nobile proposito etico di partenza. Gli Stati Uniti difatti restano sempre il Paese della libertà e della democrazia, dove la retorica etica collettiva e l'ambizione individuale trovano il limite nel rispetto delle regole, dove ci si può prendere il rischio di mettere sotto inchiesta anche l'Uomo più potente e chiacchierato d'America, ma bisogna comunque accettare la sconfitta professionale e le relative conseguenze, seppur con onore ed orgoglio. A riguardo James Vanderbilt è onesto e rigoroso e rispetta il verdetto delle prove documentali, anche se la lunga e commovente ultima scena al rallenty ci conferma da che parte batta il suo cuore assieme a quello dello spettatore, che sogna di essere Tutti gli Uomini del Presidente, quarant'anni anni dopo. Anche se come pare ovvio trattandosi della prima e trattandosi di un film comunque solo più che discreto, qualche errore ci sta e sembra parecchio evidente.
Non tanto perché la storia narrata in Truth è forse già nota a molti, perlomeno nelle linee generali, ma perché il regista, che cura molto i particolari di scena e le inquadrature degli attori (tra cui tanti volti noti e tutti in ogni caso funzionali, Topher Grace, Dennis Quaid, Elisabeth Moss, Bruce Greenwood, John Benjamin Hickey e Dermot Mulroney), decisive in una sceneggiatura basata principalmente sui dialoghi, punta troppo sui dettagli, che in questa trasposizione cinematografica sono il problema. Attingendo a piene (troppe) mani dal libro scritto dalla stessa Mapes subito dopo i fatti, il regista esordiente James Vanderbilt infatti si premura di inserirne in ogni dialogo, per fornire un resoconto il più possibile rigoroso, meticoloso ed estremamente preciso nel ricostruire gli eventi senza tralasciare nulla, Vanderbilt impiega però mezzo film prima di riuscire a rallentare e trovare il ritmo giusto, ovvero quello che permette alla componente emotiva e relazionale di poter interagire con quella meramente espositiva (e a forte rischio di didascalia). Va da sé che ad una seconda parte liscia, scorrevole e tutto sommato coinvolgente, ci si arriva stanchi per la prima, convulsa ed eccessivamente verbosa, nella quale i personaggi sono letteralmente schiacciati dal racconto. Ma qui la protagonista è la ottima Cate Blanchett, con la sua recitazione spigolosa ma efficace, mentre Robert Redford (comunque entrambi assai bravi e veri nei rispettivi ruoli, lui sempre impeccabile esteticamente, lei anche stanca e spettinata all'occorrenza) fa da comprimario non solo nella storia, ma anche come attore un po' bloccato in pose statuarie ed espressioni fisse (ma glielo perdoniamo volentieri, ricordando il suo passato e soprattutto il fatto che ha appena compiuto, agosto scorso, 80 anni).
Il tema specifico della pellicola comunque è che chi detiene il potere rappresenta una casta che sembra non debba rispettare le regole dei normali cittadini. E soprattutto detiene tutte le armi di "distrazione" di massa, per cui riesce a indirizzare l'opinione pubblica a interessarsi dei cavilli (non sempre strettamente giuridici, per quello ci sono i Tribunali) ma comunque formali, mentre si evita di affrontare la questione principale, il fatto è successo o no? Certo non voglio semplificare un aspetto di grande rilevanza, che è quello del garantismo e del rispetto della oggettività delle informazioni (che non vanno mai manipolate a uso e consumo di qualcuno), ma (come anche si dice nel film) se non si fossero sforate certe barriere i grandi casi giornalistici del passato (vedi il Watergate) non si sarebbero mai potuti svolgere. Fa da contorno a questo tema un aspetto più generale. Alla società oggi interessano ancora le notizie, quelle vere? o siamo drogati dalle interviste e dai gossip sui personaggi dei Talent o dei Reality? E soprattutto interessano ancora agli stessi mezzi di informazione? Perché ottenere notizie significa investire, in inviati e in strumenti di lavoro, spesso a fondo perduto. Ne vale ancora la pena, quando invece è molto più comodo stare ad aspettare le notizie procacciate da altri e poi imbastire una bella trasmissione di approfondimento con quattro opinionisti e una bella show-girl. Come anche in Spotlight, uscendo dalla questione specifica, gli autori si fanno delle domande. In Spotlight ci si chiedeva il ruolo della società nel suo insieme rispetto ad un fenomeno così diffuso come la pedofilia nel clero ("ci vuole una comunità per crescere i bambini ed occorre anche una comunità per poterne abusare!"). Qui il tema di fondo è se il cittadino del terzo millennio sia ancora interessato ad essere informato (di questioni vere) e abbia voglia di combattere perché la stampa resti libera e non un puro strumento di propaganda o di intrattenimento. In attesa di sapere la risposta però, e preso atto della meritoria scelta di voler promuovere una riflessione sui rapporti tra la stampa ed il potere ai tempi di internet, Truth resta un in ogni caso film riuscito solamente a metà, e in cui la maggior parte dei meriti vanno ai due notevoli protagonisti, Cate Blanchett e Robert Redford, che con le loro interpretazioni forti permettono ai caratteri di Mary Mapes e Dan Rather (suo sodale, storico anchorman del CBS Evening News) di emergere alla distanza ed avere la meglio sulla mano pesante e sulla tendenza a ridondare dell'acerbo Vanderbilt, che avrà tempo di rifarsi, anche se questo suo primo film non tanto male è, anzi, è l'ennesimo film di "denuncia" e d'inchiesta da vedere e ammirare. Voto: 7

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