Ottavo appuntamento con un genere sempre fonte di tante cose importanti ed interessanti da scoprire e/o sapere, il documentario, qui altresì messo insieme praticamente a due docu-film. Un'inchiesta sulla storia e la struttura della Chiesa di Scientology (che in linea generale si conosce, ma che il regista ci fa conoscere più in profondità, riuscendo a comporre, descrivendo le particolarità pur in meccanismi già usati, semplici ma terribilmente efficaci, una descrizione a 360 gradi su tale fenomeno), attraverso le testimonianze di ex adepti che ne denunciano la natura manipolatrice e le pratiche illecite, questo è Going Clear: Scientology e la prigione della fede. Il film del 2015 diretto da Alex Gibney infatti (basato sul libro omonimo), che alterna le testimonianze di otto ex-membri di Scientology, tra cui il regista Paul Haggis (il suo Crash vinse l'Oscar nel 2006), l'attore Jason Beghe ed alcuni dirigenti dell'organizzazione (e tutti testimoniano di condizionamento mentale, sfruttamento del lavoro, coercizione, metodi di spionaggio e stalking, raccolta di dati personali a scopo di intimidazione) e la storia della chiesa, dalla sua fondazione da parte di L. Ron Hubbard, iperprolifico autore di racconti di science fiction già negli anni '40, che poi usò come basi "teoriche" per il suo culto, la sua dottrina (anche grazie alla sua "bibbia" Dianestic), continuando con la sua promozione da parte di star come John Travolta e Tom Cruise (che escono malconci da questo documentario), per finire coi primi scandali e polemiche, in particolare sotto la leadership del successore di Hubbard, David Miscavige, "dittatore" dal forte spirito imprenditoriale, che ha rafforzato la rete di protezione attorno alla setta e ha fatto sì che dopo aver rischiato una colossale multa dal fisco americano, improvvisamente quest'ultimo ha riconosciuto a Scientology lo status di religione (anche se lo status di religione è riconosciuto solo in alcuni Paesi ed è materia controversa, come viene ben spiegato nel documentario) che la esenta da ogni tipo di pagamento facendo così lievitare il patrimonio del gruppo.
Anche perché in questo film-documentario che squarcia il velo di questo mistero-Scientology, dove si vede, si sente, e man mano che si va avanti, non riesci a credere a ciò che vedi e senti, per salire di livello nella piramide (spirituale) è necessario aumentare i propri contributi, tanto che al momento conta un clamoroso patrimonio simile ad un emiro. D'altronde in questo viaggio inquietante, che speriamo lasci qualche seguito perché le denunce qui riportate sono di una certa gravità, le testimonianze fornite dal regista gettano una luce veramente sinistra, fatta di vessazioni, maltrattamenti ed un lavaggio del cervello che colpisce per il modo in cui riesce ad "ammorbidire" persone tutt'altro che stupide o sprovvedute (importante in questo senso anche la testimonianza di Paul Haggis). Perché se all'inizio le speranze di una vita migliore sono giustificate, alimentate dal potere persuasivo del percorso dottrinale (attraverso una serie di cosiddetti auditing attraverso i quali si deve cercare di scoprire cosa c'è che non va in te stesso), poi la perplessità nello scoprire lo scenario fantascientifico cui (psicologicamente instabile) Hubbard (venerato un po' come una divinità dagli adepti) riconduce la propria teoria sul mondo, infine l'orrore causato da molestie e abusi fisici e psicologici e più in generale da attività illecite della setta. Dopotutto Scientology è una setta in tutto e per tutto, perché come in tutte le sette oltre al grande capo troviamo vari adepti pronti letteralmente a sbranare chiunque decide di uscire dalla conventicola, giacché una volta entrato se sgarri alle regole o se decidi di uscire scattano una serie di violenze fisiche e psicologiche. Insomma un documentario davvero agghiacciante (comunque interessante e sorprendente), un documentario sulla fragilità e immensa idiozia dell'uomo che è sempre in mano a mestatori e manipolatori che gli stravolgono il cervello e la capacità di discernimento. Un documentario così forte e sotto tanti aspetti decisamente inquietante volto a cercare di ricostruire la genesi e lo sviluppo di Scientology, in cui soprattutto stupisce (e soprattutto da cinefilo) come Tom Cruise possa essere così "colpevole". Poiché non ci sono parole per descrivere la sua condotta e di quello simil-nazista di questa schifosa setta. Voto: 7
Emozionante e delicato è Life, Animated, film documentario del 2016 diretto dal regista premio Oscar Roger Ross Williams. Il documentario infatti, basato sul libro Life, Animated: A Story of Sidekicks, Heroes, and Autism scritto dal padre del protagonista, Ron Suskind, noto giornalista di carta stampata e candidato all'Oscar come miglior documentario nel 2017, che dimostra come le persone affette dal disturbo dello spettro dell'autismo, una volta adulte, possano riuscire a superare tutti gli ostacoli che la vita gli mette davanti, racconta la bellissima storia di Owen Suskind, un ragazzo autistico la cui comunicazione con il mondo esterno è stata resa possibile e in qualche misura è continuamente filtrata dal mondo dei film di animazione della Disney che lui adora. La visione delle pellicole difatti, permette al giovane di riconnettersi con l'amorevole famiglia (emergendo dal suo isolamento) e il resto del mondo. A dimostrazione che, l'essere affetti dal disturbo dello spettro dell'autismo, non è indice di demenza a tutti gli effetti (purtroppo considerati attualmente dei soggetti privi di intelligenza ed esclusi dalla società e mondo del lavoro) ma, comprendendo qual è il loro modo di comunicare, questi soggetti possono riservare una grossa e grande sorpresa. Dato che esistono tantissime sfumature del disturbo dello spettro dell'autismo (da qui il termine "spettro"), e in questo documentario, dove viene raccontata una porzione di vita di questo ragazzo (affetto da autismo da quando di anni ne ha tre), che altresì mette in risalto tutti gli ostacoli che ha trovato e come li ha superati, fino a essere (forse attualmente) assunto presso un cinema e convivere per un piccolo periodo di tempo con la sua fidanzata, essi vengono fuori. Anche perché è Owen stesso che nel film parla della sua vita, dei suoi interessi, della passione per i cartoni animati di Disney (Il Re Leone, la Sirenetta, Bambi, Biancaneve, Peter Pan, Dumbo, Il Gobbo di Notre-dame e così via) che sono ancora oggi il riferimento della sua vita quotidiana. Owen, che grazie ai video ha imparato a anche a leggere, scrivere e disegnare, dimostra un particolare interesse per i personaggi comprimari delle storie, più che per l'eroe. Si sente affine a coloro che aiutano, più che a coloro che hanno doti particolari. Ha iniziato a disegnare storie nelle quali lui raccoglie e protegge questi personaggi dalle insidie del mondo (che vediamo grazie a molte parti animate originali ad opera di Mac Guff, oltre a molte sequenze di film Disney) e ha anche fondato un Disney Club dove vedere insieme ad altri giovani in difficoltà i film che più ama. Egli infatti si trova in un momento chiave della sua vita, giacché il regista (che non si lascia mai prendere la mano dai sentimentalismi, e i genitori, che parlano della vita di questa loro coraggiosa famiglia, sono misurati nell'evocare le passate difficoltà) segue Owen nei giorni che precedono il diploma e nei successivi in cui va a vivere da solo. Nel mezzo, di questo percorso costellato di alti e bassi, filmini d'epoca della famiglia e come detto splendide sequenze animate che, come quest'opera commovente, ma anche simpatica, perché ricca e vitale, come Owen, che non si tira indietro di fronte a ostacoli e delusioni (anche affettive), ha il merito di farci conoscere una malattia dai mille volti, ancora oggi poco conosciuta, e la solitudine di chi è costretto a viverla giorno per giorno. Per questo Life, Animated, documentario curioso e insolito (non fosse vera la storia si potrebbe pensare a una fiction pubblicitaria della Disney), e in cui da segnalare ci sono due bellissimi camei, quello di Jonathan Freeman e Gilbert Gottfried (doppiatori di Aladdin) è da vedere, per comprendere e riflettere. Voto: 7
Ennesimo (ma sempre attuale e utile nonché importante) film è Una volta nella vita (Les héritiers), film del 2014 diretto da Marie-Castille Mention-Schaar, su scolaresche difficili che grazie all'impegno, la pazienza e la passione di una insegnante riescono a trovare e provare interesse verso la vita, il rispetto e la tolleranza nei compagni e la volontà di cambiare e trovare il proprio percorso di vita. Tutto questo grazie alla riscoperta, al ricordo e all'interesse nei confronti di un tema sempre carico di emozionalità, e sempre vivo, come lo sterminio degli ebrei da parte dei nazisti. Tratto da un fatto realmente accaduto Una Volta nella Vita infatti, costruito in maniera interessante, nonostante la pochissima originalità ma capace di regalare una visione valida e coinvolgente, mostra appunto come la passione di una professoressa, dotata di molta buona volontà e di ottimi propositi, altresì capace di dare fiducia ai suoi alunni disastrati, riesca a vincere l'apatia, il disinteresse, la conflittualità, l'individualismo di una classe di una scuola superiore (di una banlieue parigina) composta da ragazzi appartenenti a numerose etnie ed assai indisciplinata e con scarsa voglia di apprendere e di applicarsi in ogni modo allo studio. E ci riesce iscrivendo i suoi alunni al concorso scolastico nazionale sulla resistenza e la deportazione. Dopo le prime ritrosie difatti, tutti i componenti della suddetta classe iniziano a provare un reale ed acceso interesse per l'argomento (dopotutto è impossibile rimanere impassibili a certe cose), rimanendone ovviamente anche molto sensibilizzati, e cominceranno tutti a poco a poco a collaborare gli uni con gli altri all'adempimento del progetto, riuscendo a costruire un'opera fatta di immagini e di raccolte di testi e testimonianze varie (tra quella di un sopravvissuto) che li porterà all'insperata, almeno all'inizio, e meritata premiazione. Detta così a prima vista, sicuramente il film risulta troppo semplicistico nella vicenda che, iniziata sotto i peggiori auspici, termina come detto con una saggia presa di coscienza da parte degli alunni i quali nel corso del progetto si riscattano nella condotta e nell'adempimento dei propri doveri scolastici. Ma quello che è importante evidenziare, in questo film sulla shoah che fa riflettere ed emozionare, non è tanto la trama sicuramente semplificata, ma il lodevole impegno e la pazienza che l'insegnante mette nel voler trasmettere ad una classe di studenti, ritenuti in pratica senza più alcuna speranza, un'intensa e drammatica pagina di storia e soprattutto nel riuscire ad entusiasmarli, nonché ad essere profondamente toccati, all'apprendimento di questa. Ed è proprio in questo modo, si evince dal film, che la scuola dovrebbe funzionare ed agire nella realtà, con insegnanti aperti al dialogo ed alla comprensione ma anche alla punizione, quando necessaria, nel caso di condotte comportamentali disdicevoli. E l'insegnamento delle varie materie dovrebbe vertere più che su sterili nozioni su un apprendimento basato sul dialogo e sulla discussione atti a far riflettere e conseguentemente maturare gli studenti. Probabilmente esistono nella realtà insegnanti di questo tipo, dal momento che la pellicola, ripeto, è stata tratta da un fatto realmente accaduto, ma si è anche ben consapevoli che purtroppo nella maggioranza dei casi una scuola di questo tipo risulta un'utopia e che non tutti i docenti sono strutturati di così larghe vedute e soprattutto buona volontà ed amore per il proprio lavoro di insegnanti come quella interpretata dall'ottima Ariane Ascaride. Comunque, questo film commovente e coinvolgente, che affronta (grazie anche alla efficace regia) con delicatezza un argomento spinoso ma sempre attuale, che forse deluderà qualcuno per il suo apparente buonismo, perché ha il limite di allentare le tensioni per sollecitare il trionfo delle possibilità individuali, merita assolutamente di essere visto, anche perché il film, capace di toccare le corde giuste, appassiona e convince. Voto: 7
E' un documentario? un film di finzione? un film di protesta? cos'è veramente Taxi Teheran? L'ultima opera (vincitrice nel 2015 dell'Orso d'oro come miglior film al Festival internazionale del cinema di Berlino) di Jafar Panahi è soprattutto un regalo al cinema e alla gente che di cinema vive (e muore). Il film infatti, fotografato, montato, musicato, prodotto, scritto, diretto e interpretato da lui stesso, è una forma di libera espressione, un esempio di cinema coraggioso. Un cinema, una pellicola, seppur apparentemente semplice ma di grande coraggio intellettuale. Giacché la giustizia iraniana ha proibito al regista di girare film per i prossimi 20 anni, pena la prigione, ma lui non ci sta e gira lo stesso, e ci dimostra che non ci sono barriere che il pensiero libero non possa far cadere. Soprattutto in questo caso in cui un regista è capace di raccontare un Paese intero dall'interno di un taxi. Anche perché il regista stesso è conduttore di questo taxi che gira per la capitale iraniana, raccogliendo testimonianze di passeggeri (parenti, amici e sconosciuti) sulla vita quotidiana che si svolge nel paese. Ed emergono curiosità, credenze, contraddizioni e soprattutto, immancabili, le dure leggi, che il governo impone al popolo, limitando spesso la libera espressione e la possibilità di conoscenza di altre culture. Sul taxi infatti salgono donne e uomini, anziane, bambine che, nonostante le possibili conseguenze di certe affermazioni, ci dicono (come se non ci fosse una telecamera a riprenderli) la loro senza peli sulla lingua. Protagonista in questo senso una bambina, nipote di Panahi nel film e nella realtà, spontanea e intelligente che racchiude tutto il senso della pellicola in se stessa, l'opposizione creativa e non violenta vince sempre di fronte all'intolleranza e ad una giustizia che giusta non è. Perché in questo film delizioso, il realismo della messa in scena è a tratti geniale (altrettanto ingegnoso ed interessante il dispositivo adottato), tanto che, usando tre inquadrature (da una telecamera piazzata sul cruscotto) il regista riesce a raccontare una storia importante. Certo, qualche lungaggine inevitabilmente c'è, ma Jafar Panahi supera tutto, perché bastano pochi e semplici mezzi per realizzare un film come questo, a tratti divertente che fa riflettere. Dopotutto quando c'è un'idea alla base, originale e sentita, il risultato non può che essere positivo. Voto: 7
a me taxi teheran aveva fatto venire il mal d'auto... che insensibile che sono ;P
RispondiEliminaIn effetti passare l'intero film dall'interno di un'auto non è proprio rilassante ;)
EliminaLife, Animated non lo conoscevo affatto.
RispondiEliminaLo devo recuperare assolutamente!
Grazie! ;)
Grazie a te di avermelo detto, anche perché è un film davvero carino e di grande sensibilità da vedere ;)
Eliminadal potere persuasivo
RispondiEliminaSì.
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