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martedì 31 luglio 2018

Gli altri film del mese (Luglio 2018)

In un mese in cui di significativo o importante (similmente di bello) non c'è stato niente di particolarmente interessante, infatti tutto nella norma nonostante l'arrivo del picco dell'estate, nonostante la visione di alcuni discreti film (alcuni di essi sono proprio qui in questo post) e nonostante i numeri (ed anni) raggiunti dal blog, finalmente una notizia formalmente definitiva che mi fa tirare un sospiro di sollievo dopo alcuni tira e molla con l'istituto di previdenza sociale, mio padre è ufficialmente in pensione. In pensione dopo 43 anni di lavoro, di cui 3 da giovanissimo in Lussemburgo, e 40 in Italia, un terzo da operaio/meccanico tra diverse ditte (anche famigliari come anche all'estero) e i rimanenti da dipendente di Poste Italiane (prima come operaio e poi come portalettere). E tuttavia per questo non ci saranno né feste né tante cerimonie (c'erano già state comunque quasi due anni fa), ma solo la soddisfazione di aver raggiunto l'agognata meta di un lavoratore che da quando aveva 16 anni non ha mai smesso di portare a casa la pagnotta. Perciò mese decisamente positivo si prospetta Agosto, mese in cui, nonostante una pausa che coinciderà con la settimana di Ferragosto (in cui tuttavia metterò fieno in cascina), continuerò imperterrito a vedere film, sperando siano come quelli di oggi che non quelli di ieri.
Non esiste una guida tascabile per la felicità in generale, men che meno se si è adolescenti con un presente drammatico e tragico per la scomparsa di un genitore. Il film Guida tascabile per la felicità (A Birder's Guide to Everything), film indipendente del 2013 diretto da Rob Meyer, cerca di far coincidere il racconto del passaggio di un periodo cruciale nella vita di ogni persona e l'elaborazione del lutto che porta alla formazione e alla maturazione dei sentimenti, tentando la via della commedia per certi versi leggera ma delicata, senza calcare la mano né eccedere in un senso o nell'altro. Ne esce fuori un film per ragazzi che sa comunque parlare con una certa maturità, nonostante temi e dinamica già viste e usate nel cinema, gradevole e simpatico in alcuni momenti e più riflessivo in altri, ben interpretato e diretto senza sbavature, dotato di una sobrietà di fondo che coinvolge pur nel suo essere ordinario e privo di grandi acuti. Il film infatti, una commedia (praticamente un romanzo di formazione) dai toni allegri e divertenti rivolta ai ragazzi, tratta con toni delicati diversi temi universali dai rapporti familiari, all'amicizia, alla morte fino ai primi amori, in sostanza parla dei sentimenti, ma senza banalità grazie anche alle capacità dei suoi attori in particolare del protagonista, Kodi Smit-McPhee. Quest'ultimo interpreta David, un adolescente appassionato di birdwatching (hobby che riguarda l'osservazione e studio degli uccelli in natura e prevede la capacità di osservazione e di ascolto per il riconoscimento dei diversi canti degli uccelli), rimasto da poco orfano della madre che, in difficoltà nei rapporti con il padre che sta per risposarsi e che dopo aver intravisto un'anatra del Labrador, data per estinta a fine '800, compie un viaggio (proprio nel weekend del fatidico matrimonio) insieme agli amici Peter e Timmy e ad una ragazza, abile nella fotografia, su cui David ha timidamente messo gli occhi, per ritrovarla. Ma se ci riuscirà non è lecito sapere qui e adesso, di sicuro però la "caccia" fotografica si trasformerà in una lezione di vita per questi giovani e a trionfare saranno come sempre i buoni sentimenti. Perché insomma, Guida tascabile per la felicità è una lezione di vita su come imparare ad essere felici, è in sintesi una deliziosa commedia dal tono leggero, che pur ricalcando in parte gli stilemi, soprattutto nei personaggi, del filone delle teen-comedy (è impossibile non scorgere un vago richiamo o omaggio al famoso cult degli anni Ottanta, I Goonies), resta originale e unico, grazie alla sua freschezza e semplicità, con i suoi toni veloci, ma mai eccessivi. Non a caso il regista, anche se forse in maniera trattenuta, dimostra di saper maneggiare tanto i cliché del genere quanto la durata del lungometraggio con mano delicata. Giacché nonostante la pellicola sia decisamente pregevole dal punto di vista visivo con uno stile asciutto e non accademico che punta tutto sui giovani attori come James LeGros, Alex Wolff, Katie Chang e Michael Chen (capaci di stare negli stereotipi a loro affidati senza lasciarsi inglobare del tutto da essi), e nonostante il piccolo sommovimento che porta con sé la comparsa(ta) di Ben Kingsley nei panni del veterano del birding Lawrence Konrad, il tono generale del film resta infatti un po' piatto e la missione filosofica dell'osservatore, tanto ben enunciata nel dialogo tra David (Kodi Smit-McPhee, che già aveva provato la sua notevole presenza scenica in Lasciami entrare, qui guida con grande naturalezza il film da cima a fondo) e la sua nuova amica, resta qualcosa che poi trova soltanto un'applicazione un po' banale, nella corrispondenza tra la sofferenza della madre e quella dell'anatra marina. Comunque un film gentile e d'atmosfera, ambientato al confine tra città e natura, che invita a guardare oltre le mura domestiche e scolastiche e ad avventurarsi in un mondo più adulto, ma soprattutto più grande. Voto: 6+
Dopo il documentario sulle insidie del web Catfish e la regia di Paranormal Activity 3 e 4Henry Joost e Ariel Schulman si divertono (e divertono) con Nerve, teen-thriller sulla falsa riga di Black Mirror che, nonostante le tantissime influenze, può vantare un'anima propria. Il film del 2016 è infatti un bel thriller giovanile molto originale (accattivante e intelligente) sulla potenza (e pericolosità) delle app al giorno d'oggi, la cui trama ti porta inevitabilmente a pensare al fenomeno (o presunto tale) Blue Whale, anche se il thriller è decisamente meno allarmistico riguardo al tema dei giovani manipolati dalla Rete. Tuttavia nonostante non ci siano dei legami effettivi tra questo "gioco" e Nerve, le loro regole sono piuttosto simili: persone anonime impongono ai giocatori delle sfide che devono essere superate ad ogni costo. Simile è anche il risultato, giacché in questa realtà, dove ogni proposta, anche la più pericolosa, deve essere accettata, i giovani vengono sopraffatti da un gioco (un pericoloso gioco molto inquietante perché potrebbe veramente succedere) apparentemente innocuo ma che finisce per essere letale. Ed è a questo gioco online, illecito e malato, chiamato appunto Nerve, che Vee (Emma Roberts), studentessa e figlia modello, decide di iscriversi come giocatore per dimostrare all'amica Sydney di essere pronta a correre dei rischi. Questo social game, che si svolge in una New York patinata e discretamente fotografata, la porrà di fronte a sfide con premi in denaro che la porteranno prima a baciare Ian (Dave Franco), un altro giocatore affascinante e spericolato, e poi a diventare la sua compagna nelle prove successive. La profonda complicità che nasce da subito tra i due, spingerà Vee ad accettare sfide sempre più estreme e spericolate risucchiandola in qualcosa di oscuro che non avrebbe mai nemmeno immaginato (e in tal senso l'ansia non manca anche nello spettatore, e non solo nello svolgersi, e degenerarsi, della situazione). Ma quando finalmente si renderà conto del guaio in cui è capitata, cercherà di tirarsene fuori avvertendo la polizia. La verità ha però un prezzo e la prima regola di Nerve è proprio non parlare di Nerve (Fight Club docet). E quindi solo rischiando la propria vita potrà fermare questo stupido gioco, ci riuscirà? Cattura dal primo secondo con una regia bella ritmata e dinamica Nerve (d'altronde sempre veloce, movimentato, pieno di colori e attenzione ai particolari è il cinema della coppia di registi), perché anche se in verità la sceneggiatura non è molto originale e non scava molto a fondo (il finale non per caso è abbastanza semplicistico), essa convince abbastanza, poiché dal lato puramente action appunti se ne possono fare davvero pochi, il ritmo appunto è indiavolato e la serie di prove ben congegnata. Certo, molto probabilmente gli spettatori trentenni e oltre si sentiranno fuori target, ma ne rimarranno conquistati. Perché il film, che corre veloce veloce, come la moto del protagonista (non a caso è ambientato integralmente in una lunga, adrenalinica notte newyorkese), che diverte, e che ha delle scene al cardiopalma e che lascia comunque uno spunto di riflessione (su questa era dove siamo governati dagli smartphone e dal desiderio di visualizzazioni e di followers), che trae il suo spunto da un libro del 2012 ad opera di Jeanne Ryansi presenta graficamente accattivante per il pubblico più giovane (e non) anche grazie all'utilizzo abbondante di scene girate in POV e scritte sovrimpresse. Non dimenticando una valida colonna sonora e originali titoli di coda. Non dimenticando altresì che in questo film dove non mancano tensione, adrenalina e belle idee (e intriganti immagini), e nonostante i personaggi siano più che altro delle bozze senza una vera e propria profondità psicologica, i giovani, carini e di una naturalezza esaltante attori protagonisti, su tutti Emma Roberts (una delle più brave tra le giovani interpreti di Hollywood) e Dave Franco (fratello del più famoso James Franco, che risulta convincente) riescono comunque a fare un buon lavoro interpretando le loro parti senza infamia e senza lode. Come in parte il cast di contorno comprendente la bella Emily MeadeJuliette Lewis, nei panni dell'unico adulto coinvolto nella vicenda e il rapper Machine Gun Kelly. Certo, in verità e alla fine, gli imprevedibili effetti dei social network e le mutazioni dei concetti di privacy, esibizionismo e anonimato sul Web sono questioni troppo complicate perché un filmetto come Nerve possa dire qualcosa di innovativo al riguardo. Ma se è un filmetto come Nerve riesce comunque a dire qualcosa facendoti anche divertire, allora il tempo speso nel vederlo è più che giustificato e meritato. Voto: 6
È plausibile che una stimata storica, professoressa universitaria, sia costretta a dimostrare in tribunale che le accuse mosse a un negazionista di aver distorto volutamente i fatti storici, non rappresentino diffamazione? È possibile che, per farlo, debba addirittura portare davanti a un giudice le prove che dimostrino l'effettiva esistenza dell'Olocausto? In Inghilterra, dove non esiste la presunzione d'innocenza, sì. È quello che è successo realmente (negli anni novanta) a Deborah Lipstadt (Rachel Weisz), professoressa di studi ebraici moderni e dell'Olocausto all'Emory University di Atlanta, quando il sedicente storico David Irving (Timothy Spall) l'ha citata in giudizio al tribunale di Londra, dando così vita a uno dei processi più paradossali e significativi degli ultimi decenni. Per quanto assurdo che sembri, La verità negata (Denial), film del 2016 diretto da Mick Jackson, tratto dal libro History on Trial: My Day in Court with a Holocaust Denier di Deborah Lipstadt, racconta quindi come non sia così semplice provare l'ovvio, soprattutto quando a rimetterci potrebbe essere la storia stessa e milioni di morti senza colpa. Ma qui si tratta della storia, e perdere potrebbe distruggere una delle verità sui fatti più atroci che l'essere umano abbia mai commesso. Nel duello tra Irving (che ha deciso di difendersi da solo) e la Lipstadt, a prendere il sopravvento è invece l'avvocato Richard Rampton (un come sempre grandissimo Tom Wilkinson), perché con la sua strategia deve difendere le sorti dell'umanità intera e la sua verità storica. Perché cosa si può rispondere a chi sostiene che ad Auschwitz non ci siano state camere a gas? Le parole potrebbero non bastare, proprio perché in questo caso servono le prove, scientifiche e provate, anche se i fatti sono oggettivi, testimoniati dai sopravvissuti e comprovati dalla storia stessa. Eppure il processo va avanti, ed è incredibile come le persone coinvolte, e non solo, si trovino davanti l'evidenza negata. Processo che prende buona parte della pellicola, dopotutto La verità negata, è un vero thriller giudiziario (cosiddetto legal drama), che racconta meticolosamente la battaglia legale intrapresa dall'autrice (ma anche le parti più intime delle persone coinvolte), un genere che si fonda sull'attesa delle udienze con tutto ciò che comporta (causa del contenzioso, turbamento dell'imputato, mestiere investigativo, confronti preliminari) e su un'esatta sintesi tra intrattenimento e coinvolgimento, che qui riesce ad essere ben inserito nell'architettura del processo inglese, del quale vengono spiegati alla protagonista americana (e a noi spettatori) i meccanismi, le regole, i ruoli, i pericoli. Alla regia, il veterano Mick Jackson (di cui si ricorda soprattutto Guardia del corpo e Vulcano: Los Angeles 1997) dirige con mano sicura (perché grazie soprattutto alla sceneggiatura di David Hare, il ritmo è spedito e non ci si annoia mai, egli riesce a non cadere nella trappola di un pedante sentimentalismo) un film che al di là del tema sa incidere allacciandosi ad una variegata tradizione (non solo il legal ma anche la solida, elegante, nobile medietà britannica) e servendosi di abile mestiere. Il meglio sta nella direzione degli attori, specie nei grandiosi non-duetti tra il viscido negazionista del mefistofelico Timothy Spall e il blasonato avvocato del magistrale Tom Wilkinson (che non guarda mai negli occhi l'avversario), non dimenticando comunque una funzionale Rachel Weisz. Pertanto il film risulta senza alcun dubbio molto ben diretto e complessivamente aderente ai fatti reali, che pone altresì diversi interrogativi e riflessioni sul tema. Proprio perché questa è un'ottima occasione (dopotutto la pellicola apre alla discussione e a quanto peso possano avere le parole, la storia e la memoria) non solo per riaffrontare un tema delicato ma che necessita di essere sempre ricordato, quello appunto dell'olocausto, ma per indagare anche il tema della manipolazione della realtà, che può essere attuata da studiosi, media, sedicenti "esperti" di varie materie, per sostenere tesi a loro più convenienti. Un film per questo utile e necessario, di quelli "da far vedere nelle scuole", che mostra quanto una verità, seppur assoluta, possa essere messa in discussione e quanto sia necessario prodigarsi per difenderla. Certo, non è questo un capolavoro, anche perché questo documento legale verte forse su un rigore eccessivo e classico, risultando più interessante per le parole che per la storia stessa, tanto che, essendo anche troppo specifico e minuziosamente rappresentato e dialogato, potrebbe interessare solo pochi spettatori, tuttavia, e nonostante uno stile alquanto forzato, e pur essendo un film costruito sulla parola e non sull'azione, si resta coinvolti e con il fiato sospeso fino alla sentenza, non senza soffrire dell'assurdità della situazione. Un film quindi non eccezionale ma importante ed interessante, da consigliare a tutti (e soprattutto ai giovani) affinché si resti sempre vigili di fronte a ciò che si ascolta, si vede, si legge, per non dimenticare di ricordare. Voto: 6,5
Vincitore di numerosi premi tra cui quello per la migliore sceneggiatura al Dublin Film Festival (e selezionato dalla Bulgaria per la corsa all'Oscar al miglior film in lingua straniera), Glory: Non c'è tempo per gli onesti (Slava), film drammatico del 2016, narra una storia semplice e potente, di dilaniante forza emotiva che conquista con semplici ma fondamentali mezzi espressivi tra cui una solida sceneggiatura, un significativo ancoraggio al presente e autentiche interpretazioni. Un film (duro e purtroppo quanto mai realistico per ciò che concerne la sua storia) che rappresenta la contrapposizione di due mondi agli antipodi, le due anime della Bulgaria di oggi, il mondo onesto e semplice di un uomo qualunque e quello paludato della attualità politica bulgara fatto di opportunismi, corruzione e giochi di potere. Una parabola universale sulle terribili conseguenze che può avere l'arrogante superficialità con cui i potenti del mondo trattano coloro che sono più indifesi. Scritto e diretto da Kristina Grozeva e Petar ValchanovGlory: Non c'è tempo per gli onesti infatti, che racconta di un'operaio delle ferrovie che trova un'ingente somma di denaro sui binari e che decide di portare tutti i soldi alla polizia, e che grazie a quest'azione riceve in cambio un orologio da polso che però presto smette di funzionare, e che nella confusione di una conferenza stampa "pilotata" dal capo della sezione PR del Ministero dei Trasporti smarrisce l'orologio di famiglia (e la dignità) e che quindi per questo non si darà pace per recuperarlo, riprende un tema evidentemente a loro molto caro: quello dell'onestà e dei compromessi collegati. Questi erano infatti argomenti presenti anche nel loro precedente lungometraggio, il bel ed interessante (comunque non proprio sufficiente) The lesson: Scuola di vita, qui la nota è più ironicamente amara e grottesca (che parte come commedia ma che prende toni drammatici soprattutto sul finale, alla sua personale odissea e alle sue insistenze per riavere l'orologio), anche grazie alle goffaggini caratteristiche del protagonista (interpretato da Stefan Denolyubov), che si trova suo malgrado stritolato in situazioni beffarde e quasi kafkiane. Giacché la questione si ingrosserà e deflagrerà velocemente coinvolgendo anche altri personaggi della vicenda (un giornalista televisivo che invita subito Tsanko, il nostro protagonista, in trasmissione perché riveli a tutti i furti di cui è stato testimone e mettere così in difficoltà il ministro, che a sua volta vuole evitare di venire messo in mezzo) che mirano anch'essi soltanto ai propri interessi professionali ed economici, a tal punto che colui che da tutta la vicenda rimarrà profondamente danneggiato ed umiliato sarà proprio l'onesto operaio. Su tutti la colpa è da ricadere sulla pr in carriera Julia Staikova (Margita Gosheva), la più insensibile, quella desiderosa solo di far fare bella figura al ministro, che solo sul finale, dopo un grosso spavento, ha un ravvedimento (anche se potrebbe essere troppo tardi..). In un finale dell'opera che appunto, tuttavia non so quanto probabile nella realtà, costituisce l'unica e giusta conseguenza a quanto è accaduto, e non poteva che essere altrimenti. Dopotutto per questo (inoltre l'andamento della storia nel suo corso si infittisce e si complica attanagliando l'attenzione dello spettatore che alla fine è desideroso di scoprire come essa avrà termine), la visione vera e pessimistica sulla società e complessivamente sul genere umano espressa dai suoi autori, rimbomba e rimane solida e ben impressa negli occhi e nelle coscienze dello spettatore. Glory però e quindi non è solo un buon film con una trama semplice ma piena di significati umani, giacché esso è anche un film sulla solitudine, quella di un uomo emarginato dai colleghi, che vive isolato solo con la compagnia dei suoi conigli e con il supporto della proprietaria di un bar cui si rivolge quando ha bisogno, ma anche un film gradevole e ben strutturato, con passaggi grotteschi e con qualche spunto umoristico che la figura del personaggio sprigiona nel suo modo di fare. In tal senso anche se forse un po' forzato (probabilmente anche dal doppiaggio) è la balbuzie di Tzanco, buone sono le prove degli attori, con i protagonisti presenti anche nella pellicola precedente della coppia di registi. Registi che nuovamente fanno centro grazie ad un film certamente non è eccezionale, anche troppo surreale (non tantissimo in verità) e leggermente lento, ma interessante, non banale, ironico, spiazzante, significativo e quindi da vedere. Voto: 6,5
Non è certamente il film che ti aspetti, Perfect Sense, film del 2011 diretto da David Mackenzie. Perché di solito quando si pensa ad un film apocalittico, viene da pensare a tutt'altro, ma la pellicola (presentata in anteprima al Sundance Film Festival nel 2011), che è comunque un film apocalittico, fantascientifico, è però ben altro, molto di più. Si tratta infatti di una raffinatissima riflessione sull'amore e la condizione umana, fatta con un budget ridotto, regia minimalista, dialoghi essenziali, poche parole ma incisive. Difatti come in Melancholia di Lars Von Trier, l'elemento fantascientifico è soltanto un pretesto, sfruttato dal regista con uno scopo ben preciso: parlare di amore, in un modo (approccio) insolito (inusuale e spiazzante), mai tentato prima. Un'approccio molto minimalista che si differenzia da altre pellicole di genere e che in un certo senso gli dona una certa originalità. E' innanzitutto, infatti, un film romantico, ricco di intimismo, che si da l'obiettivo di scrutare l'animo umano, analizzarlo nelle sue più recondite particolarità, sezionarlo in modo quasi scientifico, metterne a luce le contraddizioni (ma anche le infinite possibilità di quella che è una macchina sensazionale, il nostro corpo, la nostra mente). Non a caso il film (semisconosciuto in Italia, dove non è nemmeno arrivato nelle sale, ed arrivato qui da noi solo 7 anni dopo grazie a Sky), è un inno alle cose essenziale della vita, in una nera metafora sul consumismo, i rapporti di coppia, la crisi economica e il materialismo dilagante nella società odierna. In tal senso non bisogna perciò cercare la razionalità della trama, assurda ed irrealistica, quella di un mondo invaso da una strana epidemia (priva di fondamenti scientifici), che non si riesce bene ad identificare, che fa perdere alle persone l'uso dei sensi, a partire dall'olfatto, ma vivere il film a mente libera come un esperienza sensoriale. Ben presto ci si rende conto che tutti i sensi, prima o poi se ne andranno. L'esito finale dell'epidemia appare ineluttabile, intuiamo la paura, riflettiamo su ciò che abbiamo e che diamo per scontato, ne avvertiamo la grandezza. Lo avvertono soprattutto i due protagonisti (mentre attorno a loro esplode la follia), interpretati da un bravissimo Ewan McGregor e da una straordinaria e sontuosa (di meno non si può dire perché è praticamente una Dea) Eva Green (con un feeling eccezionale tra i due), rispettivamente un affermato chef di Glasgow ed una epidemiologa che sta studiando la malattia, che s'incontrano, si compensano, si amano. Proprio perché questo film, strano ma bello, visivamente molto forte, con una fotografia imperfetta e cupa, ambientato nella Scozia contemporanea, è un inno all'amore che riuscirà a sbocciare fra due persone chiuse alla vita ben prima che scoppi l'epidemia (che presenterà in profondità e problematiche e le emozioni dei due protagonisti e di chi li circonda), un amore (un intimità che non si perde nemmeno quando come in un documentario insieme ai monologhi della protagonista vediamo scorrere immagini varie dell'umanità) capace di sopravvivere alla fine di tutto, perché quando tutti i sensi sono spenti ciò che resta sono solo le emozioni, e solo con quelle l'umanità potrà salvarsi. Perfect Sense per questo è una pellicola (un perfetto mix di brutalità e dolcezza, un'istantanea sull'amore ai tempi dell'apocalisse) che penetra nell'anima per la sua forza espressiva. Una pellicola (un immenso inno alla vita, ai sentimenti che nessuna epidemia può cancellare) con un finale poetico e struggente. Tanto che in alcune sequenze si raggiungono vertici di lirismo poetico, anche se alcune di queste magari potevano essere evitate, ma è soltanto un piccolo difetto in un film certamente non perfetto, la sceneggiatura non è certo impeccabile (a tal proposito bisogna dire infatti che non tutto fila liscio, non tanto nel comparto tecnico, bravo il regista del mediocre Toy Boy e bravi gli attori, quanto in una certa discontinuità fra ottime sequenze e cadute nell'involontario comico di una pellicola seriosa ai limiti della pretenziosità, ma anche affascinante come il volto, e la bella voce fuori campo, di Eva Green e con un approccio coraggioso e per nulla banale) e sicuramente non è un film per tutti, ma è senza dubbio un'opera che ti lascia dentro qualcosa di grande. Giacché David Mackenzie riesce a rinnovare un genere con una storia, seppur non priva di alcuni furbi artifizi, in grado di emozionare a più riprese. Infatti fondendo dramma romantico ed "epidemic movie", cattura appieno una sensazione di spaesamento e impotenza in un mondo sull'orlo di un'apocalisse sensoriale inevitabile, sfruttando nel migliore dei modi una riuscita alchimia tra Ewan McGregor ed Eva Green (lei semplicemente meravigliosa ed oltre), entrambi più che discreti. Come più che discreto è questo film, un film che merita e che convince. Voto: 7
Opera prima del regista spagnolo Dani de la Torre, Desconocido: Resa dei conti (El desconocido), film del 2015 interpretato dai premi Goya Luis Tosar (Ma ma: Tutto andrà bene), Javier Gutiérrez Álvarez (La Isla Minima) e Goya Toledo, che ha conteso a Truman la gran parte dei riconoscimenti ai Premi Goya 2016, aggiudicandosi però solo un paio di vittorie nelle categorie tecniche, premi tuttavia significativi come il miglior sonoro e il miglior montaggio, e in effetti il montaggio è frenetico e adrenalinico in questo film (che mescola thriller, azione e dramma) angosciante e ben fatto (che ricorda film americani come Speed o In linea con l'assassino, ma anche il personalmente deludente Locke), che prende lo spettatore dall'inizio in una spirale senza apparente via di uscita, è un film che fa della suspense il suo punto di forza, fedele ai canoni del genere. Per questo il thriller, che racconta di un dirigente di banca deciso e spregiudicato che si ritrova in una situazione altamente letale in compagnia dei suoi due figli, ovvero quando un interlocutore sconosciuto (appunto Desconocido) che per ricatto dice che sull'auto c'è una bomba (cosa che se vera o bluff porterà comunque il protagonista su una strada pericolosa), un film che si ispira al caso spagnolo della vendita delle "Participaciones Preferentes", un prodotto finanziario ad alto rischio venduto da alcune banche spagnole ai propri clienti senza dar loro alcuna informazione, è un thriller adrenalinico e coinvolgente che riesce a coniugare intrattenimento e critica sociale, con una feroce analisi della spregiudicatezza del sistema bancario e delle drammatiche conseguenze umane che ne sono derivate. Ma se la tensione generata dal racconto è effettivamente sempre ben sostenuta, molti altri aspetti del film sono meno validi, alcuni francamente deludenti: anzitutto c'è una ricercata stilizzazione hollywoodiana che quando non perfetta tende a tramutarsi inesorabilmente nella classica "americanata" soprattutto in alcune scene di azione, in certi snodi narrativi e alcuni dettagli forzati, poi il tono melodrammatico, forzato anch'esso in più di una circostanza che va a intaccare il buon profilo dei personaggi e la loro storia personale. Viceversa alcuni aspetti funzionano decisamente meglio, quelli meno legati al genere thriller: il dramma del protagonista che in un attimo vede sgretolarsi la sua vita professionale e quella privata, evento che mette a nudo i suoi errori e la sua stessa filosofia di vita, la dura e spietata critica al sistema finanziario e bancario in mano a personaggi senza scrupoli pronti ad appestare il mercato con titoli tossici gettati in pasto agli investitori e le tragiche conseguenze che questo atteggiamento hanno comportato in tutti gli angoli dell'Europa. Tecnicamente inoltre Dani de la Torre dimostra buone doti di regia privilegiando riprese in cui dominano i toni glaciali e freddi, ben sostenute da un montaggio valido e da un accompagnamento musicale che non vai mai sopra le righe. Nel complesso quindi Desconocido: Resa dei conti si risolve in una opera ricca di chiaroscuri, fortemente influenzata da certo cinema americano d'azione che mostra le indubbie buone doti del regista che va atteso con attenzione alla prossima prova, sperando magari in una minor ambiziosità progettuale. Gran parte del film riposa sulle forti spalle di Luis Tosar, all'ennesima eccellente prova, in un ruolo cui riesce con grande efficacia a regalare la giusta profondità psicologica. Tra gli attori di contorno una menzione la merita la giovane Paula del Rio nella parte della figlia del protagonista, l'unico altro personaggio di spessore del film. Un film tuttavia e in conclusione che, malgrado qualche incongruenza di sceneggiatura (che rimane solida, feroce e reale per tutto l'arco narrativo, anche se poi si perde qua e là), è un film che riesce a tenere con il fiato sospeso senza mai annoiare, cosa non da poco. E quindi è questo un discreto e rispettabilissimo, seppur non eccezionale, film di intrattenimento. Voto: 6,5

6 commenti:

  1. Nerve e Desconoscido carini, il secondo più del primo. Nerve è impreziosito dalla carinissima Emma Roberts e niente più, perlomeno Desconocido ha un primo tempo che è una bomba, anche se poi si ammoscia.
    Perfect Sense invece è splendido come i suoi protagonisti, un film che mi ha messo un'angoscia indescrivibile.

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    1. In verità si ammosciano un po' entrambi, tuttavia sono due film certamente consigliabili ;)
      Angosciante è dir poco, se penso al film non riesco a non pensare che in quella situazione proprio non saprei come fare, in più c'è sua maestà Eva Green in tutto il suo splendore, cosa volere di più :)

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  2. Nerve mi stuzzica...di questi è quello che metto in lista!

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    1. Ti consiglierei di mettere anche tutti gli altri in lista, tuttavia la tua è una scelta più che giustificabile visto il tema e il nostro momento storico e culturale ;)

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  3. Visto nessuno...e credo rimarranno così... ultimamente delusioni a gogo'... a mio avviso troppo cinema, e le buone cose (poche) spesso si perdono nel marasma...

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    1. Effettivamente il troppo confonde e dissimula il cinema di qualità, ma il mercato è questo e sta a noi cercare la via giusta, la pellicola giusta ;)

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