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mercoledì 12 settembre 2018

Enter the Void (2009)

Fin dai titoli di testa si capisce subito che Enter The Void, film del 2009 scritto e diretto da Gaspar Noé, non è un film comune. Il problema è che per la prima volta per questo, non so che voto mettere (forse uno politico?) ad una pellicola del genere, così spiazzante e controversa, creata ad arte per mettere alla prova lo spettatore e dividere la critica. Enter The Void è sicuramente innovativo e molto affascinante (almeno per l'epoca della sua realizzazione), e connette in maniera intelligente il tema della morte ed il mito della reincarnazione nella fede buddhista con il mondo delle droghe allucinogene e delle Esperienze extracorporee. Il regista gioca infatti gran parte delle sue carte sull'impatto visivo: molte scene (soprattutto i devastanti titoli di testa, il trip di dimetiltriptamina iniziale e lo sfolgorante viaggio finale) sono straordinarie nella loro "violenza", la fotografia e le scenografie sono estreme nel loro intermittente sfavillare di luci al neon, e l'iperrealismo delle riprese in POV (con tanto di battiti di ciglia) è una trovata audace quanto efficace. Ma alla lunga l'insistente estetismo delle scene stanca non poco, e la durata a parer mio eccessiva (160 minuti) non aiuta, rendendo il film più volte arrancante e noioso, oltre che farraginoso nello sviluppo. La sotto-trama drammatica non possiede la potenza che ci si aspetta (la matrice edipica e le allusioni incestuose, secondo me, lasciano il tempo che trovano) e sembra che tutto sia solo un pretesto utile a Gaspar Noé per far vagare senza pace la sua macchina da presa sopra i luminosi palazzi di Tokyo. E' di sicuro un film molto sentito, un progetto lungamente atteso dal regista, che ebbe modo di provare i più svariati tipi di allucinogeni in gioventù (per sviluppare il concept del film andò persino in Perù a provare l'ayahuasca) e che si sente molto vicino alle delicate e difficili tematiche che il film affronta. E' una pellicola che lascia però interdetti. A visione ultimata rimane una sgradevole impressione di un fuoco di paglia, di un puro esercizio di stile che nasconde poca profondità di contenuti: eppure è un film che non si riesce a dimenticare e che sicuramente non invecchierà con facilità (non l'ha fatto neanche dopo quasi 10 anni). Non posso negare difatti che si sia ben impresso nella mia mente e che sia stata una visione soddisfacente, e quindi in verità non riesco ad indicare un preciso motivo per il quale non mi ha convinto, penso solo che dall'idea di base mi aspettavo molto di più e davvero si poteva tirar fuori un capolavoro. Capolavoro che questo film non è, anche se un voto, seppur solo e leggermente positivo questo film lo meriti ugualmente.
Il regista Gaspar Noé lo ha definito "melodramma psichedelico": niente di più azzeccato, il genere drammatico e il carattere psichedelico sono alla pari in questo film ibrido ambientato a Tokio, in cui Oscar (Nathaniel Brown), un giovane spacciatore americano, e sua sorella Linda (entrambi orfani) vivono da poco. Il giovane protagonista si guadagna da vivere spacciando, una sera viene incastrato da un altro spacciatore e ucciso dalla polizia. Oscar vive però un'esperienza extracorporea che gli permette di vedere tutto ciò che accade a sua sorella e al suo giro di conoscenti, fluttuando sopra le strade e i locali notturni di Tokyo, un'esperienza che lo farà "partecipare" alle sofferenze e alle angosce che la vita senza di lui lascia in eredità a Linda, Oscar e all'amico Victor (Olly Alexander). Dopotutto il titolo stesso della terza pellicola dell'eccentrico Noé (una sfiancante marcia psichedelica e psicotropa attraverso la mente e lo spirito di un giovane spacciatore caucasico a Tokio), girata dopo il precedente Irréversible con Monica Bellucci e Vincent Cassel, è un viaggio nel vuoto, nelle allucinazioni degli acidi, per la precisione di DMT, ossia la sostanza che il cervello rilascia nelle persone in fin di vita. Un viaggio in cui Noé perciò tratta molti temi: la morte, la reincarnazione ispirandosi al Libro tibetano dei morti (in tal senso se apparentemente senza senso, Enter The Void, necessita di una chiave di lettura fondamentale proprio in quel libro), la droga, il sesso, la seduzione. Temi che tuttavia in questa strana pellicola, psichedelica e fluorescente, che spinge il pubblico al limite della sopportazione, per le immagini proposte soprattutto nella parte finale, anche se è evidente una messa in scena originale di una poetica personalissima, trovano spesso il tempo che trovano. Non a caso Enter the Void è un'opera discussa e discutibile, che fonde virtuosismo e ambizione filosofica in un amplesso psichedelico quantomeno curioso. Attraverso l'escamotage dello spirito del protagonista che ripercorre a ritroso il proprio passato (e finisce prevedibilmente per reincarnarsi), il regista cerca di cogliere il senso ultimo della vita, del tempo e dell'amore, mostrando contemporaneamente gli aspetti più rivoltanti della tossicodipendenza e della prostituzione dei giorni nostri. Il risultato, tuttavia, pur essendo visivamente suggestivo, risulta, contenutisticamente, un festival dell'ovvio e delle banalità. A zavorrare ulteriormente il film, la naturale inclinazione autoriale alla provocazione superflua e sensazionalistica (non la nomino nemmeno quale sia), che fa scivolare l'opera dentro gli abissi del trash e del patetico. La prolissità e la ridondanza narrativa, inoltre, non aiutano.
Come non aiutano i rumori sordi e insistenti che accompagnano la visione di Enter the Void, che non è affatto un film semplice, ma che è anche un film che in ogni caso colpisce, anche in positivo (e in tal senso meglio vederlo con i sottotitoli, perché il doppiaggio italiano è mediocre). Colpisce la sensualità selvaggia e brutale della modella e attrice Paz de la Huerta (soltanto intravista e per niente sensuale nel pessimo Nurse), esaltata dalla fotografia di Benoit Debie, che si dimostra un maestro negli effetti fluo e neon. Una Tokyo da diventare matti, tra insegne fluorescenti e locali disgustosi, ma molto d'effetto. Fin dalla prima inquadratura colpisce inoltre la scelta di girare interamente in soggettiva, sulla scia di film come The Blair Witch Project e Cloverfield, anche se ci si muove su un altro supporto. La soggettiva infatti non proviene da una cinepresa o da una telecamera, ma appartiene agli occhi (da vivo o da trapassato) di Oscar. La cosa che però maggiormente colpisce del film è l'uso sovrabbondante di immagini psichedeliche ed acide che ci accompagneranno per tutta la durata della pellicola. Durante queste noi non vedremo forme riconoscibili ma solamente colori, ombre e geometrie percepite di solito da chi assume DMT ed altre sostanze affini, ricreando il trip che ogni sballato cerca. Sono immagini vuote, senza senso alla fine, così come l'atto stesso del drogarsi. Per quanto riguarda la tecnica registica, Noé è uno sperimentatore, uno che non segue le regole ed utilizza la macchina da presa come meglio crede, senza utilizzare schemi fissi. Tra una scena e l'altra, non avremo delle vere e proprie dissolvenze ma veloci passaggi aerei sopra alla città che ci trasporteranno da un luogo all'altro. Da notare come il regista usi anche la macchina da presa per creare distacco tra noi e ciò che vedremo sullo schermo: all'inizio vedremo Oscar in prima persona, poi dalle sue spalle, poi dall'alto ed infine da lontanissimo, da sopra alla città, facendoci allontanare dai protagonisti che tanto ameremo quanto odieremo per il loro egoismo. E quindi davvero impressionante lo sforzo fatto in computer grafica per realizzare le numerose scene degli estenuanti trip di Oscar sotto gli effetti della droga, assolutamente fantastica invece la realizzazione dei titoli di testa, concepiti proprio come un viaggio lisergico, con una musica elettronica martellante, scritte al neon che si alternano a velocità allucinante, ognuna con un diverso carattere e diversi colori, una vera arma letale per tutte le persone che soffrono di attacchi epilettici (a tal proposito se qualcuno soffre di epilessia si tenga lontano da tutto il film perché di scene del genere è piena tutta la pellicola).
Coraggiosa, come detto, la scelta di girare gran parte del film in soggettiva (in tal senso a rischio nausea la prima mezz'ora per i continui spostamenti di visuale). Come coraggiosi e ugualmente riusciti (solo in parte però) sono i turbinosi movimenti di macchina e le lunghissime (e lentissime) carrellate aeree su una Tokio da incubo, enorme ma scarna e svuotata, che lasciano comunque il segno. A un certo punto l'impressione è però che Noé si lasci prendere, e non poco, la mano e il tutto si scioglie troppo spesso in una spropositata autoesaltazione, in un pomposissimo sproloquio nichilista assolutamente fine a se stesso: giusto creare forte disagio nello spettatore per immedesimarsi nella vicenda, ma il film è pieno (complice una durata sproporzionata) di scene ossessive ripetute ben oltre il limite della noia, come l'inizio dei viaggi di Oscar con schermo monocolore e musica elettronica, o i suoi infiniti spostamenti risolti negli interminabili movimenti di camera. Sembra, insomma, che Noé si rivolga allo spettatore chiedendo dove possa arrivare la sua pazienza e spirito di sopportazione. Una domanda che sembra guidare la scelta anche in certi primi piani o nella scena dell'aborto di Linda, che vorrebbero essere crudi e reali, ma risultano ridondanti (e in tal senso pellicola poco adatta ai "deboli di stomaco" è questa, per ciò che accade ed anche un po' per ciò che il regista sceglie di mostrare, su tutte abusata attenzione nei confronti del rapporto sessuale, troppo frequente e troppo visibile): l'inquadratura che caratterizza l'apice della parte conclusiva della pellicola rovina infatti un finale che si sarebbe potuto definire poetico. Ed è un peccato perché la prima mezz'ora è stata un'esperienza audiovisiva di coinvolgimento unica: sentirsi il protagonista del film, vivere le sue sensazioni e i suoi deliri in maniera esagerata. Merito dello stile di riprese in soggettiva perfetto. Poi...poi il film cambia: ci sono flashback repentini, ammiccamenti al complesso edipico e una riflessione continuata sulla morte e il dolore, sesso (tanto sesso), la pornografia della realtà con lo sfondo di una Tokyo psichedelica e straniante. Proprio perché il problema principale è che il regista sceglie da questo momento di farci vedere tutto dagli occhi del ragazzo morto, sicché iniziano panoramiche della città che all'inizio sono anche carine, ma il punto è che l'inquadratura rimane sempre fissa dall'alto perennemente, la storia semmai ce ne fosse una, svanisce in una serie di immagini che se in un primo momento destano curiosità, finiscono poi molto presto per favorire noia se non addirittura fastidio.
E perciò i colori fluorescenti, le stanze colorate, che pure possono essere pregevoli alla vista, in questo contesto non fanno altro che confondere ancora di più il povero spettatore, che si ritrova di fronte a immagini funky, scene di sesso con piselli a volte luminosi (in alcuni casi da vomito la schiettezza spiattellata con violenza da Noé), e più di tutto, la mancanza di una storia vera e propria che latita per tutta la durata di questo lungometraggio. Come se non bastasse, Enter the Void dura tantissimo, circa 2 ore e 40 minuti, ma soprattutto c'è quel finale lento, ridondante, ripetitivo e francamente scadente, e pure telefonato. E quindi cosa resta alla fine di Enter the Void? La sensazione mentre ci ripenso tende al negativo anche se questo è un esperimento di cui si continua inevitabilmente ancora a parlare. Noé ha girato una pellicola dei suoi sogni che urla in continuazione "guardatemi, sono unica nel mio genere", una scatola purtroppo piena di spunti abortiti o sviluppati con banalità: perché non ci si faccia ingannare dal delirio visivo da giramento di testa, Enter the Void non è un capolavoro (ma capisco che per molti possa esserlo) ma nasconde benissimo una filosofia del dolore che altri autori meno appariscenti hanno analizzato meglio. Perfino Lars Von Trier, che di certo non è uno che realizza pellicole modeste o non ambiziose, nei suoi lavori peggiori o più controversi (ma quale non è controverso) ha dato più interesse al contenuto che alla scatola. Con Noé la sensazione è contraria. Se la prima ora e mezza basta e avanza per fare di Enter the Void un'opera altalenante ma senza dubbio piena di interesse, poi il film si specchia in sé stesso, diventa ancora più artificioso di quanto già è di suo: interminabili panoramiche che un paio di volte sono fantastiche, certo, nell'illustrare come la macchina da presa si insinui in ogni luogo e faccia le veci di Dìo, ma poi stancano. E stanca il sesso, stanca una trama principale che al di là del rapporto edipico (irrisolto) è banale, e pure quella incompleta e piena di buchi se ci si fa caso. Noé certo è un regista interessante ed è impossibile non notarlo, ma si compiace troppo di sé. E tuttavia, seppur ci è voluto un notevole sforzo riuscire a reggere sino in fondo, e seppur a me è piaciuto poco e son pieno di dubbi (non sono riuscito infatti a ravvedere alcun genio), questo è un film davvero notevole, un film da consigliare soprattutto agli amanti del genere ed a chi ha già visto qualche altro film del regista, in caso contrario visionatelo a vostro rischio e pericolo, potreste però restarne delusi. Un po' come è successo a me. Voto: 6

2 commenti:

  1. Mamma mia, le inquadrature in soggettiva mi danno davvero la nausea. Meno male che non è per l'intero film!
    Stavolta passo!

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    1. No, non è per l'intero film però la nausea può venire ugualmente per le inquadrature aree...e quindi forse fai bene a passare ;)

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