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martedì 30 ottobre 2018

Gli altri film del mese (Ottobre 2018)

E insomma è passato un altro mese, e l'inverno e il periodo natalizio si avvicina sempre più, il freddo come detto ieri, nel post relativo ai peggiori film (che anticipa appunto questo sugli altri film di questo autunnale mese) è già arrivato, mentre non sono arrivate e non ci sono cose belle da segnalare, tutto nella norma, anche se mi è successo comunque qualcosa di positivo, ovvero che si è rafforzato un legame di amicizia nato in questi mesi, e poiché l'amicizia per me è qualcosa di importante (di vitale e di indispensabile), son contentissimo di averla incontrata (di aver incontrato la sua esuberanza). In tal senso vorrei fare (prima di lasciar spazio alle recensioni delle pellicole visionate) un "elogio dell'amicizia" (a tutti i miei amici vicini e lontani, virtuali e non, veri o presunti), con alcune frasi prese dallo scrittore Paolo Crepet dal suo libro omonimo (che comunque non ho letto). "L'amicizia non fa sconti, è un sentimento onesto: restituisce tutto ciò che si è seminato", "L'amicizia è necessità, mai convenienza. Esigenza dettata dall'intelligenza emotiva", "L'essenziale non lo si coglie quando i conti tornano, ma soltanto quando il sipario cala all'improvviso e non resta che una platea vuota e ci si sente immensamente soli", "Che significato potrebbe avere mai la vita se fosse soltanto un gioco con la propria ombra?", "L'amicizia è un lavoro serio, necessita continuità, dedizione, manutenzione attenta, come accade per tutte le cose rare e preziose" e "L'amicizia non serve per sé ma per entrambi, non è visione egocentrica ma relazione svelata". Bene, ed ora buona lettura.
Un medio prodotto cinematografico italiano come questo corrisponde, probabilmente, al progetto più ambizioso, coraggioso e riuscito, giacché seppur non sfugge a certi difetti del suo cinema dovuti ad un certo schematismo, a volte grossolanità di qualche situazione, è a tratti divertente, credibile e sensibile tale da rendersi piacevole e godibile a vedersi (non a caso è questo il suo unico film che mi è davvero piaciuto, giacché non del tutto efficace è risultato Non è un paese per giovani) di Giovanni Veronesi, un prodotto che fa sfigurare decisamente altre pellicole medio-piccole come la trilogia di Manuale d'amoreItalians e altri film che erano altra farina del sacco del regista (Genitori & figli era al limite pericoloso del ridicolo). L'intento (nobilissimo) del regista è sempre stato quello di raccontare l'Italia, più o meno indirettamente, attraverso piccoli personaggi disadattati che affrontavano realtà abbastanza squinternate o semplicemente estranee, ma che alla fine riuscivano a trovare la via verso la loro salvezza sociale. Così avviene per il protagonista de L'ultima ruota del carro (film del 2013 scritto e diretto dal regista toscano), un mimetico (dimesso ma intenso) Elio Germano, che cambia capelli, età e carattere per riproporre i vari stadi della vita dell'italiano medio, anzi, di un esempio raro di italiano, un piccolo anti-eroe umile (anche troppo) e simpatico, mai intenzionato a mirare troppo in alto e che ritiene bastevole il rapporto affettivo con la moglie (una tremebonda Alessandra Mastronardi), con il figlio, con l'amico (Ricky Memphis che, meno burino del solito, risulta divertente), con i vicini di casa. E' un piccolo eroe che riesce a sopravvivere a cinquanta stralunati anni circa di storia d'Italia, dal 1967 al 2013, senza mai cambiare né crescere in termini di esperienza, mantenendo sempre la stessa ingenuità e la stessa semplicità che lo relegavano all'ultima ruota del carro della sua famiglia, in cui il padre oppressivo e la madre incapace di intervenire lo spingevano a una sempre maggiore frustrazione. Non è ambizioso, non tiene troppo ai soldi, è convinto che sia la famiglia il centro della sua vita, in un Bel Paese prima sconvolto dalle Brigate Rosse, poi dai fondi illeciti ai partiti politici e infine dall'avvento ottimistico dell'era berlusconiana. Sopravvivendo anche a un tumore e ad una retata della guardia di finanza all'interno di una segreteria del Partito Socialista, con a capo un pervertito Sergio Rubini, il protagonista le evita tutte, è l'unico che continua a sorridere mentre gli altri intorno a lui cedono sempre di più alla disperazione o all'illusione. E' un normalissimo proletario impegnato, innamorato e potenzialmente felice. E quindi L'ultima ruota del carro, che strizza l'occhio alla commedia all'italiana classica di Scola e Risi, è un'onesta, non troppo graffiante, ma bella commedia. Certo, non tutto funziona, in realtà, in questo comunque dignitoso film: dopo una prima ora molto buona infatti, specie nella descrizione degli aspetti più deteriori degli anni Ottanta, fra oscure società finanziarie e assurdi contratti di leasing, fra yuppie azzimati e segretarie disponibili (e Virginia Raffaele che, nei panni di Mara, mette a frutto l'esperienza da comica televisiva, pur senza eccedere nel grottesco), nei successivi cinquanta minuti la vicenda difatti si inceppa un po', con una parentesi medica che vira troppo sul patetismo, per poi glissare sugli ultimi vent'anni. Efficace, però, il finale, ambientato in un presente desolante, forse privo del coraggio e della cattiveria dei modelli di riferimento, ma del tutto coerente con la morale del protagonista. Come efficace nel complesso è questa pellicola, che seppur a volte la sceneggiatura cali e anche se alla fine è meno emozionante di quanto sulla carta poteva essere, forse anche telefonata alla chiusura, è questa un'interessante commedia. Perché certo, alcuni difetti ci sono (difetti su cui è impossibile comunque sorvolare, tra cui da segnalarsi c'è una certa superficialità di fondo, che tuttavia non intacca il valore di una commedia che diverte, seppur sorrisi e non risate), ma ci si può accontentare di un buon prodotto, tutto sommato ben fatto, anche perché tra tutti i film da regista di Veronesi questo è probabilmente e quasi certamente il migliore. Voto: 6
Non conosco la serie tv omonima della HBO (di cui questo ne è l'adattamento e la sua continuazione) ma questo film è una commedia divertente, graffiante per certi versi, dinamica e condita con dialoghi spiritosi e ben scritti. Cast convincente, una marea di cameo, regia affidabile e ritmo narrativo che non cala mai, assicurando così una visione fluida e simpatica. Entourage infatti, film del 2015 diretto da Doug Ellin (che offre un divertente spaccato caricaturale di quello che è la vita di molte star del cinema), è un film leggero, uno di quei film da gustarsi senza troppi pensieri ma che ha dalla sua parte l'abilità di riuscire ad incastrare secondo dopo secondo un quantitativo di attori e volti noti di Hollywood davvero impressionante. Il film difatti, che narra le vicende di Vincent Chase e del suo Entourage alle prese con un nuovo film in cui Vinny sarà, oltre che protagonista, anche regista, attraverso una confezione patinata e scintillante, un ritmo dinamico e un intreccio semplice e brillante, racconta efficacemente il mondo di Hollywood, futile e votato all'eccesso (tra sesso, capricci, alcol, droga e musica disco). Non sorprende in tal senso che la regia opulenta e frenetica di Doug Ellin (al cinema con Amore tra le righe e alla tv con la regia della serie), sia metafora della routine di chi succhia fino all'ultimo sorso e senza vergogna il fantomatico sogno americano, e che la suddetta piccante commedia sia soprattutto (attraverso la sdrammatizzazione dello stress della vita quotidiana e della routine hollywoodianauna critica al sistema e al mondo del cinema che si auto-cita e parla di sé in prima persona. Teatro delle peripezie del chiassoso gruppo di protagonisti è infatti un promiscuo e incurante microcosmo fatto di feste da sballo in ville napoleoniche, in cui un'auto da sogno è un piccolo presente e tutto è apparentemente lecito. Una realtà talmente distante da quella di chi guarda solletica sicuramente il voyeurismo spettatoriale, suscitando al contempo incredulità, coinvolgimento e un pizzico d'invidia. L'approccio immersivo della regia, a tal proposito, fa sì che il pubblico si lasci contagiare volentieri dalla spensierata superficialità con cui Vince e compari vivono l'attimo e (non) affrontano le sfide, spesso grottesche, cui la narrazione li sottoporrà (e che porterà il gruppo dove mai si sarebbe mai aspettato finisse). Infatti la peculiare e accattivante caratteristica di Entourage risiede proprio nella capacità di ritrarre un ambiente tanto spropositato quanto verosimile. Contribuisce a perseguire con vivida efficacia questo risultato anche la consistente presenza di camei di veri protagonisti dello show business. Si va dalle fugaci ed esilaranti apparizioni di Mark Whalberg (produttore del film e della serie) e Liam Neeson, di Pharrell Williams e Piers Morgan, di Gary Busey e Armie Hammer, alle vulcaniche incursioni delle bellissime ma peperine Jessica Alba e Emily Ratajkowski (non dimenticando Nina Agdal e Cynthia Kirchner). Un espediente di questo tipo accresce le potenzialità della pellicola tanto dal punto di vista umoristico che, come si accennava poco sopra, da quello diegetico, il quale guadagna in autenticità e freschezza. In conclusione, si può affermare che la trasposizione di Entourage in lungometraggio sia un esperimento in linea di massima riuscito (tuttavia i problemi ci sono, dall'intemperante politically correct all'atmosfera ancora troppo televisiva), in grado di offrire un intrattenimento senza pretese ma piacevole anche a chi non ha seguito la serie. È la soluzione ideale per chiunque voglia trascorrere 105 minuti all'insegna del disimpegno e godersi un'avventura hollywoodiana così assurda da risultare credibile. Il merito va in grande parte anche alle inarrestabili interpretazioni (tra gli altri) di Jeremy Piven e Kevin Dillon che, sebbene sopra le righe, si lasciano ricordare e apprezzare maggiormente dei protagonisti principali. Questi ultimi (da Billy Bob Thornton a Haley Joel Osment), sebbene non esenti da un abbozzo di background, non si allontanano mai davvero dal proprio status di caratteri o stereotipi. E tuttavia, seppur in verità l'umorismo resta tiepido e, sebbene il ritmo scorra piuttosto fluido, forse sarebbe stato meglio non ingarbugliare eccessivamente una trama che comunque non offre grandi colpi di scena e lasciar finire il film nell'arco dei salutari 90 minuti oltre i quali, per superarli, bisogna avere molto da dire, ma alla fine ci si può ritener soddisfatti (soprattutto noi maschietti) del minimo indispensabile per raggiungere la sufficienza. Voto: 6
Raccontare al cinema una storia di immigrazione non è per niente facile (soprattutto se la vicenda ricalchi purtroppo un'odissea umana tutt'ora attuale, e in qualsiasi parte del mondo), ma ci riesce bene l'esordiente all'epoca regista Michael Berry con questo film, un film drammatico (del 2014) a tinte western piccolo e traballante ma emotivamente e moralmente efficace e onesto. Frontera infatti, come da titolo dopotutto, che si snoda attorno al superamento clandestino della frontiera Messicana con i relativi rischi e imprevisti (come ben delineato nel film), racconta una storia di frontiera, una storia (interpretata dai personaggi con una estrema credibilità senza indulgere nel patetico, questo grazie agli attori, che riescono con il loro talento ad indurre a una partecipazione emotiva particolarmente profonda) molto semplice in cui confluiscono temi come l'immigrazione clandestina, trafficanti di esseri umani, storie di grilletto facile finite tragicamente. Non è un caso che Frontera ci mostri molte cose brutte, dai trafficanti di esseri umani ai razzisti per sport, dalla violenza di ogni tipo alla corruzione degli agenti che operano al confine Usa-Messico, ma lo fa con lingua efficace e immagini giuste, calando la storia in un brodo western e dandole un sapore springsteeniano semplice e classico. Magari troppo semplice (come già detto), soprattutto nella superficiale e stereotipata caratterizzazione di molti dei personaggi (alcuni, soprattutto i secondari, avrebbero meritato un'approfondimento maggiore), ma anche se il tutto non è nulla di trascendentale e non è per nulla un qualcosa di alcunché pretenzioso (seppur molti ed importanti sono i temi), il film si segue bene su coordinate, forse prestabilite e di conseguenza abbastanza prevedibili, però brillantemente riuscite. Come detto, molte le tematiche affrontate nel film, di grande denuncia sociale, civile e morale, a partire dai poliziotti corrotti, gli americani xenofobi (non tutti per fortuna), gli immigrati, gli scafisti, la miseria e la ricchezza, fino a che sopraggiunge la giustizia impersonificata da Ed Harris in stato di grazia in questo ruolo, che non guarda in faccia a nessuno (soprattutto se gli toccano un parente, in questo caso la moglie "apprensiva" interpretata da Amy Madigan), perché la legge è uguale per tutti (almeno si spera lo sia sempre) e che a cavallo e con un cappello in testa ci ricorda incredibilmente qualcuno, che in un certo parco a tema faceva (giustamente) la stessa cosa. Forte è anche la denuncia sociale di come i messicani siano trattati per espatriare tra scafisti, umiliazioni, ricatti e violenze. In tal senso merita il pollice su la prova di Eva Longoria, sorprendentemente in parte e totalmente trasfigurata, in tutti i sensi (senza dimenticare un bravissimo Michael Pena nei panni di un messicano che si trova involontariamente al centro di varie vicissitudini). E insomma c'è parecchia carne al fuoco in questo film, carne che cuoce perfettamente, giacché c'è da segnalare non solo una discreta regia, che scegliendo di far interpretare ad Ed Harris il personaggio principale si fa tanto apprezzare (dopotutto grazie a quest'ultimo che la pellicola riesce a essere credibile e leale), ma anche una sceneggiatura che scorre senza interruzioni o vuoti. Una sceneggiatura che appassiona, sconvolge, emoziona e fa riflettere (il twist finale poi, totalmente hollywoodiano, è proprio quello che volevamo, perché Ed Harris è un supereroe, che anche senza mantello e senza tanto sforzo è capace di fare qualsiasi cosa). E quindi Frontera, al netto di certe banalità, cliché e stereotipi, ma anche di tanti pregi, è una pellicola certamente consigliata, a tutti ovvio, ma soprattutto a chi ama un certo cinema e a chi ama un certo genere. Voto: 7
Dopo l'adattamento cinematografico di Assassinio sull'Orient Express (anche se quest'ultimo è uscito poco dopo) eccone un altro, un adattamento (a quanto pare inedito) che funziona soprattutto (come d'altronde funzionò, nonostante tutto, anche il film di Kenneth Branagh) grazie all'intricata, sconvolgente e accattivante storia. In Mistero a Crooked House (Crooked House) infatti, film del 2017 co-scritto e diretto da Gilles Paquet-Brenner, lo spettacolo è interessante e avvincente, d'altra parte la trama (che riprende probabilmente con qualche trascurabile licenza quella del romanzo Crooked House di Agatha Christie, edito in Italia col titolo "E' un problema", e che si sviluppa secondo il canovaccio dei più classici gialli che prendono ispirazione dagli scritti dell'autrice britannica, senza però scomodare i due mostri sacri dell'investigazione a essa così cari) come spesso succede nei romanzi della Christie è avvincente, i colpi di scena credibili, il finale spiazzante. La suddetta difatti, che ci racconta di come alla morte del magnate della ristorazione Aristide Leonidas la bella nipote Sofia credendo in un omicidio chiede all'ex amante detective di inserirsi nella dimora di famiglia e indagare, giunge al finale tragico in modo abbastanza inatteso, soprattutto non conoscendone nulla. E questo grazie al buon inquadramento dei personaggi, giacché in questo film sono descritti bene e senza compassione persone ricche e vuote che colmano le proprie lacune con l'interesse, le invidie e le gelosie nei confronti dei propri parenti senza barlumi di pietà salvo nella nipotina di 12 anni che però anche lei appare gravemente turbata psicologicamente, ma anche all'accurata ambientazione anni '50, come accurati sono i costumi e la fotografia. Questa produzione inglese infatti, come si vede non solo dall'ambientazione (un'ambientazione del secondo dopoguerra e lo scenario di un solenne ed elegante maniero, nella campagna londinese, "location" suggestiva ed ideale, per l'omicidio di rito e per le indagini del detective di turno) ma dagli interpreti in gran parte inglesi (tra questi Stefanie Martini e Amanda Abbington, anche se americane sono sia Gillian Anderson che Christina Hendricks), ci restituisce le classiche atmosfere "rétro" del classico "giallo all'inglese". Un giallo in cui, non solo è un gran piacere vedere scene, come quella della cena, in cui tutti questi personaggi si scannano a vicenda (scene in cui emerge tutta la cattiveria e l'acidità tipicamente inglese, e tipica anche degli scritti della Christie), ma in cui appunto efficace è l'atmosfera. Eppure a fine visione non si rimane totalmente soddisfatti, il film risulta non benissimo interpretato da tutti (il detective Charles Hayward interpretato da Max Irons, figlio di Jeremy, che è forse il punto dolente del film infatti, senza alcun fascino né simpatia si aggira nel film non creando alcuna empatia con lo spettatore né tantomeno mostrando lucidità nell'investigazione, per fortuna che a dirigere le danze c'è quell'incredibile attrice che è Glenn Close, che rende magistralmente un cuore in inverno, cinico e altero, alla fine della vita e deus ex machina del destino di una famiglia, mentre tutti gli altri attori recitano con sicurezza, ma sembrano un po' lasciati da soli da una regia molto più attenta a seguire la costruzione registica che non gli attori) e soprattutto un po' poco cinematografico. Sicuramente la colpa è in parte del romanzo di partenza, si sa che è difficile adattare i libri di Agatha Christie dove succede poco e si dialoga molto, ma forse la colpa è anche del regista, il francese Gilles Paquet-Brenner (noto soprattutto per La chiave di Sara), che regala certo la giusta atmosfera e delle belle sequenze, però tra una bella sequenza e l'altra ci sono solo interminabili scene di dialogo, con coppie di personaggi che parlano all'infinito, e gli spettatori poco amanti del genere si possono annoiare (un po' come è successo a me). E' insomma poco cinematografico Mistero a Crooked House, perché anche se l'ho visto alla tv, è innegabile non accorgersi di ciò. Tuttavia, siccome questo discreto giallo non presenta cali di attenzione e può certamente piacere a chi ama il giallo "british", il suddetto merita di essere visto e di venir sufficientemente apprezzato. Voto: 6
Prima di iniziare la recensione mi piace ricordare la scelta di iniziare con la intro della Universal che si ripete quattro volte, per riprendere il loop temporale che è il tema centrale di questa pellicola. Auguri per la tua morte (Happy Death Day) infatti, film del 2017 diretto da Christopher Landon e prodotto dalla Blumhouse Productions, segue le vicende di una studentessa universitaria di nome Tree, che per cercare il suo killer, rivivrà sempre lo stesso giorno. Capirete da ciò quindi che di originale in questo film c'è ben poco, anzi, c'è anche una sorta di comprensibile doppio déjà-vu nei confronti della pellicola, perché al di là del cult con Bill Murray (in tal senso esso viene omaggiato e citato in più occasioni, a volte in modo implicito a volte in modo veramente palese), un film sul rivivere sempre la stessa giornata lo si è già visto precedentemente (almeno personalmente è stato così) grazie alla regista newyorkese Ry Russo-Young, che ha adattato il romanzo Before I Fall nel suo Prima di Domani, eppure siccome si tratta del primo riguardante il campo horror, qualcosa di originale ed innovativo c'è, perché se lì eravamo più dalle parti della commedia sentimentale, qui il regista ci porta nelle lande dello slasher puro (anche se vedremo molto poco sangue, nonostante le tantissime morti della protagonista). Un'originalità che qui inoltre viene sviluppata anche bene dal regista che riesce a fare un buon lavoro riuscendo a non annoiare lo spettatore mostrando il ripetersi (quasi) continuo degli eventi, ricorrendo anzi a degli espedienti piuttosto divertenti. Infatti, tra horror e commedia dall'umorismo macabro ed appunto una trama che richiama inevitabilmente alla memoria due classici come Scream (anche per colpa della simpatica e inquietante maschera dell'assassino, ispirata un po' a quella di Ghost Face, che a sua volta era ispirata a L'Urlo di Munch, e un po' a Chucky, indimenticabile pupazzo killer de La Bambola Assassina) e Ricomincio da capo, egli mescolando al tutto una dose di giallo ad un pizzico di romanticismo, fa sì che la pellicola si riveli alla visione molto gradevole e adatta ad una serata senza troppo impegno, intrattenendo a dovere. Buona parte della riuscita va attribuita alla simpatia della giovane protagonista, impersonata dalla spigliata Jessica Rothe che, pur ricoprendo un ruolo all'apparenza scontato, riesce con la sua buona mimica a trasmettere l'evoluzione interiore del suo personaggio (dopotutto ogni film con una struttura di sceneggiatura simile devono basarsi sulla ripetizione, l'apprendimento e il miglioramento di se stessi, ed è proprio quello che accade alla protagonista, che ad ogni nuova vita impara a comprendere se stessa e ad apprezzare le persone che le stanno intorno) che da ragazzina viziata, superficiale e scontrosa, si rivela poi essere invece brillante, goffa e coraggiosa, con un doloroso lutto alle spalle che l'ha segnata e plasmata. Certo, nelle caratterizzazioni dei personaggi di contorno non si ha niente di nuovo dal solito repertorio offerto in tutti i film ambientati all'interno di un college: il bullo, lo sfigato, la cheerleader, i nerd, la finta ingenua, c'è da dire però che i momenti di tensione sono ben costruiti, così come qualche colpo di scena e nel complesso la pellicola si lascia guardare scorrendo via piacevolmente. Il film non manca nemmeno di una certa ironia che in qualche modo stempera l'efficace tensione, non negando nemmeno qualche sana risata. Questo grazie alla trama, perché anche se (come detto) non è originale, essa è abile (intrattenendo e divertendo anche senza essere originale) a rendere il film avvincente e gradevole tenendo lo spettatore ancorato alla poltrona e facendo nascere dubbi su chi possa essere l'omicida, la cui identità (colpo di scena) viene svelata solo negli ultimi minuti. Perché certo, forse non funzionerà sempre, ma in questo lavoro più che decente la suddetta riesce appunto ad assicurare un ora e mezza di divertimento a cervello spento, proprio perché anche se se si è già visti altri film che trattano quest'argomento (e ultimamente sono stati parecchi) si può guardare tranquillamente Auguri per la tua morte (un film che, apprezzato già da molti, va sicuramente visto) perché non ci si annoia. E tuttavia però un unico consiglio, non aspettatevi un horror puro, anzi qui la paura latita, perché sebbene sia etichettato come horror, di fatto è più un giallo/thriller che un horror vero e proprio. In ogni caso comunque, a questo film ben fatto e riuscito nel complesso (per quanto semplice) una visione non la si può proprio rifiutare. Voto: 6,5
Scritto, diretto e interpretato da Jemaine Clement e Taika Waititi, Vita da vampiro (What We Do in the Shadows) è una sorta di insolito e coinvolgente reportage sulla vita di un gruppo di vampiri. Questo sorprendente film del 2014 infatti, che fonde in maniera del tutto fresca e originale i toni della commedia, la tecnica del mockumentary e la mitologia cinematografica dei vampiri, che riesce così nella quasi impossibile impresa di dare nuova linfa e sfumature alla tematica vampiresca, grazie anche a un copione pieno zeppo di trovate a dir poco fenomenali (per esempio, l'incontro alla Guerrieri Della Notte tra la banda di vampiri e un branco di licantropi, la convention dei mostri o i maldestri tentativi di ipnosi ai danni degli umani di turno), che mette al centro della vicenda quattro vampiri alle prese con la convivenza, resa ostica dai loro variopinti caratteri, ognuno è infatti l'incarnazione di una diversa mitologia dell'immaginario comune, perciò abbiamo il dandy del XVIII secolo (interpretato dallo stesso Taika Waititi), il Dracula sanguinario con il gusto della tortura (Jemaine Clement), il vampiro iracondo e rissoso (Jonathan Brugh) e infine l'anziano Nosferatu (Ben Fransham), diventa un'esperienza di raro divertimento, surreale e in qualche modo umanamente realistico, un exploit che nell'horror capita di rado. Il tutto è difatti narrato come se fosse una videointervista, un'intervista che documenta non solo i noti problemi dei vampiri, ma anche la loro vita quotidiana, fatta di turni per il lavaggio dei piatti e divergenze fra coinquilini, vita che dei protagonisti viene scombussolata dalla conoscenza dell'umano Nick (Cori Gonzalez-Macuer) che, inconsapevole delle abitudini vampiresche, provoca diversi problemi al gruppo. Ed è incredibile quanto questa pellicola risulti ben bilanciata, quanto al contempo riesca a essere rispettosa della mitologia vampiresca (senza reinventarla o virarla in smielati film per teenager dove i non-morti luccicano al sole) pur dissacrandola senza ritegno. Quello che i due registi mettono in scena è dopotutto una sorta di scoglio culturale su cui si infrangono stili di vita arcaici e leggende che per secoli abbiamo assimilato senza mai porci alcuna domanda, o è forse la risposta a quelle domande che nessuno ha il coraggio di porre, ad esempio dal folklore popolare sappiamo che i vampiri non riflettono la propria immagine, perciò come ci si può preparare a una serata senza potersi specchiare? La risposta sta in una delle scene che da sole valgono la visione del film. Un film che si rivela per questo un film di rara intelligenza cinematografica che, giocando consapevolmente con gli stereotipi e la mitologia del filone, li stravolge in un'ottica realistica e irriverente dagli esiti davvero esilaranti, dopotutto i chiari rimandi dei personaggi a icone del genere già citati, i due registi li usano per tessere un convincente umorismo grottesco da coinquilini, un umorismo che affondando le sue radici in serie televisive come Friends per arrivare a declinazioni quasi parodistiche del genere come L'alba dei morti dementi, primo indimenticabile capitolo della Trilogia del Cornetto di Edgar Wright, diverte parecchio (non è un caso che rendere a il film un prodotto pregevole dal punto di vista dell'intrattenimento sono soprattutto le gag che ci mostrano l'altra faccia della vita di questi esseri, decisamente meno epica e cupa di già a cui siamo abituati). E tuttavia anche se l'ingrediente umoristico è fondamentale nella ricetta di What We Do In The Shadows, i due neozelandesi sono bravissimi a non abusarne, dando così modo al contraltare più cruento di risaltare altrettanto, perché sì, tra una risata e l'altra il sangue scorrerà copioso (in tal senso e per rimanere in tema, gli effetti visivi sono pazzeschi e la CGI più che discreta). Vita da vampiro è dunque un film che ben bilancia humour/horror e che abbraccia con nostalgia i cult del passato intingendoli nella modernità. Certo, la trama è estremamente lineare e viene condotta dal meccanismo in verità a tratti forzato del mockumentary (non capiamo mai del tutto il ruolo dei documentaristi), ma siccome questa horror-comedy grottesca, senza oltretutto mai precipitare nella parodia più demenziale e fine a se stessa, riesce a fare convincente ironia in salsa buddy movie sul tema dei vampiri, tutto passa (i difetti) in secondo piano. Insieme al socio Jemaine Clement (già ampiamente apprezzato in Legion), Taika Waititi riesce insomma nella non facile impresa di dire qualcosa di nuovo su un filone ormai saturo come quello dei vampiri, utilizzando un umorismo a tratti irresistibile che rende paradossalmente il film, un film abbastanza originale che probabilmente diventerà un cult, ancora più umano (giustificando così la chiamata da parte della Marvel per la direzione di un blockbuster come Thor: Ragnarok). Vita da vampiro infatti, grazie ad un umorismo intelligente e mai ridondante sul lato più infantile e leggero di quegli inquietanti vampiri che il cinema ci ha insegnato ad amare, merita davvero. Voto: 6+

8 commenti:

  1. Questa è la mia preferita, "L'amicizia non fa sconti, è un sentimento onesto: restituisce tutto ciò che si è seminato", sebbene ne modificherei la fine... "restituisce tutto ciò che la vita ci toglie".
    E a noi la vita ha tolto tanto, ma mai la forza e la voglia di scoprire il bello delle cose e delle persone, e di viverlo.
    Ecco.
    Quindi, ho sempre pensato che gli amici valgano come una sorta di risarcimento morale e materiale.
    Questa storia dell'esuberanza, però, non mi è chiarissima. Mi ricorda il post di ieri........
    Non starai parlando ancora di quella personal trainer? :P
    Scherzo.
    Grazie a te perché ci sei. Con i tuoi tempi, i tuoi "ciao" che mi fanno venire l'ansia (anche se devo riconoscere che hai smesso), e i tuoi must che mi diverto a sovvertire.
    Grazie perché mi permetti di rubarti ogni giorno un pezzetto di te.
    Ti abbraccio forte forte. E basta. Se no piango. E tu non sopporti che le donne piangano. :*

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    1. Son d'accordo, e quindi per fortuna che ci sono, fortunati a conoscerli certi amici ;)
      No, parlo della tua esuberanza, vitalità e sincerità, io parlo di te :)
      Ti ringrazio, ma io voglio dire nuovamente grazie a te, te che sopporti la mia non normalità, te che riempi le mie giornate di serenità ;)
      No, non mi piace vederle piangere, perciò non farlo proprio tu, un abbraccio ti mando anch'io :)

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    2. La tua "non normalità"??
      Ah, perché quindi io sarei normale? Lunge da me addossarmi un'etichetta del genere.
      Per fortuna la tua vita è piena di persone normali.
      Ma un po' di follia è quel che mancava, no? Ed io ne ho da vendere.. :P

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    3. Sì, effettivamente mancava, e tuttavia adesso è forse anche troppa :D

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  2. Non ho visto nessuno di questi film, comunque W l'amicizia! La frase che preferisco e che considero molto vera è questa "L'amicizia è un lavoro serio, necessita continuità, dedizione, manutenzione attenta, come accade per tutte le cose rare e preziose"!😊

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    1. Già, l'amicizia è un dono che non deve essere sprecato :)
      Comunque ti consiglio di vederne alcuni di questi film, potrebbero interessarti ;)

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  3. Mi mancano tutti... in compenso ho visto ieri L'uomo del treno... tramvata pazzesca (anche se è su un treno), mi piacerebbe sapere cosa ne pensi... se hai in programma di vederlo... mi spiace solo che Vera Farmiga si sia prestata... anche se praticamente, il suo può considerarsi un cameo...

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