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mercoledì 3 aprile 2019

Mektoub, My Love: Canto Uno (2017)

Conservo sensazioni contrastanti come lascito della visione di questo film, al pari dei precedenti incontri con il mondo cinematografico di Abdellatif Kechiche. Nelle intenzioni un inno alla vita, ai corpi, ai sentimenti, ma per chi non è un fan acritico dell'autore, il rischio è di provare una noia profonda per infinite chiacchiere inframmezzate da bagni e giochi in mare, baci (anche tra sconosciuti), ubriacature, atteggiamenti seduttivi, litigi, inseguimenti, ecco, è quello che è successo più o meno anche a me. Certo, da un lato ne ammiro l'estrema vitalità dell'immagine, l'uso fantastico (abbagliante, potremmo dire) della luce, la scrittura molto libera e destrutturata soprattutto nei dialoghi (un vero e proprio turbinio verbale), il tutto a favore di una rappresentazione non-mediata della giovinezza, restituita con un impressionismo finanche crudo nel suo irripetibile dosaggio di esuberanza, euforia e soave inconcludenza. Ma dall'altro lato non riesco a non registrare una certa (ormai riconoscibile) insistenza, ostentazione, una specie di prepotenza visiva e parolaia che sembra voler più alimentare sé stessa che non veicolare un particolare messaggio. Tutto è infatti vissuto (o, comunque, portato in scena) con l'obiettivo di esaltare la carica e la vitalità dei corpi femminili, veneri vittime dell'invadenza voyeuristica del protagonista Amin (e di noi spettatori) che però diventa presto insopportabile. Perché, Mektoub, My Love: Canto Uno, film del 2017 diretto dal regista tunisino, conferma tutti i limiti nello sguardo di Abdellatif Kechiche. La costruzione della sua immagine, nonostante l'apparente libertà, è totalmente asfittica. Allo spettatore non è offerta alcuna via di fuga né spazi dialettici. Ciò che si mostra è l'unica cosa che si vede e il film è edificato in modo tale da ingabbiare chi guarda nella superficie delle sue immagini. Le sequenze si dilatano ma lo spettatore non è mai catturato emozionalmente ma solo percettivamente: il fondoschiena e il corpo erotizzato sono i visual effects dell'immagine del regista.
Raramente si sono visti film che hanno giocato in modo così spudorato con i corpi femminili, sbattuti continuamente in faccia allo spettatore senza il minimo ritegno (e per 170 interminabili minuti). Qual è l'effetto collaterale? Il venir meno della loro erotizzazione. L'esposizione frontale e sfacciata, le danze disinibite e dai ritmi frenetici azzerano i margini di movimento e la curiosità suscitata da un occultamento che avrebbe evitato la perversione dello sguardo del protagonista (e del suo regista). Attenzione: il problema non consiste in ciò che si mostra ma nel modo in cui lo si porta in scena. La forma estremamente scopica scelta dal protagonista Amin, un giovane aspirante sceneggiatore, che, in vacanza nel sud della Francia, incontra di nuovo Ophélie, amica d'infanzia che ama profondamente, attorno a lui, i suoi coetanei vivono relazioni sentimentali e/o sessuali più o meno serie, in un turbinio di sensualità e fisicità che Amin si limita a scrutare, sornione, senza mai fare nulla per prendervi parte, la stessa Ophélie vorrebbe solo fotografarla, quindi guardarla più che avere un rapporto fisico con lei, ne suggella lo sguardo perverso e restituisce l'impressione di un film simulato che vive dei propri limiti e, per di più, li mostra con orgoglio. Un film che, dunque, è soprattutto una collana di momenti di vita quotidiana, che più che raccontare una storia vogliono mostrare una realtà, esattamente come era già accaduto con il precedente La vita di Adele. Anche qui, nel tentativo di restituire l'esperienza esistenziale dei suoi personaggi, Kechiche si sofferma a lungo su ogni situazione, che, messa in scena in tutti i suoi più minuti dettagli, risulta sullo schermo enormemente dilatata, in dialoghi e azioni privi di un significato importante, ma che proprio per questo vengono investiti di un nuovo senso, quello della normalità e del tempo sospeso della giovinezza.
Detta così, potrebbe sembrare molto interessante. In effetti simili operazioni hanno talvolta prodotto grandi film: potrei citare Lost in traslation di Coppola, ma molti sono i film in cui alla narrazione si è preferito mettere in scena la semplicità del quotidiano. Ma nonostante sia piaciuto a parecchi, Mektoub fallisce dove quel titolo ed altri titoli sono riusciti, talvolta molto bene. Kechiche prolunga tutte le sue scene fino all'inverosimile, per non dire allo sfinimento, e un paio di esse sono una vera e propria sfida allo spettatore, a cui si chiede di prestare attenzione per tre ore di nulla. Non è nemmeno questo il problema, però, perché talvolta il nulla può essere raccontato in maniera interessante. Ma Kechiche non ci riesce (un po' come gli ultimi Terrence Malick). A Kechiche non manca la capacità di rendere alcuni aspetti della giovinezza (i turbamenti, gli atteggiamenti ammiccanti, gli sbalzi di umore) ma in una parzialità che sembra ridurre parecchio il raggio degli interessi di ragazzi e ragazze, per la maggior parte di una superficialità sconfortante. Perché il lato più tumultuoso del film, quello che con intenzionale spavalderia rappresenta l'età acerba nella sua voglia di vivere ogni momento al massimo delle sue potenzialità, è però anche quello in cui traspaiono maggiormente una certa ridondanza, qualche eccesso e alcune sottolineature che finiscono per appesantirne il tono e offuscarne il fulgore. Tanto che i pochi momenti veri si perdono in un marea di immagini buttate allo spettatore senza filtro, senza controllo (la lunghezza di alcune scene mette davvero a dura prova) e ultimamente senza senso. Perché si gira intorno di continuo ai sentimenti, ma non si mette mai a fuoco nemmeno l'ipotesi di un amore, dell'Amore. E insomma il regista, che pure dirige bene gli attori (molto espressivi, una su tutte la giunonica Ophélie Bau, e decisamente attraenti per la gran parte, da Alexia Chardard a Lou Luttiau, da Salim Kechiouche a Hafsia Herzi), sembra buttare gran parte di quel talento che lo mise in luce con La schivata.
Una delle ultime scene è ambientata in una discoteca, dura quasi mezz'ora, metà della quale Amin vaga per il locale senza fare nulla, mentre l'altra metà è occupata dai sederi delle sue amiche che si agitano freneticamente davanti all'obiettivo della cinepresa. Davvero in questo c'è una riflessione sulla corporalità? Davvero è un inno alla sensualità? L'occhio di Kechiche sembra quello di un pornografo (l'inizio ne è la conferma, anche se paradossalmente è l'unica scena del tutto esplicita). Come del resto era già accaduto proprio ne La vita di Adele, tre quarti d'ora del quale erano occupati dai lunghissimi ed altrettanto espliciti rapporti sessuali tra le due protagoniste. Non è ovviamente la nudità in sé a essere problematica. Lo è il modo (come detto) in cui essa viene rappresentata (cioè il come, non il cosa). Al netto di alcuni momenti di grande bellezza, l'ultimo film di Kechiche è quindi un film di estenuante vacuità che può facilmente essere reinterpretato come grandioso ritratto umano, se vi si vogliono trovare cose che forse non ci sono. Il cinema è l'arte del voyeurismo, certo, ma detta fuori dei denti, tre ore di film con un'ora di culi sbattuti in primo piano non è voyeurismo, ma una morbosità al limite del patologico. Anche perché si tratta sempre e comunque di corpi femminili, rigorosamente bellissimi. Tolto qualunque possibile significato altro alla corporalità esibita, al film rimane perciò ben poco, se non la sua lunghezza sproporzionata. Fare film sul vuoto o sull'assenza è difficile, e ancora più difficile è quando sono così lunghi, Kechiche non c'è riuscito. Come detto, però, questo film a molti cinefili è piaciuto (o no?). Un film in cui, le ormai tipiche sequenze di Kechiche traboccanti di cibo, balli e di una perenne allegria in fin dei conti abbastanza artificiale, possono lasciare l'impressione di una tracotanza stilistica che è sì fortemente distintiva ma che può anche lasciare un po' storditi e interdetti. E se l'autore rimanda tutti agli episodi successivi, dove probabilmente Amin proseguirà il suo percorso, l'impressione è che di pubblico disposto a seguirlo (anche se la sua evoluzione poetica potrebbe riservare sorprese) ne troverà ben poco. Voto: 5

4 commenti:

  1. Sono fra quelli che questo film l'hanno amato. Senza ricercarci chissà quali significati e riflessioni sul corpo, sul mostrare, sulla vita. Io c'ho visto solo l'estate senza pensieri di un gruppo di giovani, raccontati dal loro punto di vista e con un finale così dolce e lieve che spiega il tutto. Sarà anche lunghissimo e ossessivo, ma mi ci sono persa, ancora non l'ho dimenticato.

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    1. Sì ma non c'era bisogno di allungarlo così troppo, 10 minuti qui o lì e ne avrebbe certamente giovato, proprio perché non parlando di niente e poiché non succede niente, è facile annoiarsi e perdere il senso, anche se non c'è, anche se è solo vita.

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  2. 170 minuti è da suicidio.
    Solo il Titanic poteva tenermi ore incollata allo schermo.
    Eppure sono certa che, in fondo in fondo, questi corpi femminili "sbattuti in faccia" non ti sono dispiaciuti.. 😜

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    1. Vabbè io l'ho visto in tre parti, eppure mi sono annoiato ugualmente...il Titanic? Arrivo Jack! :D
      Effettivamente no, o almeno no per un po', ma dopo qualche tempo mi ha stancato...

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