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lunedì 28 ottobre 2019

Le altre serie tv (Settembre/Ottobre 2019)

Dopo parecchio tempo dalla messa in onda (un anno più o meno, e ad un anno dalla recensione della stagione precedente, qui), ma oramai dovreste sapere che vado senza cronologia, ho concluso anch'io la sesta stagione di Arrow, non una delle migliori per la serie di punta di casa CW in tema supereroi. Una sesta stagione che fino alla sua metà era stata abbastanza godibile (insomma) quanto la quinta (quest'ultima sicuramente migliore della quarta), ma che si è persa proprio negli episodi dove si affermava l'ascesa di Ricardo Diaz a villain assoluto di questa stagione. Il problema è stato proprio lui, Ricardo Diaz. Un cattivo troppo cattivo, che opera il male per rivalsa e vendetta e niente più. L'unica cosa atipica del suo personaggio è che paradossalmente alla fine non muore e sarà sicuramente un pericolo anche nella prossima stagione. Sarebbe stato molto più interessante proseguire l'arco narrativo che riguardava il gruppo di nemici assoldati da Cayden James (Michael Emerson ancora alle prese con i computer), che quanto meno è stato un antagonista particolare e con una serie di skill uniche nel suo genere che poteva dare molto più filo da torcere. Se non fosse stato che qualcuno degli sceneggiatori, a metà stagione circa, ha deciso che no, meglio tornare su un filone narrativo standard, facendo emergere un super-cattivo banalissimo. Cayden James e il suo gruppo era stato capace di seminare discordia e dividere il Team Arrow, dando linfa ad una sceneggiatura che si è concentrata molto sui problemi personali di ogni membro della squadra, originando situazioni spiacevoli e tutto sommato interessanti da seguire. Quando poi si è voluto creare l'effetto sorpresa, eliminando il villain a metà stagione per farne emergere un secondo molto più potente, qualcosa si è guastato. E si è giunti ad una serie di episodi scialbi che hanno rovinato il giudizio dell'intera stagione. L'ultimo episodio è stato atipico. Dopo un'intera annata dove tutto quello che aveva un costo a Star City era stato pagato da Diaz, l'FBI entra in scena e si ricorda di avere un certo peso e prende posizione contro il criminale.
L'alleanza dei vigilanti, tanto odiati, con i servizi segreti è stata quindi la mossa decisiva in uno scenario dove non c'era nulla di apocalittico stavolta. Certo, se però consideriamo che tutte le maschere dei vigilanti sono cadute, qualcosa di apocalittico allora c'è stato. Oliver Queen è ora in prigione dopo aver confessato di essere Green Arrow, culmine di anni e anni di tira e molla dove il nostro addirittura qualche episodio fa aveva fatto di tutto per negare l'evidenza. Insomma, anni e anni di storyline buttate nella spazzatura, se teniamo conto che proprio questa stagione si apriva all'insegna del voler appendere il cappuccio al chiodo per essere un buon sindaco e un buon padre. Non è proprio finita così. In ogni caso, le cose sono andate in questa direzione e l'addio di Oliver al ruolo di Green Arrow si era intuito già da quando aveva iniziato a fare pace un po' con tutti, ricucendo tutti quei rapporti che in questa stagione si erano strappati. In maniera anche un po' troppo semplice, tutti hanno compreso e tutti si sono perdonati. Quel che resta a noi spettatori è la non troppa convinzione che la vita in prigione per Queen durerà molto. Proprio come non è durato Diggle nel ruolo di Green Arrow, né Barry è rimasto intrappolato per sempre nella Speedforce. Una menzione va dedicata anche anche a tutta la storyline dedicata a Black Siren e a papà Lance, che culmina con l'uscita di scena (mai troppo definitiva, con tutta questa storia dei sosia sparsi in giro nel multiverso) di Paul Blackthorne che era in scena sin dalla prima stagione. La domanda che sorge spontanea è: perché eliminare il personaggio originale di Katie Cassidy nella quarta stagione e montare su tutto il teatrino del doppelganger che è lei, ma non sarà mai lei? Una domanda che mi sono posto spesso mentre assistevo ai minuti più inutili del telefilm che vedono protagonista proprio Black Siren. Insomma, una stagione che termina con un finale aperto e che è decisa a continuare su queste righe anche il prossimo anno. Qualcosa di buono, a tratti buonissimo, c'è stato. Alla fine però (nonostante l'eliminazione dei flashback) trionfa l'amaro in bocca. Voto: 5,5
Dopo una prima stagione tra alti e bassi, una prima stagione comunque di buon livello complessivo, anche se soddisfacente solo nel quadro della sufficienza (qui la recensione), ecco la seconda stagione di Room 104, la serie che grazie al suo più o meno innovativo format, quello di svolgersi all'interno di una modesta camera d'albergo di una catena americana, e di raccontare in ogni episodio le più svariate storie dei clienti dell'hotel, riuscì a dare vita ad una ricca antologia di 12 episodi, presentando ad ogni puntata un cast, un tema e una storia diversa, variando dai toni più leggeri della commedia a quelli più cupi dell'horror e del dramma. E stessa cosa accade in questa nuova stagione, una stagione che come la precedente presenta un impressionante elenco di persone dietro la telecamera, ma anche al di là della stessa. Questa stagione vede infatti il primo lavoro da regista di Josephine Decke (qui anche sceneggiatrice) dopo Madeline's Madeline, oltre a episodi diretti da Morales, il regista di Lovesong So Young Kim e il regista di Creep Patrick Brice. I creatori della serie Jay e Mark Duplass inoltre, sono tornati come produttori esecutivi, con quest'ultimo che torna anche come sceneggiatore e regista. Infine gli attori, che quest'anno ha dalla sua due pezzi da novanta, il premio Oscar Mahershala AliMichael Shannon, e poi anche Judy Greer, ed anche altri più o meno conosciuti, Joel Allen, Stephanie Allynne, Katie Aselton, Brian Tyree Henry, Natalie Morales, Rainn Wilson e Charlyne Yi. Ma se squadra cambia (tanti rispetto alla precedente i nomi e volti nuovi), non cambia come detto, il formato originale, 12 episodi collegati dal luogo, con la sobria camera di Motel del titolo che funge da base quest'anno principalmente per racconti di eventi soprannaturali, arrivi inaspettati e ricordi indesiderati che tornano in superficie (uno dei temi più volte proposti sono non a caso i sensi di colpa), ma soprattutto la qualità di produzione, medio/alta come di consueto quando parliamo della HBO. E quindi, come è andata quest'anno? Innanzitutto il giudizio nel suo complesso rimane invariato, anche se nessuna puntata qui spicca particolarmente rispetto alle altre, anzi, alcune puntate proprio non mi hanno convinto. In ogni caso puntate tutte interessanti, con alcune alquanto particolari ed altre come detto di scarso coinvolgimento e valore. Puntate che spiegare tutte è complicato, mi limiterò perciò a sintetizzarle in poche parole. Ep.1/Fomo, sorella matta (ma tanto tanto) si autoinvita al compleanno, con risultati decisamente scioccanti (7). Ep.2/Il signor Mulvahill, uno studente dopo 40 anni invita il suo ex professore di musica per dirgliene quattro e scoprire una clamorosa verità (6). Ep.3/Appuntamento al buio, dopo una lunga corrispondenza due sconosciuti hanno un'appuntamento al buio, e lui è proprio un tipo particolare (6). Ep.4/Affamati, due uomini si incontrano per assaggiare a vicenda un parte di corpo, non dico quale, ma sappiate che incredibile è, parte e puntata (6). Ep.5/La donna nel muro, una donna sente una voce provenire dal muro, è quella di un'altra donna che dice di essere lì dentro, visionario il finale (5). Ep.6/Arnold, un uomo ricostruisce (in modo decisamente stravagante) il suo sabato sera alcolico, non una serata da ricordare (7). Ep.7/L'uomo e il bambino e l'uomo, una coppia decide di filmare quello che sperano sia il concepimento di un figlio, ma qualcosa va storto (5). Ep.8/Incubi, una donna si trova intrappolata dentro versioni sempre più terrificanti dello stesso angosciante incubo, uscire non sarà facile (7). Ep.9/Il ritorno, una madre e la figlia piangono il lutto del padre e nella stanza 104 si sono recati per dargli l'addio ma la figlia vuole riportarlo in vita (5). Ep.10/Ibridi, un uomo cerca di scoprire la verità che si cela dietro le affermazioni di una donna, che dice di essere un robot, intrigante il finale (7). Ep.11/Fifty-Fifty, due truffatori si dividono la refurtiva, ma c'è risentimento tra di loro (6). Ep.12/Io e Josie, una donna vuole cambiare la sua vita, e chiede un favore a una versione di sé stessa leggermente più giovane, che qualcosa ha da nascondere (5). E insomma nuovamente bene ma non benissimo, vedremo la prossima, se ci sarà, cosa regalerà. Voto: 6
In attesa della quinta (ed apparentemente) ultima stagione, ecco la quarta stagione di Ballers, la serie tv ambientata nel mondo del football, dove presenza dominante è sempre Dwayne "The Rock" Johnson, l'attore più pagato al mondo, che qui troviamo sempre più centrato che nei vari film muscolari per adolescenti (e non). Nelle prime tre stagioni (qui, qui e qui) l'azione si svolgeva a Miami, nell'ambiente che ruotava intorno ai Dolphins e alle vicende di Spencer Strasmore, ex campione con ambizioni nel mondo della finanza. Giocatori, procuratori, groupie, giornalisti, gente senza arte né parte che vivono delle briciole della NFL. La forza della serie era (ed è) proprio questa: una notevole credibilità nel raccontare i meccanismi imprenditoriali e mediatici dello sport, con ironia (molti personaggi sono al confine della macchietta, alla fine anche il socio di Strasmore, Rob Corddry) e un certo senso critico. La NFL e soprattutto la NCAA ne escono (soprattutto in questa stagione) a pezzi, un po' monopolisti e un po' maneggioni, o comunque con l'immagine di un circolo di pescecani bianchi che si arricchiscono sulla pelle degli atleti afroamericani, cioè del 75% del personale della NFL. La questione razziale è non a caso un grande asso nella manica di Ballers: sempre latente e a volte manifesta, mette in contrasto soprattutto i neri integrati con quelli che del sistema sfruttano soltanto i soldi ma senza crederci. Tema ben trattato, tranne che nella quarta serie (questa), ambientata per lo più a Los Angeles, piena di pistolotti anti-Trump e in palese malafede, come quando si vuole dimostrare che la base del trumpismo sono le élite (invece è certificato che sono i bianchi di classe media e bassa). Il motivo per cui la quarta serie è piaciuta di meno non è però questo, ma l'improbabilità della storia: consulenti di giocatori di football che si trasformano in imprenditori televisivi di una rete che punta su surf e skateboard, roba degna del leggendario Usa Today condotto da Giorgio Mastrota. Speriamo che nella quinta stagione si torni a Miami o che comunque si torni a raccontare il lato meno conosciuto del più americano degli sport americani. Rimane il fatto che molti personaggi siano centratissimi, a partire dal protagonista: l'ex campione che vuole dimostrare di non essere stato grande solo in campo, ma privo della concretezza di chi campione non è stato. I preferiti sono però Reggie, di professione amico del giocatore (tutti conosciamo nella realtà decine di Reggie, dispensatori di notizie e richiedenti seriali di favori), e Ricky Jerret, giocatore sul viale del tramonto e pieno di contraddizioni (interpretato sempre bene da John David Washington, che in BlacKkKlansman ha dato prova del suo gran talento). Fra i personaggi minori menzione d'onore per TTD, assistente-amico di Ricky, e Jay Glazer nei panni di sé stesso, cioè un giornalista (sia pure con altro nome) famoso. Oltre a Glazer tanti i personaggi del football e dello sport americano nei panni di sé stessi, a seconda degli episodi. E comunque tra i "nuovi" personaggi, da segnalare uno interpretato da Russell Brand, ovviamente uno sopra le righe. Unico limite di Ballers, limite gestito nelle prime tre stagioni e diventato fastidioso nella quarta, è il politicamente corretto stile Hollywood, che va paradossalmente contro le proprie, ufficialmente buone, intenzioni. Se vuoi dimostrare che i neri sono considerati dalla società americana solo quando giocano a football o fanno i rapper, non puoi mostrare che il 90% dei medici e il 50% degli avvocati che si vedono in Ballers è nero. In un paese, oltretutto, in cui può definirsi afroamericana circa il 13% della popolazione. Detto questo, non siamo di fronte al capolavoro ma certo ad una serie da cui è (ancora) impossibile staccarsi. Voto: 5,5
L'avevo anticipato al tempo della recensione di Warrior che Strike Back non fosse ancora morto, ma adesso lo sarà, perché la Sezione 20 chiude nuovamente i battenti. Dopo il riavvio con un nuovo cast avvenuto l'anno scorso (qui la recensione), la serie action della Cinemax lascia infatti lo schermo una seconda volta, e questa volta per sempre. E ci lascia con una settima (ma solo se contiamo una prima stagione di altra produzione) ed ultima stagione, intitolata per non far confusione Strike Back: Revolution, andata in onda su Sky Atlantic a primavera scorsa, decisamente scoppiettante. Una stagione che non cambia il leit-motiv, che rimane di gran qualità dal punto di vista tecnico, con acrobazie folli e sequenze d'azione davvero impressionanti, che riprende con la squadra della sezione 20 (solo Alin Sumarwata ossia Gracie Novin c'è ancora) capitanata per la seconda volta dai sergenti Wyatt e McAllister (Daniel MacPherson e Warren Brown), impegnati nelle indagini sull'abbattimento di un terrorista russo nel mare del sud della Cina e della misteriosa sparizione della bomba nucleare su cui egli stava lavorando. Ai due agenti si aggiungeranno anche il colonnello Alexander Coltrane, interpretato da Jamie Bamber, come nuovo comandante della sezione 20 e l'agente russo Katrina Zarkova con il volto di Yasemin Kay Allen. Ai tutti si aggiungerà un nuovo tecnico informatico, e soprattutto un nuovo villain. E insieme daranno vita ad una stagione parecchio movimentata, in cui i nostri dovranno affrontare agenti mercenari e terrificanti signori della guerra, mentre scopriranno una cospirazione che minaccia di spingere il mondo sull'orlo di un conflitto globale. E insomma, con un misto di dramma, spionaggio e avventura, Strike Back continua a regalare tanta azione, un azione sicuramente banale (la storia è infatti sempre la stessa) ed ovviamente prevedibile (tuttavia in questo caso ci si può passare sopra, dopotutto è impossibile pretendere altro), ma comunque in grado di intrattenere, e bene. Certo, di difetti ce ne sono, e tanti, come inserire una bella ragazza solo per far l'amore e poi farla morire (è successo più di una volta), forzare in alcune situazioni la mano (inutile dire in quali, chi conosce il genere sa perfettamente di cosa parlo) ed infine giocare continuamente con i cliché, però ci si può accontentare di un po' d'azione rude e cruda, un po' stereotipata ma onesta. E dopotutto è quello che ho sempre trovato dalla prima stagione, dove a risuonare come intro la stessa sigla, che rimane ancora un must (almeno per me). E così che dopo anni ed anni, la serie action più action del piccolo schermo chiude, chiude regalando appunto uno spettacolo pirotecnico non eccezionale ma negli standard di una serie sicuramente sottovalutata ma sempre in grado di rendersi piacevole e godibile allo spettatore. Perché se una serie è in grado di darti quello che cerchi, un po' di adrenalina, allora soddisfacente è il tutto. E tuttavia rispetto alla stagione precedente un piccolo passo indietro, ma nel complesso (seppur con un malus relativo alla ripetitività dei difetti) sufficientemente riuscita. Voto: 6-

8 commenti:

  1. Sai che non amo le serie, ma ti lascio comunque un saluto.
    Buon inizio di settimana.

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  2. Mi sai indicare qualche bella serie su netflix?
    Ho solo quello, mi piacciono lo spionaggio e i thriller, no fantascienza
    Su netflix ho visto HOMELAND e quando è finita ho quasi pianto. Aspetto l'ultima serie , ma chissà…
    Grazie.
    Cristtiana

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    1. Ciao, vorrei aiutarti ma non ho Netflix, e di quelle che riesco a recuperare sono a tema fantascienza, comunque ho sentito cose buone de La casa di carta ;)

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  3. Grazie! La casa di carta la conosco, ma non mi ha entusiasmata e ho visto solo la prima serie.
    Buonanotte.
    Cri

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  4. Io sto vedendo la settima di Arrow... Mamma maoooo!!!

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