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lunedì 13 maggio 2019

L'insulto (2017)

La questione mediorientale, israeliani e palestinesi, palestinesi e libanesi, ebrei e musulmani, musulmani e cristiani, è questione complicata, delicatissima, annosa, sempre sul punto di riesplodere (come i recenti accadimenti dimostrano) che L'insulto, di Ziad Doueiri (che affronta come fece Nadine Labaki con E ora dove andiamo? la difficile divisione interna che sta attraversando il Libano) riesce a condensare e a rappresentare simbolicamente attraverso un normale episodio di banale quotidianità: Beirut, un muratore di origine palestinese deve sistemare una gronda di un terrazzo che sgocciola in strada. Il proprietario, un libanese cristiano, si oppone. Il muratore la aggiusta lo stesso, il proprietario prende la gronda a martellate, il muratore gli si rivolge dicendogli "sei un cane". Questo il la che farà da innesco ad una serie di eventi a catena di portata sempre più ampia (seguendo la falsariga di Una separazione) dove verranno messi in gioco antichi rancori e odi razziali, corsi e ricorsi storici, traumi infantili, personalismi, arrivismo e avidità, nazionalismi e patriottismi posticci. Non solo, perché la questione mediorientale ricostruita in chiave storica non è il solo obiettivo de L'insulto in quanto il film di Doueiri, perfettamente calato nel presente, vuole mettere in guardia dal pericolo dell'uso strumentale che si può fare della storia da parte della politica e dei mass media, dei rischi che si corrono acuendo i conflitti in nome di un'ideologia che non ha niente degli ideali che dovrebbero incarnarla ma che viene utilizzata in modo fazioso e propagandistico con l'unico scopo di mistificare la realtà per attrarre l'opinione pubblica da una parte piuttosto che da un'altra. Alla fine si smarrisce il buon senso che dovrebbe guidare le nostre scelte verso il bene comune all'interno di un calderone dove tutti hanno contemporaneamente ragione e torto e le soluzioni, anche le più semplici, sono destinate a galleggiare in eterno senza trovare compimento. Ciò che forse più sorprende del film di Doueiri, candidato 2018 all'Oscar per il Libano, è la sua capacità di raccontare una storia apparentemente così lontana eppure così vicina, così globale. La potenza evocativa del film è infatti universale.
Universale perché le divisioni politiche, razziali, di religione sono fuochi che diventano (possono diventare) incendi in tutte le parti del mondo. Per questo errore considerarlo solo un film su una storia privata, su una banale contesa tra persone, L'insulto riguarda tutti. Perché il regista, aggirando astutamente il rischio di banalizzazione, riesce con L'insulte, film del 2017 presentato a Venezia, ad "abbracciare" tutti i popoli. Come? Con un film potente che sa entrare nella questione libanese con equilibrio, senza letture preconcette, cercando di interpretare col massimo rispetto le diverse (e inconciliabili) posizioni. Il regista sa costruire un racconto avvincente che parte da una banale discussione fra due persone qualunque: un cristiano e un palestinese. Da qui, senza accorgercene, ci troviamo in una quasi guerra civile: sfondo sul quale si svolge il processo fra i due protagonisti della lite che ha come oggetto l'insulto che uno dei due ha rivolto all'altro. Un'opera passionale quindi si potrebbe definirla, perché il bravo regista libanese, qui al suo quarto lungometraggio, inquadra il bollente problema dell'odio che divide la popolazione del suo Paese tra cristiani-maroniti e arabi palestinesi raccontandola con sentimento vibrante, tramite una sceneggiatura eccezionale, con una storia che appassiona fin dai primi minuti. Basterebbe un gesto di pace, anche piccolo, una parola breve, "scusa", ed invece ognuno dei due duellanti non cede di un millimetro, anche se per ragioni diverse. Oltre ad una regia praticamente perfetta, una recitazione che sbalordisce da parte di tutti gli attori (ma che bravi Kamel El Basha e Adel Karam, solo il primo ha vinto la Coppa Volpi, ma la meritavano entrambi) e una sceneggiatura da Oscar con dialoghi di forte impatto e coinvolgenti, è un film che rapisce e incanta, parla con il cuore e l'anima e lascia un senso di rabbia perché si prova impotenza davanti alle orribili vicende dei massacri e delle rivolte che tutt'oggi insanguinano il Medio Oriente che qui vengono mostrate con alcuni reperti filmati originali. Ma anche uno sprazzo di speranza, un lampo di luce positiva si avverte nella conclusione del film, quando finalmente i due uomini si guardano negli occhi senza più odio.
Infatti ciò che avvince e conquista fino in fondo è la trasformazione del rapporto tra i due protagonisti, che procede silenziosamente in parallelo alla vicenda legale, tramite piccolissime sequenze fatte di gesti e sguardi calibrati alla perfezione dai due bravissimi attori (ma l'intero cast non demerita, anzi, è decisamente raro trovare un simile livello anche in ruoli "minori"), i personaggi diventano eroi che nel corso della vicenda sono sempre più tratteggiati da vera compassione più che da un odio immotivato verso l'altro. Proprio queste sequenze così dense di gesti e silenzi commoventi hanno la capacità di far emergere da quei dolori passati la vera intenzione del regista e forse la più nobile qualità del film: non parteggiare per nessuno, nessun manicheismo integralista, ma il riconoscimento di una umanità uguale alla propria nell'uomo a fianco a sé. Il verdetto finale è solo un accessorio, la disputa si trasforma in condivisione e comprensione del dolore del proprio fratello. Il difetto (che può essere ribaltato a seconda dei punti di vista) che sminuisce un po' l'ottimo lavoro del regista libanese è lo spasmodico ricorso agli stilemi del cinema americano come l'eccessivo peso e spettacolarizzazione del processo, che sembra declassare il film a legal-movie, e le caratterizzazioni dei personaggi femminili un po' troppo in linea con le nostre esigenze di emancipazione della donna, ma che non sembrano troppo credibili per il contesto. Attrici troppo belle e troppo bionde (tra queste Diamand Bou Abboud), un atteggiamento forse troppo bonario verso i palestinesi, ed il ricorso al "genere" sono comunque licenze che si possono perdonare in un'opera pensata per le giovani generazioni libanesi desiderose di riconciliazione e per un pubblico occidentale poco incline a mettere il naso fuori dal giardino di casa ed occuparsi delle questioni altrui.
Ma la bravura del regista sta nel fatto che, pur inciampando in qualche momento ridondante, egli riesca a far passare il messaggio, che, pur aderendo a certe situazioni politically correct di certo cinema legale americano, egli giunga al nocciolo della questione senza ricorrere a sentenziosi moralismi. Da una vicenda personale il film arriva al legal drama con grande abilità, con momenti di sia grande tensione che di humor intelligente. Quando il quadro si amplia, la vicenda mostra alcune scollature, alcuni passaggi enfatici che stonano con il senso della misura dei primi atti. Il finale poi rischia di cancellare tutta la soddisfazione per aver visto un film ben allestito e ben recitato. Tuttavia la vicenda umana è ben chiara, e decisamente inopinabile. Ci sono due persone dal forte carattere, decise, anche a causa dei fantasmi del proprio passato, a non cedere di un millimetro rispetto all'altro. Due zucconi senza appello che farebbero meglio a contare fino a 10 prima di parlare o agire. Peccato che le mogli, le uniche dotate di buon senso in questa assurda vicenda, non vengano ascoltate. Candidato all'Oscar come film straniero ha perso contro Una donna fantastica, film nettamente inferiore ma che aveva un tema che forse interessava più all'opinione pubblica. Mentre sarebbe stato utile invece, come dice l'avvocato, aver puntato i riflettori su queste pagine di storia nascoste intrise di sangue. Questo film infatti, ha il merito di aver portato sul grande schermo un film che ci parla di contraddizioni e che riapre ferite che solo ora si stanno chiudendo (o forse no, sfortunatamente) e lo fa girando complessivamente un film solidissimo nel comparto tecnico e con due attori che riescono a dare l'incertezza delle storie che si portano dietro. Per tutto questo, merita comunque di essere visto (meritava un certo premio anche probabilmente) e che se ne discuta. Voto: 7

8 commenti:

  1. Non sono molto fan di questo genere di film, ma mi fa pensare molto questa frase: "Basterebbe un gesto di pace, anche piccolo, una parola breve, scusa, ed invece ognuno dei due duellanti non cede di un millimetro, anche se per ragioni diverse".
    Aldilà dell'importantissimo conflitto che purtroppo divide un paese, vedo in queste parole un po' il manifesto di tutti noi...anche se so benissimo che a volte chiedere scusa magari non ha un gran valore...come diceva il saggio, "prima ti butto giù i denti con un pugno poi una volta che sei sdentato, ti chiedo scusa"...

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    1. Proprio per questo dicevo film universale, perché parla di tutti noi, della nostra umanità, divisa non solo per colpa della guerra...

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  2. Non amo questo genere di film, quindi sicuramente nonostante la tua rece e il tuo voto positivo (finalmente superiore al 6!) non lo guarderò.
    Però la tecnica della storia dei due, parallela alle vicende (quelle legali) della pellicola, è una trovata che funziona...

    Moz-

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    1. Ma guarda che venerdì scorso c'è stato un 7,5 e venerdì questo ci sarà un 8...
      Comunque sì, la tecnica è buona e funzionante ;)

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  3. Sicuramente un film universale, come lo definisci, ma neanch'io lo guarderei.
    Fai bene, però, a parlarne e spero che tra i tuoi lettori ci sia qualcuno che apprezzi il genere.

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    1. Certo, io so che qualcuno che apprezza ed apprezzerà c'è, e comunque ho apprezzato io e mi basterebbe anche così ;)

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  4. Non male, solo un po' sbilanciato.
    https://cinemadipatrizia.blogspot.com/2018/11/linsulto.html

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    1. Sbilanciato dici? Beh sì, ma il regista è comunque libanese, difficilmente poteva essere il contrario..

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