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lunedì 25 giugno 2018

Recuperi Sky on demand (Maggio/Giugno 2018)

Sembra strano a dirsi, ma per la prima volta ho davvero concluso una lista di film da vedere, anche se in verità la suddetta, come accennato nella prima parte di quasi due mesi fa, a tal proposito qui potete trovare la prima tranche (con film quali: Il prezzo della gloria, Ma Ma: Tutto andrà bene, Fiore, Che Dio ci perdoni, Zeta e Noi siamo Francesco), essa conteneva solo 12 titoli. Quindi niente di così impegnativo, eppure questa lista di film, di film che non potendo o non riuscendo a registrare, ho dovuto scaricare e vedere tramite Sky Go, mi ha comunque impegnato parecchio. Ma soprattutto alcuni hanno reso meno delle mie aspettative, come in parte successe anche nella prima parte (e quindi alcune piccole delusioni avrei fatto meglio ad evitare, dopotutto a parte 3-4, tutti gli altri hanno risicato la sufficienza), tuttavia dopo aver concluso questo piccolo "progetto", sono comunque contento di averli visti tutti.
L'amicizia è il dono più prezioso di cui un individuo può disporre, ovviamente se sincera, profonda e reciproca ed è quello che il film Truman: Un vero Amico è per Sempre sostiene e rappresenta. Il film infatti ci racconta di due amici di vecchia data che a seguito della malattia di uno si rincontrano a distanza di anni a Madrid e che insieme trascorreranno quattro giorni intensi (insieme all'inseparabile amico a quattro zampe del futuro "deceduto"), in cui e attraverso i toni lievi ed ironici della commedia, dimostreranno come l'amicizia sia più forte di ogni cosa. Difatti, la delicatezza con cui il regista catalano Cesc Gay racconta questa semplice e silenziosa storia di amicizia adulta, matura e involata verso l'ultimo saluto, è il segreto di questa pellicola, pellicola del 2015 che ha giustamente trionfato ai Goya 2016 premiando Javier Cámara e Ricardo Darín come attori, Cesc Gay alla regia e alla sceneggiatura e ovviamente il miglior film. Certo, la trama avrebbe potuto facilmente scivolare nel "patetico", nel pietismo o nel mieloso eccessivi o, almeno, in un qualcosa di "già detto" e dunque di fortemente scontato, giacché inserire un cane e un malato terminale nello stesso film assicura fazzoletti e un'abbondante dose strappalacrime a chiunque si accinga o sia ben propenso alla visione di una pellicola drammatica, invece il regista, grazie anche ad una sceneggiatura che non cede mai il passo al sentimentalismo, alla retorica, ai dialoghi monotonamente rituali che si ripetono gli amici cosiddetti per la pelle e che anzi perfino nei momenti più drammatici della narrazione è scritta con dialoghi pungenti, sferzanti, fatti di sfottò e battute al veleno, ma pronunciati con affettuoso stimolo dell'uno verso l'altro, riesce mirabilmente ed inaspettatamente a presentare una storia quanto mai vera, profonda e per nulla stucchevole: un inno all'amicizia che mai si consuma negli anni ma che, anzi, soprattutto nei momenti più critici, si consolida confermando la sincerità dei sentimenti. Non a caso il film, che conferma come il cinema spagnolo (sempre più distribuito in Italia dopo anni di inutili e incomprensibili embarghi) stia diventato agli occhi di tutti, un cinema imprescindibile del panorama europeo, è un film girato con grande maestria e nella sua naturalezza non si avverte alcuna artificiosità. Un film che fortunatamente non sviluppa pigiando eccessivamente sull'acceleratore il discorso che riguarda l'eutanasia, anche perché il perno principale rimane il forte rapporto tra i due amici e i quattro fatidici giorni da godere senza problemi (in cui Tomàs dovrà aiutare Julian a fare i conti col suo passato, con un figlio universitario stabilitosi ad Amsterdam, con un cane, il Truman del titolo, da capire a chi lasciare, dall'urna in cui vorrebbe farsi cremare ed altre questioni lavorative di non poco conto col teatro, sua vocazione appunto, da lasciare), senza porre limiti di spesa. Un film per questo struggente e ironicamente divertente, anche se ci si commuove appena il giusto, anche meno, e si sorride solo in diversi momenti, ma anche malinconico e bello, proprio perché rappresentando in maniera lucida e precisa e quanto mai realistica il dolore unanime e l'atmosfera malinconica sempre più crescente, esso lascia nello spettatore un senso di naturale e melanconico sentimento misto alla dolcezza. Giacché il film, non eccedendo in alcuna scena ma procedendo per minuzie lungo i binari di un'amicizia silenziosa (forse la migliore perché i veri amici non hanno bisogno di parlarsi a lungo, si intendono con un semplice cenno) e intima, grazie ad una armonica colonna sonora, e nonostante la sua lunghezza (ben 118 minuti) e nonostante alcune superflue scene (come l'inutile intermezzo sessuale con protagonista Dolores Fonzi), riesce nell'intento di rendere un film dalla lacrima facile ma mai scontata e banale, in un film (intelligente e scevro dal pietismo) che commuove e fa riflettere sul valore dell'amicizia e dell'importanza di condividere la propria vita con persone che amiamo. Vi è anche da aggiungere che maggiormente il valore del film è dovuto ai due attori protagonisti Ricardo Darin e Javier Camara che impersonano i propri personaggi in un momento molto critico della loro esistenza e la cui collaborazione artistica rivela la loro perfetta sintonia e complicità, confermandosi entrambi gli ottimi interpreti che sono. Perché anche se Truman in verità è forse un film semplice e non indimenticabile (che certamente non si eleva più di tanto), è indubbiamente un film bello, interessante, emozionante e da vedere. Voto: 6,5
Una storia affilata come la lama di un rasoio, anzi di un bisturi per autopsia, sostenuta da un grande protagonista, Daniel Auteuil, questo è In nome di mia figlia (Au nom de ma fille), film inchiesta del 2016 diretto da Vincent Garenq che racconta un fatto di cronaca realmente accaduto in Francia negli anni '80. E' lui infatti a reggere, nello stile da docufilm scelto di proposito da sceneggiatori e regista, il suddetto racconto sconcertante, con eroismo da altissima professionalità, senza la minima sbavatura, senza autocompiacimento, nessun effetto, dentro un'interpretazione rigorosa dalla prima all'ultima inquadratura. Egli difatti (rimestando abilmente la sete di giustizia ma anche l'ossessione morale del suo personaggio), che impersona discretamente un padre che non conosce limiti, smuove le montagne, quando è necessario, perché sia fatta luce su una morte oscura (quella della figlia adolescente avvenuta in circostanze misteriose) porta sullo schermo una vicenda altamente drammatica sia per la violenza del fatto in sé (davvero sconvolgente) che per la sua lunga ed estenuante battaglia (durata ben 30 anni) combattuta contro l'ostilità degli addetti alle indagini e contro gli ostacoli veri e propri di una burocrazia diplomatica la quale tiene maggiormente più conto dell'insabbiamento della verità che del trionfo di essa. Pertanto lo spettatore assiste all'estenuante, imperterrita e dura lotta (che inchioda lo spettatore sulla poltrona, in un silenzio che è smarrimento e stupore, in cui si nasconde la rabbia di ciascuno nell'assistere inerme dinanzi all'evolversi dei fatti che finiranno nella mani di una giustizia, diabolicamente divenuta ingiustizia) di un individuo comune che è costretto a combattere da solo e che, in aggiunta, è sovraccaricato dal profondo e grandissimo dolore della scoperta dell'efferatezza (indicibile crudeltà) del crimine riguardante la propria adorata figlia adolescente. Sì perché tutto è diabolico, il crimine (sconvolgente l'autopsia rivelatrice), la menzogna, l'infedeltà, l'offesa perpetrata per anni ai danni di un genitore che si è visto portar via da un uomo (il medico tedesco Dieter Krombach, la cui odiosa parte è stata assegnata al bravo Sebastian Koch) prima la moglie (a tal proposito sconcertante è la sua reazione, perché plagiata dal suo compagno finirà addirittura per disconoscere l'evidenza dei referti medici sull'autopsia, finendo addirittura a chiudere entrambi gli occhi davanti alle molteplici prove) e poi la figlia nel peggiore dei modi. La pellicola, pertanto, rappresenta molto efficacemente questa netta dicotomia tra la lucidità razionale e la perseverante tenacia che il genitore in questione da una parte deve avere e mantenere sempre vive nel corso delle sue indagini, e la presenza, dall'altra, costante e profondissima del dolore personale, a cui, purtroppo, il più delle volte la Giustizia sembra essere sorda. E per fare ciò, il regista fortunatamente, raccontando con eleganza e sensibilità un tema di per sé delicato, riesce a non incorrere nel fin troppo facile rischio di cadere nel sentimentalismo ostentato. Anche perché seppur la sofferenza che lo spettatore percepisce sembra essere reale e quasi tangibile (ci immedesima infatti con le storie vere simili, anche soltanto di ieri), essa non è mai eccessivamente ostentata. Giacché In nome di mia figlia dimostra ancora una volta l'elegante tatto con cui i francesi si avvicinano e raccontano temi così attuali e universali. Perché anche senza arrivare all'urlo disperato di Sean Penn in Mystic River, anche il dolore sommesso di Daniel Auteuil ci colpisce con la medesima onda d'urto, scuotendoci e commuovendoci. Tuttavia e oggettivamente però, nonostante una attenta regia, il film non riesce a spiccare mai il volo. Poiché in alcuni momenti sembra di assistere a un documentario vero e proprio ed in altri non c'è la dovuta verve, di fatto potreste perdervi alcuni minuti senza perdere minimamente il filo del racconto. Comunque questa storia meritava di essere portata sul grande schermo e non ne rimpiangerete l'eventuale visione, perché grazie all'essenziale musica, ad una buona scenografia (le splendide località della Baviera) e alla discreta sceneggiatura (per questa brutta sciagurata storia) la pellicola merita la sufficienza. Voto: 6+
Cinque divertenti storie di coppie che hanno bisogno di nutrire il loro legame d'amore con stuzzicanti fantasie sessuali, questo è il soggetto di Kiki & i segreti del sesso (Kiki, el amor se hace), film del 2016 diretto da Paco León, commedia erotica, ma non banale, né volgare. A discapito della pessima trasposizione italiana del titolo originale, e nonostante il tema concettualmente scandaloso infatti, in questo film si parla di amore, di coppie, di fidanzati, matrimoni e di bambini, senza mai toccare argomenti scabrosi come invece potrebbe far pensare appunto il titolo del film. Il regista difatti, ci introduce nel mondo poco conosciuto di alcune "perversioni" sessuali dai nomi strani che ne chiariscono la natura, Dacrifilia, Efefilia, Sonnofilia, Polyamori e Arpaxofilia (di chi si eccita nel vedere il proprio compagno piangere, di chi prova piacere sessuale quando viene derubata, di chi si eccita quando tocca tessuti morbidi e via dicendo), ma senza raggiungere (pur valendosi di un dialogo diretto ed un poco spinto) mai la volgarità, anzi, raggiungendo picchi di comicità e pertanto ilarità. Giacché è da queste situazioni, che non sembrano in verità molto perverse, nascono gli episodi raccontati dal film con tono spigliato e insieme garbatamente ironico. E sarà una Madrid estiva, colorata e bellissima, a costruire lo sfondo in cui si intrecceranno, alternandosi sullo schermo, le storie dei personaggi, la cui "devianza" sessuale li caccia in situazioni quasi sempre imbarazzanti, talvolta buffe e talvolta patetiche e dolorose, ciò che costituisce l'oggetto del film, raccontato con umana e pietosa partecipazione. L'unico vero momento che meno lascia spazio all'immaginazione è infatti la sigla iniziale, nella quale l'accoppiamento umano è messo in parallelo ai movimenti della natura. Il resto della pellicola è semplicemente una commedia romantica (in cui le passioni più "estreme" e "strane" esposte, vengono altamente sdrammatizzate), che parla di argomenti come gli strani gusti sessuali dei protagonisti (nel loro processo di scoperta dei loro gusti particolari e di come questi vengano accettati dai rispettivi partner) senza spingersi mai oltre il limite. Un prodotto per questo abilmente esilarante, composto nella sua spregiudicatezza, che gode di un'ottima energia registica che sa ben calibrare la caratterizzazione dei vari personaggi, messa ancor più in evidenza da un montaggio di tutto rispetto, non dimenticando una piacevolissima e perfetta colonna sonora. Inoltre, l'ottima recitazione dell'intero cast (comprendente tra gli altri Belèn Cuesta, Candela Pena, la bella Natalia De Molina, già tanto apprezzata nel discreto La vita è facile ad occhi chiusi ed anche lo stesso regista Paco Leòn) rende credibili situazioni che vanno dall'indiscreto alla vera e propria perversione, ingredienti che alla fine vivificano (a)normali rapporti, rendendo vivace, e perché no, autentico l'amore ed il piacere nella coppia. Certo, la prima parte del film regge molto bene e la seconda non tanto, certo, la narrazione è troppo lenta, banale, prolissa e leggermente frammentata, certo, per essere una commedia non annoia ma nemmeno coinvolge, certo, poteva rivelarsi una pellicola più frizzante e trasgressiva, invece di una favola tradizionale con un pizzico di piccante, ma la pellicola, attraverso umorismo e leggerezza, e grazie alla vivacità e la naturalezza del racconto (dopotutto le storie di coppia narrate sono ben distribuite, alternandosi, e creano un contesto lineare e che alla fine perfettamente si conclude) ed alla sincerità liberatoria dell'erotismo che lo caratterizza, riesce a superare l'ostacolo della sufficienza. Giacché Kiki & i segreti del sesso, che è un remake dell'australiano The Little Death (non mi risulta essere arrivato in Italia), è una piacevole e leggera commedia che strappa più un sorriso. Una pellicola priva di scene spinte o volgarità gratuite, accessibile a tutti, senza paura di inciampare in censure, ma soprattutto gradevolmente divertente. Voto: 6+
Un film "buffo" come lo sono certe commedie teatrali, questo è La stoffa dei sogni, film del 2016 diretto da Gianfranco Cabiddu e interpretato da Sergio Rubini e Ennio Fantastichini. Siamo di fronte, infatti, ad un film che fa del teatro la sua chiave di lettura nonché la sua chiave esecutiva. Non a caso la trama della pellicola, che è stata liberamente tratta dalla pièce L'arte della commedia di Eduardo De Filippo e dalla sua traduzione in napoletano de La tempesta di William Shakespeare, si svolge nelle realizzazione di un'opera teatrale da parte di una compagnia inedita, attori e criminali che si ritrovano per caso su un isola, quella dell'Asinara (isola carceraria nel mezzo del Mediterraneo dopo un naufragio). Tutti dovranno misurarsi in questa opera corale, e i criminali dovranno dare un'abile prova di se per non essere scoperti da un commissario amante del teatro. Ci sono difatti tutti gli ingredienti per un'opera buffa, che strappa sorrisi lievi (come la gestualità dello straordinario Rubini) ma soprattutto molte riflessioni sul senso del teatro come forma di riscatto, sul valore dell'integrazione, sull'amore per i figli (che sono tutti uguali, sia quelli del commissario che quelli dei criminali). Un film che sul finale ci riporta alla realtà, o meglio ad una realtà, perché giocando con il teatro, metafora della vita, si sfuma il confine tra reale e non reale e forse giudicheremmo le persone non solo per i loro sbagli. Una delle cose infatti più interessanti del film, non a caso la sceneggiatura ha vinto, a fronte di nove candidature, il David di Donatello nel 2017, è l'accostamento di queste due realtà teatrali con una commedia del grande inglese rielaborata in dialetto napoletano con accostamenti alla sceneggiata. Giacché il modo in cui le opere di Shakespeare e di Eduardo De Filippo vengono incorporate e fuse è brillante, gli autori riescono nell'intento di creare un adattamento libero e originale che rende comunque omaggio ad entrambe, senza confonderle o banalizzarle. Le atmosfere sono un altro punto a favore de La stoffa dei sogni, ritratti campestri di sentieri selvaggi, mari cristallini e natura incontaminata (un'oasi di tranquillità che rimanda al Mediterraneo di Salvatores). Inoltre la fotografia del film non è mai banale e ritrae con occhio sapiente un paesaggio che diventa personaggio, un luogo senza tempo che fa da cornice perfetta all'opera Shakespeariana. Non tutto però risulta perfetto. Il film infatti pecca nel ritmo, a tratti è un po' sgrammaticato, lento e descrittivo. Non a caso quello che fa un po' acqua è la storia, che alla fine non prende, non assorbe completamente lo spettatore, anzi potrebbe anche annoiare. Anche se la grande pecca del film è l'assoluta mancanza di umorismo. I personaggi difatti sembrano scritti per creare situazioni al limite del grottesco, piuttosto bene direi, ma restano intrappolati senza mai "evadere" per davvero. Giacché, e poiché le interpretazioni contano eccessivamente troppo sull'elemento folcloristico (con il rischio di mettere da parte la tecnica cinematografiche), la  recitazione tende ad una totale teatralità, che si sa (sebbene in questo caso sia richiesta dal contesto narrativo) al cinema spesso e volentieri non funziona. Soprattutto per quanto riguarda i giovani interpreti (perché i vecchi nonostante le loro interpretazioni un po' antiquate se la cavano egregiamente), a cui sembra mancare totalmente un senso artistico nelle loro performance. Stessa pecca affligge i dialoghi in generale. Le conversazioni opulente ed eccessivamente romantiche poi, ingigantite dallo schermo e rese ancor più stucchevolmente poetiche, stonano nel contesto cinematografico. Infine i principi del filmico non trovano spazio nell'eccessiva drammaticità degli echi teatrali e penalizzano quello che in un diverso ambito, sarebbe stato più accessibile. Tuttavia a parte tutto ciò, e a parte la mancanza di una verve comica, il film è particolarmente originale (seppur convenzionale e quasi troppo televisivo), ben diretto, ben interpretato e meritevole di una visione. Ma non aspettatevi un capolavoro, ma solo un film comunque piacevole (poetico), forse troppo colto e non perfetto, e quindi neanche eccezionale, tuttavia interessante. Voto: 6-
La storia di A testa alta (La tête haute), film del 2015 diretto da Emmanuelle Bercot, è un racconto universale e senza tempo che fin dai tempi del François Truffaut de I 400 colpi parla di adolescenti allo sbando, arrabbiati con il mondo ed incapaci di prendersi le proprie responsabilità. Niente di nuovo quindi, tuttavia la semplicità di questa storia è il suo maggior pregio, peraltro sorretto dalle buone interpretazioni del cast. Una storia dove la famiglia fallisce e dove la società si prende carico, fra mille difficoltà, della riabilitazione di un giovane, quando la famiglia non è più in grado di farlo. Al tempo stesso la sua semplicità è anche il limite stesso del film, incapace di andare oltre la convenzionalità della storia stessa. Non è un brutto film certamente, ma non è nemmeno un lavoro che rimane impresso nella memoria, perché non ha qualità tali da offrire quel qualcosa in più della convenzionalità stessa. Il film infatti, che richiama un po' troppo alla memoria l'ancor troppo recente Mommy, eccezionale lavoro del canadese Xavier Dolan, che in un'eventuale competizione gli sottrarrebbe senza difficoltà la coppa, giacché racconta una storia difficile, piena di ricadute e di sbagli, che ci insegna a non gettare la spugna e a non fidarci di chi ci propone soluzioni semplici a problemi complessi, non ci dice niente di nuovo. Anche se alla fine e in ogni caso, (pur senza spiccare) il film riesce nel suo intento di comunicare qualcosa allo spettatore. Il film difatti, che ha anche il merito di lanciare, oltre al giovane Rod Paradot, anche la bella Diane Rouxel, che interpreta Tess, la figlia di un'assistente sociale che grazie al suo amore contribuirà a salvare Malony dalla cattiva strada, grazie a un attento lavoro di ricerca sui casi affrontati quotidianamente dai giudici minorili dalla regista, che torna dietro la macchina da presa dopo la fruttuosa parentesi come attrice in Mon roi: Il mio re (con cui ha vinto il premio come Migliore interpretazione femminile a Cannes), dipinge un ritratto che vuole essere paradigmatico di un disagio sociale diffuso, evitando inutili eccessi melodrammatici. In più la sostanziale verosimiglianza di vicende e dialoghi valorizza la bravura dell'intero cast attoriale: Catherine Deneuve nella parte della materna giudice Florence come sempre buca lo schermo, ma le tiene testa il protagonista Rod Paradot, con una faccia da schiaffi adatta al personaggio e una naturalezza interpretativa impressionante per un esordiente (tanto che seppur certe parti, a causa del tema trattato, sono notevolmente irritanti, li si sopportano grazie a lui). Azzeccate poi e in particolare alcune scelte registiche, come l'inizio (anche se non troppo chiaro è il passaggio di scena, in cui vediamo Malony cresciuto di nuovo con la madre, mentre dall'introduzione sembrava che lei l'avesse abbandonato) e il finale positivo, che porta un moto di speranza nella vita del protagonista (anche se il percorso attraverso il quale ci si arriva è troppo repentino e poco credibile). Ciò che però in conclusione del film lascia perplessi è la sensazione di aver assistito a una sorta di denuncia a metà: se le difficoltà vissute da Malony (e dalla sua famiglia, e dai ragazzi che incontra nei centri di recupero) rimandano a problemi reali e comuni, pare decisamente semplicistica la rappresentazione della controparte di Malony, ovvero le istituzioni, che adempiono sempre ai propri compiti in maniera impeccabile e virtuosa (e che invece non lo sono quasi mai). Si cade inoltre, a volte, in un buonismo semplificante che caratterizza un po' tutti i personaggi, oltremodo comprensivi e materni nei confronti del protagonista. Non c'è un antagonista se non la scissione interna a Malony stesso, il quale per altro è già ben indirizzato verso la via della redenzione. In conclusione, un film che sa mostrare con sensibilità dei giovani delinquenti che non si sentono capiti dalla mondo ma a cui bisogna offrire delle possibilità, perché in fondo ciò che vuole ognuno è trovare il proprio posto nel mondo, e purtroppo non tutti ci riescono. Seppur questo è comunque un film, sicuramente da vedere, ma piatto e dove quasi tutto è prevedibile. Voto: 6
Opera seconda del calabrese Fabio MolloIl padre d'Italia (2017) è un progetto insolito che riprende lo schema tipico del road-movie (anche se qui non vediamo nulla delle tappe che i due protagonisti fanno e tutto è alquanto, anche troppo, sfumato) per accostare il percorso di due emarginati (un omosessuale depresso per amore e poco convinto e una cantante ribelle, incinta e senza meta) che si trovano per caso insieme a condividere un viaggio alla ricerca del padre della nascitura di lei e a sperimentare nuove prospettive per le rispettive esistenze. Film (anche un po' pretenzioso) che per questo non manca di ambizioni, con un gusto per l'immagine che in certi momenti si fa raffinato e sa catturare piccoli momenti di verità dei rispettivi personaggi in maniera abbastanza sincera, anche se poi si perde in altri dettagli, con la conseguenza che il risultato non convince del tutto. È ad esempio altamente improbabile che l'incontro fra Paolo e Mia avvenga in un locale gay di sesso promiscuo dove una donna non entrerebbe mai, e non viene data nessuna giustificazione narrativa per questo particolare, così come si potrebbe cavillare su altro, ad esempio il fatto che in Calabria nessuno si interroghi sul ruolo di Paolo nei confronti di Mia anche se la madre della ragazza sa bene che non è lui il padre della bambina. Insomma un film che vuole affrontare argomenti delicati come le "famiglie alternative" ma non sempre si affranca da certi cliché, compresi i discorsi di Paolo su cosa è naturale e cosa non lo è, che vengono poi smentiti nel finale dalla sua scelta coraggiosa. Un film quindi  abbastanza ordinario nella sua esposizione, che cerca di colpire ma non sempre ci riesce, colpa anche dei dialoghi che non incidono e delle interpretazioni che appaiono abbastanza fredde, ma anche di un ritmo non eccelso e di situazioni dilatate oltre modo che finiscono per inficiare una visione che poteva essere sufficientemente valida ma che non riesce effettivamente a coinvolgere degnamente. Certo, ci sono anche dei momenti carini e ben diretti verso metà film, ma alla fine la sostanza palpabile è veramente poca. E' per me perciò un film riuscito a metà, con alcuni buoni spunti ma che necessitava di un maggiore controllo. Tuttavia bravo Luca Marinelli che recita in sottrazione con intelligenza e adeguata espressività (che dimostra insomma il suo eclettismo), mentre forse non del tutto riuscita la performance di Isabella Ragonese, brava attrice che ci ha abituati bene ma che risente di un personaggio impostato in maniera contraddittoria nella sceneggiatura, una sceneggiatura molto debole per le numerose incongruenze, per la sommaria analisi psicologica del personaggio di lei (assimilabile a troppe protagoniste "sbiellate" della commedia italiana), per la stereotipata rappresentazione del sud italiano, nonché per l'eccessivo uso di metaforoni banali. Questo per un film, Il padre d'Italia, non da buttare completamente solo per le interpretazioni sincere e sentite dei due sopra, ma un road movie secondo me poco convincente, poiché è la storia a non decollare. Ed è un peccato, perché in parte è anche un bel film. Voto: 5,5

16 commenti:

  1. Quando ho letto Kiki pensavo a quello di Miyazaki, questo proprio non lo conoscevo :D

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    1. E' tutt'altro effettivamente ad un film d'animazione, soprattutto nel tema ;)

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  2. Potrebbe interessarmi solo Il Padre d'Italia, anche se gli di un voto basso; Kiki bello solo per il manifesto XD

    Moz-

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    1. Un voto basso perché mi ha deluso, mi aspettavo qualcosa di diverso e di meglio...
      Kiki non è bello solo per quello, e comunque si ride ;)

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  3. Visto solo Il padre d'Italia, che per me invece è il film italiano più interessante dello scorso anno.

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    1. Purtroppo invece a me non ha preso, forse perché non faceva per me, soprattutto nel tema..

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  4. Mi segno i titoli, vediamo cosa riuscirò a vedere.

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  5. Visto - rimanendo annoiato - solo La stoffa dei sogni..

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    1. In certi frangenti anch'io, ma oggettivamente è un film alquanto interessante ;)

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  6. Complimenti per l'impegno! Mi stavo addormentando solo guardando le locandine! 😅
    E le tue recensioni non mi hanno di certo fatto cambiare idea 😝

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    1. Aspetta, non era una critica alle tue recensioni!
      Mi spiego meglio. I film mi annoiano dalla locandina e leggendo le tue recensioni non mi sono annoiato ma continuo a ritenerli dei film che mi farebbero cadere in un sonno profondo.
      Spero di essere stato più chiaro 😝

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    2. L'avevo capito anche senza questo chiarimento comunque che non lo era, avevo già intuito ;)

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    3. Ho visto Il Padre d'Italia solo per Marinelli, nonostante sappia che sceglie sempre sceneggiature di merda.
      E questa non fa eccezione... Bravo, come dici anche tu, come sempre ma non basta a salvare il film.
      Il film in parte è carino, concordo con te ma tutti gli aspetti negativi che sottolinei, me lo fanno bocciare.
      Quando decide di accompagnarla col furgone della ditta, a me è venuta rabbia. Ma ti puoi andare a inguaiare per 'sta sciroccata? Così più si allontanava e più mi concentravo sul "riuscirà a non farsi licenziare?", distraendomi su una trama spesso lenta e noiosa.
      Donne etero che finiscono in locali per uomini omosessuali si è visto in qualche commedia americana o serie, per questo non ci ho fatto caso come hai fatto tu 😛

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    4. E' quasi sempre così, buone le intenzioni mediocre la resa, qui poi la sceneggiatura lascia molto a desiderare.

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