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giovedì 31 ottobre 2019

Movies for Halloween: La casa delle bambole - Ghostland (2018)

Tema e genere: Pascal Laugier firma una pellicola che esplora la dicotomia tra reale e finzione. Una pellicola che va al di là del suo essere un film dell'orrore. Qui il cliché trito e ritrito della bambola horror acquisisce un senso nuovo e diverso. Vedere per credere.
Trama: Pauline e le sue figlie adolescenti, Beth e Vera, ricevono in eredità una vecchia villa piena di cimeli e bambole antiche che rendono l'atmosfera casalinga tetra e inquietante. Durante la notte, due intrusi penetrano nella casa e prendono in ostaggio le ragazze. Tuttavia, ridotte in fin di vita riescono a salvarsi. Sedici anni dopo, Beth, diventata una scrittrice di successo ritorna in quella casa (dove abitano ora la madre e la sorella) per assicurarsi che tutto vada bene. Sembrerebbe di sì, pian piano però Beth scopre che le cose non sono propri così come appaiono e presto prenderà contatto con una terribile realtà.
Recensione: Ad Halloween si sa gli horror vanno per la maggiore, è consuetudine poi che si debba vedere uno a tema per la notte delle streghe (ambientato in quel giorno), ma ho già visto negli ultimi mesi l'undicesimo capitolo della saga di Michael Myers (qui la recensione) ed anche quella specie di sequel/spin-off di Piccoli Brividi (qui la recensione), ho optato quindi sì per un horror, però per uno non a tema. Ho optato e visto infatti (a dispetto del titolo internazionale e non) un horror (portato in italia da Midnight Factory, l'etichetta tutta italiana specializzata proprio nel settore horror) genuino e senza inutili fronzoli paranormali (comunque perfetto per Halloween, oltretutto riuscito e di buon livello). La casa delle bambole (il "Movies for Halloween" di quest'anno, qui il precedente) è difatti un film molto "fisico" ed anche psicologico. In Ghostland ci sono tanti scontri, tante urla, Jumpscare quanto bastano e rumori sinistri a suggerirti che il mostro è proprio alle tue spalle. E' anche un film molto claustrofobico, perché ad esclusione di alcune scene la maggior parte del set è proprio all'interno di una casa resa inquietante dalle centinaia di occhi che continuamente sembrano osservare le protagoniste della pellicola. Una pellicola che per essere un horror ha un inizio piuttosto scolastico, ma che poi prende altre strade e si rivela tutt'altro. Il francese Pascal Laugier è l'autore di un horror di cui si è parlato tanto e continua a far rumore anche a distanza di un decennio, quel Martyrs (visto tuttavia solamente pochissimo tempo fa, qui la recensione) che metteva in scena sadicamente la voracità delle generazioni più anziane nello sfruttare le carni e le menti dei più giovani. Ma ecco che dopo aver diretto nel 2012 il più convenzionale thriller drammatico I bambini di Cold Rock, egli torni a girare un horror. E sempre nel campo dello sfruttamento di giovani corpi (ancora una volta due corpi femminili, in questo caso due sorelle) ci si muove: solo che in La casa delle bambole - Ghostland il terreno su cui si sceglie di giocare è quello degli stereotipi del cinema e della cultura orrorifica americana, a partire dal continuo riferimento a H. P. Lovecraft. Beth, infatti, che sviene alla sola vista del sangue, vorrebbe diventare una scrittrice horror, Vera, invece, è più radicata nella realtà (da qui il suo nome), ha un ragazzo, delle normali aspirazioni per il suo futuro e un innato senso di ribellione nei confronti della madre, da lei accusata di preferire l'altra sorella.

mercoledì 30 ottobre 2019

Gli altri film del mese (Ottobre 2019)

Ho già detto ieri di non avere nessuna news interessante (non credo che sapere che un mio eccezionale amico si sposa vi interessi, o no?), ma anche in questa occasione mi preme dirvi alcune cose, in merito ovviamente al blog. Come avrete notato, questo post e il precedente, sono usciti con un giorno di anticipo, ebbene ciò è stato necessario per permettermi di pubblicare domani il consueto consiglio cinematografico per la notte (ma anche il giorno, e quindi il pomeriggio) di Halloween. In tal senso, non perché abbia qualcosa da fare (non perché il giorno precedente avrò partecipato ad una festa in maschera), ma il giorno successivo, ovvero il giorno degli Ognissanti, osserverò un giorno di riposo, semplicemente perché è Festa. E così ci rivedremo il lunedì successivo, e da lì in poi non mi fermerò fino a Natale, quando avrò già pubblicato tutte le classifiche di fine anno. Nel frattempo ci sarà molto materiale da farvi scoprire e quindi leggere, come questo qui, dove presento film non eccezionali ma semplicemente riusciti. Ma prima vorrei farvi partecipi di una mia fissazione scaturita da un programma televisivo di cui non riesco a fare a meno, e questo programma in onda su Blaze (canale Sky) è Lego Masters. Io non sono mai stato un accanito giocatore (e consumatore di mattoncini) però vedere le costruzioni che i concorrenti di questo programma che premierà con 100 mila dollari il vincitore (tra le iniziali 8 squadre) del concorso, è qualcosa di davvero affascinante. Perché tra ponti di due metri, modellini di auto (e che auto, la mitica DeLorean), nascondigli di cattivi e costruzioni di grande impatto, il divertimento non manca. Saranno stati i film d'animazione, a tal proposito ho visto anche le prime due puntate della nuova serie a cartoni Lego Jurassic World (davvero carina e tanto simpatica), ma mi dispiace non averci mai giocato con impegno e passione. Però nessun rimpianto, anzi forse ho risparmiato così centinaia di euro (e di lire), quindi mi accontento di vedere altri all'opera. Ma ora bando alle ciance, ecco i miei consigli (perché sono film sufficientemente riusciti da vedere) cinematografici del mese.

martedì 29 ottobre 2019

I peggiori film del mese (Ottobre 2019)

Non ho niente di particolarmente importante da dire o segnalare, che sia successo questo mese, che sia positiva o negativa, nella realtà o virtualità, cosicché non mi resta che dirvi che la rivalutazione dei titoli scartati ed evitati (di quelli da voi segnalati da dover provare a recuperare) sta procedendo (e procederà ancora se qualcuno in questa nuova lista avesse da consigliare), e che quindi prossimamente alcuni titoli vedrò e saranno raggruppati in un unico post, che sarà pubblicato tuttavia molto in là, verso la fine dell'anno di pubblicazione recensistica. Nel frattempo ecco alcune pellicole che non mi hanno convinto.

Doppia Colpa (Thriller, Usa 2018)
Tema e genere: Thriller psicologico/drammatico giallo incentrato su un ambiguo caso di cronaca nera affidato ad un navigato poliziotto.
Trama: Un professore "felicemente sposato", noto per il suo fascino, diventa il primo sospetto quando una giovane donna viene trovata morta. In realtà l'uomo nasconde di essere un ex alcolizzato e cova dentro di sé un forte malessere, talmente forte da fargli dubitare della realtà.
Recensione: Un thriller mediocre, povero di spunti che prende delle vie già percorse senza particolari sussulti. Il personaggio di Guy Pearce gioca un pochino al "memento" considerato le sue difficoltà di memoria, sospesa tra l'immaginario ed il reale. Pierce Brosnan più sornione e più misurato, mentre la vera indagine in fondo è affidata alla moglie interpretata da Minnie Driver. Un indagine che si focalizza sull'uomo che le sta accanto, tanto che la scomparsa della ragazza rimane volutamente a fare da cornice. Così facendo però si toglie troppo sale alla storia che si riassume nel solito dramma familiare di una coppia in crisi e sul bilico del divorzio. Perché certo, il building up dell'aura di mistero è molto ben calibrato, fra strutture a flashback, false piste, visioni oniriche (ricordi?) che inducono lo spettatore a dubitare della colpevolezza del protagonista, ma il gioco dura troppo: ben presto il film si rivela troppo lento, verboso e pretenzioso coi suoi discorsetti filosofici circa la verità o ciò che noi interpretiamo come tale. Però non sarebbe un problema se i nodi venissero al pettine nel finale: così non è, e quindi a fine visione resta un senso di vuoto e di delusione, per aver appunto visto un film pasticciato ed incongruente come questo. Un film in cui non ci sono colpi di scena, non c'è pathos, non c'è neppure una regia credibile, resta solo il caos. Scivolata abbastanza grande per il regista e, soprattutto, per il cast.
Regia/Sceneggiatura/Aspetto tecnico/Cast: Thriller senza infamia ma anche senza nessuna lode: il cast (un buon cast, oltre ai tre citati ci sono anche attori niente male, Odeya RushJamie KennedyAlexandra Shipp e Clark Gregg) offre una prestazione professionale ma la regia (affidata al regista svedese Simon Kaijser da Silva) è anonima, il ritmo fiacco, la sceneggiatura non riesce a coinvolgere nonostante la presa di un soggetto tante volte declinato al cinema come quello l'innocente (o presunto tale) in trappola. Tecnicamente poi, non c'è niente che valga la pena segnalare.
Commento Finale: Parte bene, con una premessa già vista ma interessante, a cui si aggiunge la probabile perdita di memoria di cui Guy Pearce è maestro. Peccato che il film (che più che un thriller sembra un drammatico psicologico incentrato sul protagonista e sulla sua crisi esistenziale) poi non vada oltre questa base (e non decolli mai), declinandosi su ritmi lenti e su un continuo gioco di gatto col topo fatto dal poliziotto Pierce Brosnan (bravo) con il protagonista. Lo spettatore più navigato capirà presto che dell'arrosto c'è solo il fumo e il finale delude ampiamente. Mediocre.
Consigliato: Sì, per una serata soporifera attendendo l'ora fatale dell'adorato materasso.
Voto: 4,5

lunedì 28 ottobre 2019

Le altre serie tv (Settembre/Ottobre 2019)

Dopo parecchio tempo dalla messa in onda (un anno più o meno, e ad un anno dalla recensione della stagione precedente, qui), ma oramai dovreste sapere che vado senza cronologia, ho concluso anch'io la sesta stagione di Arrow, non una delle migliori per la serie di punta di casa CW in tema supereroi. Una sesta stagione che fino alla sua metà era stata abbastanza godibile (insomma) quanto la quinta (quest'ultima sicuramente migliore della quarta), ma che si è persa proprio negli episodi dove si affermava l'ascesa di Ricardo Diaz a villain assoluto di questa stagione. Il problema è stato proprio lui, Ricardo Diaz. Un cattivo troppo cattivo, che opera il male per rivalsa e vendetta e niente più. L'unica cosa atipica del suo personaggio è che paradossalmente alla fine non muore e sarà sicuramente un pericolo anche nella prossima stagione. Sarebbe stato molto più interessante proseguire l'arco narrativo che riguardava il gruppo di nemici assoldati da Cayden James (Michael Emerson ancora alle prese con i computer), che quanto meno è stato un antagonista particolare e con una serie di skill uniche nel suo genere che poteva dare molto più filo da torcere. Se non fosse stato che qualcuno degli sceneggiatori, a metà stagione circa, ha deciso che no, meglio tornare su un filone narrativo standard, facendo emergere un super-cattivo banalissimo. Cayden James e il suo gruppo era stato capace di seminare discordia e dividere il Team Arrow, dando linfa ad una sceneggiatura che si è concentrata molto sui problemi personali di ogni membro della squadra, originando situazioni spiacevoli e tutto sommato interessanti da seguire. Quando poi si è voluto creare l'effetto sorpresa, eliminando il villain a metà stagione per farne emergere un secondo molto più potente, qualcosa si è guastato. E si è giunti ad una serie di episodi scialbi che hanno rovinato il giudizio dell'intera stagione. L'ultimo episodio è stato atipico. Dopo un'intera annata dove tutto quello che aveva un costo a Star City era stato pagato da Diaz, l'FBI entra in scena e si ricorda di avere un certo peso e prende posizione contro il criminale.

venerdì 25 ottobre 2019

Bohemian Rhapsody (2018)

Tema e genere: Pellicola biografica musicale che ripercorre i primi quindici anni del gruppo rock dei Queen, dalla nascita alla consacrazione.
Trama: La carriera e la vita di Freddie Mercury, dal suo incontro con quelli che poi sarebbero con lui diventati i Queen, all'apoteosi del Live Aid.
Recensione: Sono un fan dei Queen da quando ho memoria, ma anche se non lo fossi stato, penso che Bohemian Rhapsody fosse (ed è) un film che serviva. Freddie Mercury e i Queen con le loro canzoni bellissime e la loro musica innovativa hanno conquistato generazioni, e pertanto si tratta di un omaggio, un tributo dovuto e che molti fan attendevano da anni. Il rischio semmai era proprio questo, ovvero disilludere le aspettative giustamente alte del pubblico, che pretendeva un film verosimile, con attori credibili e aderenza alla realtà, in grado di far rivivere determinate emozioni agli spettatori più "vecchietti" e conoscere e far apprezzare questo incredibile gruppo alle nuove generazioni. Ebbene, seppur non completamente veritiero, mai scelta fu azzeccata nell'affidarsi ad un cineasta affermato ed eclettico che risponde al nome di Bryan Singer, che nonostante le difficoltà (ad un certo punto licenziato dalla Fox e sostituito in corsa per la post-produzione) dà vita (anche grazie all'aiuto di Anthony McCarten, mostro sacro della sceneggiatura che negli ultimi anni ha infilato due eccellenze come La teoria del tutto e L'ora più buia) ad uno dei suoi più riusciti lavori e forse ad uno dei migliori biopic musicali di sempre (egli riesce infatti a rendere epica e toccante una storia che in fondo è simile a tante altre, che segue un arco vitale quasi scontato). Rispondendo al resto, è proprio la grande credibilità degli attori a contribuire al buon risultato complessivo. Non una semplice interpretazione ma una vera e propria reincarnazione, quella di Rami Malek, aiutato da trucco prostetico forse un filo eccessivo, ma la fisicità è tutta sua. Anche gli altri membri del gruppo sono stati scelti per la perfetta aderenza fisica, con un effetto a tratti straniante (Gwilym Lee è Brian May, Ben Hardy è Roger Taylor, Joseph Mazzillo fa John Deacon), ma tutti assai ben delineati. Ed è così che Bohemian Rhapsody, film che ha ricevuto quattro Oscar durante l'ultima edizione dei premi, quelli di miglior attore, miglior montaggio, miglior montaggio sonoro, miglior sonoro, risultando il film con più premi vinti in quell'edizione, e tutti premi certamente non regalati, porta sul grande schermo la storia dei Queen e di Freddie Mercury. Dal lavoro come scaricatore di bagagli all'aeroporto di Heathrow, a una famiglia tradizionalista, attaccata alle proprie origini persiane, la vita di Farrokh Bulsara/Freddie Mercury (interpretato in maniera assolutamente convincente da Rami Malek, se infatti la somiglianza fisica tra l'attore e il cantante è poca, i denti posticci di Malek poi sono esageratamente sporgenti, le movenze, il modo di stare sul palco, di cantare e di rivolgersi al pubblico è invece fedele, grazie anche al playback credibile) è scandita dagli incontri, prima coi suoi primi compagni di musica Brian May e John Deacon, poi dalla relazione con Mary Austin (Lucy Boynton, intravista ne Assassinio sull'Orient Express), con la quale stava per convolare a nozze, salvo rivelarle la propria omosessualità.

giovedì 24 ottobre 2019

[Cinema] Sion Sono Filmography (Suicide Club, Cold Fish, Guilty of Romance, Antiporno)

Ancora un regista giapponese eccessivo e delirante, dopo i molti maestri (più o meno controversi) che il cinema del Sol Levante ci ha fatto incontrare negli ultimi 15-20 anni. Maestri (ma non dell'animazione) che ho scoperto ed ho conosciuto però solo nell'ultima decade. Un pensiero a certi film di Takeshi Kitano o di Takashi Miike è infatti inevitabile. A proposito di quest'ultimo, tornerà presto su questi schermi, con altre pellicole della sua filmografia, come succederà anche nel caso del regista oggi in oggetto. Parlo ovviamente di Sion Sono, che ho conosciuto tramite lo spiazzante ed incredibile horror Tag, che dopo averne lette da alcune parti, in modo positivo logicamente, ne ho voluto perciò scoprire qualcosa in più. Scoprire ciò naturalmente tramite la sua discreta (in termini numerici) filmografia. Cosa poi non così semplice, non perché complessa (soprattutto in termini tematici, e di questo ne dirò dopo) ma perché di difficile reperibilità, infatti nonostante sia uno dei più apprezzati esponenti della cultura giapponese moderna e uno dei cineasti contemporanei più dirompenti, nel nostro paese Sion Sono è noto solo ad una cerchia ristretta di spettatori e critici, e nessuno dei suoi film è mai stato distribuito in Italia, a parte alcune presentazioni alla Mostra di Venezia. Tuttavia ci son riuscito, con i sottotitoli certo, ma intatto rimane il valore del suo cinema, un cinema che, pur estremamente raffinato, tende alla "popolarità", nel senso più moderno: visionario, provocatorio e torrenziale, mescola psicanalisi e Grand Guignol, mélo e cultura pop, horror e politica, serial killer e dark ladies, Nouvelle vague e Tarantino, una lucida disperazione per il vuoto nel quale si trovano immersi i giovani d'oggi e una testarda impronta anarchica che lo porta a non ripetersi mai, a non ammorbidirsi, ad andare sempre oltre. Ebbene ho visto quattro dei suoi film (come da Promessa), tra i più importanti e conosciuti della sua filmografia, ma altri quattro, quasi sicuramente (ma che non saranno collegati alla Promessa per il 2020), vedrò l'anno prossimo. Intanto beccatevi questi qui e tenetevi forti, Sion Sono dopotutto è un degno erede di Miike, e suoi film si sa, pungenti e disturbanti sono.

mercoledì 23 ottobre 2019

The Boy and the Beast (2015)

Tema e genere: Film d'animazione giapponese vincitore di un Oscar nazionale, un action fantasy ma non solo.
Trama: Un bambino rimasto solo nel mondo degli umani trova in quello dei mostri una casa, affetto e un (bizzarro) secondo padre che gli insegnerà a combattere il male, anche quello dentro di lui.
Recensione: Immaginatevi due mondi, paralleli ma connessi: uno è quello che conosciamo, nel quale viviamo, l'altro è un mondo dominato da bestie, esseri ferini dall'aspetto antropomorfo. Parte da questo concetto l'ambientazione di The Boy and the Beast, film giapponese di Mamoru Hosoda, regista che ho conosciuto grazie a questo film, un film che non sarà sicuramente l'unico che di lui vedrò. In tal senso se avessi saputo che il film riprendeva alcuni dei temi già da lui proposti in precedenti suoi lavori, l'avrei visto dopo aver visto La ragazza che saltava nel tempo, Summer Wars e Wolf Children (2 di questi incredibilmente erano già in lista), ma è andata così e non ho rimpianti (e comunque li vedrò prossimamente insieme ad il suo ultimo lavoro, Mirai, nella lista dei film Premi Oscar 2019 da vedere). Nessun rimpianto dicevo, perché sì, anche senza conoscere la sua filmografia e concetti, ho apprezzato tanto questo bel film. Un film che con una scena di apertura pregevole, ci presenta un ragazzino di nome Ren (Kyuta), orfano due volte: per la madre deceduta e per un padre scomparso al quale non viene dato in affidamento. Ed è in questo preciso momento in cui il protagonista decide di scappare e vivere nel pieno vagabondaggio, fino a quanto non incontrerà una creatura parlante, Kumatetsu, appartenente ad un'altra dimensione, quella delle bestie (che non vede di buon occhio gli umani, portatori naturali delle tenebre). Riunitosi nel mondo parallelo, Ren sarà sotto la sua (scorbutica) ala come apprendista fino al momento in cui, inaspettatamente, scoprirà la via di ritorno al mondo reale. E da allora, Ren sarà in grado di destreggiarsi, cavarsela da solo, per continuare a vivere tra le due dimensioni. Ma quando entrambi i mondi saranno in pericolo, toccherà a lui sistemare tutto. The Boy and the Beast è insomma un film a metà tra il fantasy e il classico racconto di formazione, una pellicola che nella sua tematica rende omaggio anche ad imponenti opere del calibro di Moby Dick, o quelle culturali e storiche ritraenti la mitologia giapponese. Un film quindi che ha una sceneggiatura ed un soggetto che vanno al di là del classico film per bambini, trattando appunto temi decisamente adulti, ma mascherandoli con un velo di comicità. Impossibile infatti trattenere il sorriso dinanzi i siparietti comici creati dalla strampalata coppia ogni qual volta litiga, così come è difficile trattenere qualche lacrima sul finale quando i toni si fanno decisamente più cupi.

martedì 22 ottobre 2019

[Games] Borderlands: The Handsome Collection

Preciso subito (anche se per chi bazzica nel mondo videoludico di ciò ne sarà già a conoscenza) che questa non è una recensione di un gioco ma di contenuti, di una raccolta di videogiochi (ecco perché ho scelto di non usare il nuovo format recensionistico), una raccolta sviluppata da Gearbox Software e pubblicata da 2K Games che contiene i videogiochi Borderlands 2 e Borderlands: The Pre-Sequel completamente rimasterizzati con l'aggiunta di tutti i DLC. Una raccolta, uscita sì nel 2015, ma resa gratuita quest'estate (e per tutte le piattaforme, ma solo per chi aveva già qualcosa del franchise) in occasione dell'uscita del terzo capitolo (a tal proposito bellissima sorpresa come vedremo dopo), che, soprattutto per chi non aveva tutti i DLC (come me), ha permesso di completare l'esperienza di gioco. Sì, perché una delle cose più fantastiche di questa The Handsome Collection è proprio il fatto che entrambi i giochi sono proposti con tutti, ma proprio tutti, i DLC usciti. Una cosa abbastanza normale per remaster e collection varie, ma nel caso della serie Borderlands, si parla di una mole assurda di contenuti, e spesso di ottima qualità. Gearbox è famosa per una cura dei DLC davvero notevole, con avventure secondarie che aggiungono elementi interessanti e ben si integrano nella campagna del gioco base e nello sviluppo dei personaggi (a proposito di personaggi, sia per Borderlands 2 che per Borderlands: The Pre-Sequel è possibile selezionare fin da subito le classi che sono state distribuite digitalmente in un secondo momento, il che porta il numero totale di classi selezionabili immediatamente a 6 per ciascun gioco), e qui lo dimostra. Infatti, il tutto garantisce un alto numero di ore di gioco, tra single player e co-op (sia online che in split screen, fino a quattro giocatori), sia per i cacciatori di Trofei e Obiettivi, visto che le liste degli achievement sono separate da quelle dei giochi originali e comprendono, chiaramente, sia quelle dei giochi base, sia quelle dei DLC, sia per chi non ha mai giocato ad un titolo della serie (persone a cui è soprattutto rivolta questa collection, anche se, come detto, come nel mio caso, non è detto sia così). Quest'ultimi comunque che, senza il primo capitolo (che qui appunto non c'è) fortunatamente non si perdono tanto a livello di trama, anzi, si troverà a suo agio dopo qualche ora di gioco. A tal proposito si ricordi che Borderlands, in tutte le sue accezioni, è uno sparatutto in prima persona, a metà tra l'open world ed il gioco di ruolo, che sfrutta una struttura di gioco ormai collaudata. In tal senso controlli e gameplay sono rimasti chiaramente pressoché invariati. La qualità dei due giochi, infine, è notevole.

lunedì 21 ottobre 2019

La paranza dei bambini (2019)

Tema e genere: Interamente recitato in napoletano e sottotitolato in italiano, questo film, che è l'adattamento cinematografico dell'omonimo romanzo scritto da Roberto Saviano, è un dramma di formazione che parla di criminalità, ma non solo.
Trama: Nel rione Sanità di Napoli crescono nuovi giovani boss: guidati da Nicola e dal figlio dell'ex boss che un tempo guidava il quartiere. Nell'incoscienza della loro età vivono in guerra e la vita criminale li porterà a una scelta irreversibile: il sacrificio dell'amore e dell'amicizia.
Recensione: Parliamoci subito chiaro, La paranza dei bambini è un bel film, ben fatto e di pregio, che non fatica a porsi come opera interessante e di qualità, che quindi merita di essere visto, perché racconta ugualmente delle storie importanti, ma è anche un film che fallisce nel distanziarsi da opere precedenti. Le storie che il film ci racconta sono tristi, coinvolgenti, necessarie, ma è una ripetizione, che lo si voglia o no. C'è da dire infatti che per quanto concerne questo lavoro di Claudio Giovannesi, regista emergente di indubbio talento, pur se lodevole nelle intenzioni e interessante nella disamina delle dinamiche criminali e del comportamento dei piccoli delinquenti in erba, somiglia troppo a tanti prodotti similari che lo hanno preceduto. A parte il famoso Gomorra sia il film che la serie, anche tante altre pellicole più o meno recenti. La sostanziale differenza, è che questo è un racconto di iniziazione, che parte da zero per giungere al crimine più efferato, questa escalation è tanto sorprendente, laddove i suoi protagonisti sono solo dei "bambini" costretti a crescere in fretta, in un luogo infernale, senza speranze e prospettive, dove vige qualcosa che assomiglia molto alla legge della giungla. Stride volutamente il momento in cui il giovanissimo protagonista, conquistato il quartiere, dopo aver sparato e ucciso senza il benché minimo rimorso, litiga con il fratello piccolo, per delle merendine. Dunque si parla di ragazzini ingenui, immaturi, che incoscientemente imboccano la strada senza ritorno, del crimine. Fanno tenerezza e rabbia, nella loro indole, coesistono slanci affettuosi e comportamenti spietati. Nicola (il protagonista) fa la corte a Letizia (interpretata dalla bella Viviana Aprea), regalandole dei palloncini, si diverte sulle autoscontro insieme alla sua fidanzata, poi la bacia al San Carlo durante l'esecuzione di un'opera lirica. Ci sono molti elementi di riflessione e il film è ben girato e ben interpretato da attori non professionisti, reclutati proprio dalla strada, quindi molto realistico, soprattutto nel linguaggio, un dialetto napoletano stretto, giustamente sottotitolato (in tal senso il grande pregio di questo film crudo e schietto sta proprio nel descrivere questa realtà in modo vivido e diretto, raccontando le storie di ragazzini con manie e sentimenti tipici dell'età che hanno). A rimarcare l'aderenza della trama con l'attualità, la cronaca partenopea tristemente ci riferisce quotidiana mente, di "stese" effettuate con disinvoltura, nei quartieri malfamati di Napoli, proprio ad opera di baby-gang. Per chi non lo sapesse le cosiddette "stese" consistono in raid compiuti da giovanissimi balordi a bordo di motorini, che sparano all'impazzata ad altezza d'uomo, non hanno bersagli precisi, ogni tanto qualche pallottola vagante colpisce qualcuno, che ha solo il torto e la sventura di trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato, servono unicamente a "marcare il territorio" cioè a comunicare a tutti, che in quel quartiere, comandano loro.

venerdì 11 ottobre 2019

Dragon Trainer - Il mondo nascosto (2019)

Tema e genere: Terzo ed ultimo film del franchise di Dragon Trainer, una saga d'animazione incentrata sul rapporto d'amicizia tra un vichingo ed un drago.
Trama: A Berk vichinghi e draghi convivono sotto la guida di Hiccup e Sdentato. Ma uno spietato cacciatore di draghi costringe i nostri a cercare un altro rifugio. Un rifugio leggendario ai confini del mondo.
Recensione: Concludere una trilogia non è mai semplice, riuscire a dare il giusto senso di chiusura è un onere non indifferente e non sempre i risultati sono soddisfacenti, anzi spesso il terzo capitolo è quello con maggiore criticità. Non è questo il caso, perché Dragon Trainer - Il mondo nascosto (che a scanso di clamorosi ripensamenti è l'ultimo capitolo), che di per sé è un discreto film, chiude soddisfacendo lo spettatore e quindi il fan o amante della saga. Giacché la storia iniziata anni fa si conclude in maniera perfetta e il rapporto tra Hiccup e Sdentato è sviluppato in maniera coerente, sottolineando la crescita di entrambi, nonostante la vicenda qui raccontata si svolga appena un anno dopo rispetto a quella del secondo film. Da una parte il giovane protagonista deve far fronte alle responsabilità di essere il capo del villaggio di Berk, costantemente convinto di non essere all'altezza del padre, dall'altra il suo drago si ritrova per la prima volta di fronte a un esemplare femminile di Furia Buia (una Furia Chiara, per la precisione), situazione che porterà a siparietti divertenti, ma anche teneri e in alcuni casi toccanti. A fare da cornice al tutto animazioni impeccabili, le sole, attualmente, che rendono la saga di Dragon Trainer in grado di rivaleggiare con le pellicole della Pixar e della Disney Animation Studios. Un'estetica insomma a dir poco spettacolare. La resa grafica supera infatti quella dei due film precedenti e trova il suo culmine nel coloratissimo quanto misterioso Mondo Nascosto (peccato solo che Il Regno dei Draghi venga introdotto in tutta la sua magnificenza ma non venga approfondito in modo particolare). Va però detto che, rispetto ai capitoli precedenti, quello conclusivo (che tende a scivolare proprio dai capitoli precedenti di più verso soluzioni tradizionali e quindi prevedibili, anche se un un paio di spunti interessanti, belli e profondi, vengono forniti allo spettatore) pecca di superficialità nella caratterizzazione dei personaggi. Anche quelli già conosciuti si riducono a macchiette divertenti, ma senza una reale profondità.

giovedì 10 ottobre 2019

Martyrs (2008)

Tema e genere: Controverso film francese diretto da Pascal Laugier, un horror definito come il più innovativo degli anni 2000.
Trama: Lucie è ormai scomparsa da un anno, quando viene ritrovata mentre cammina lungo una strada, in stato catatonico, incapace di ricordare cosa le sia successo. La polizia scopre il luogo dove la ragazza è stata rinchiusa, un vecchio mattatoio abbandonato. Tuttavia Lucie non presenta alcun segno di abuso sessuale o di violenza. Quindici anni dopo, si trova in una casa in mezzo alla foresta, ha un fucile in mano, e uccide un uomo.
Recensione: Fastidioso, malato, stomachevole, ma anche intrigante, geniale, differente sono alcuni degli aggettivi coi quali i migliori divoratori di horror che conosca hanno definito Martyrs e cosicché che alla fine ho deciso di cimentarmi anch'io nella visione dell'horror più innovativo degli anni 2000. Premetto di amare il genere e di essere un piccolo fan dei "torture porn", ma questa pellicola proprio non mi ha convinto fino in fondo. Però confermo, l'opera non lascia lo spettatore indifferente e, cosa non da poco, più che la paura, la somatizzazione entra nella stanza accompagnata da una sensazione di fastidio che potrebbe mettere a disagio anche i più indomiti e/o insensibili polimorfi, non io, anche se, tra risatine isteriche, sussulti sulla sedia e pruriti improvvisi, tutto mi è capitato, anche che gli snack diventassero meno gustosi. E tuttavia nessuna scena è davvero devastante, in Hostel (o nell'altro capostipite dell'horror francese moderno, Frontiers), per fare un esempio, troviamo sequenze molto più disgustose e aberranti. In ogni caso, cos'è Martyrs, presentato all'epoca a Cannes, dove molte polemiche suscitò, è il frutto di una mente curiosa di approfondire la psiche umana (e l'anatomia), oppure il regista è l'ennesimo pazzo scatenato che vuole dimostrare a sé stesso e a chi è a caccia di nuovi brividi di essere bravo nel destabilizzare l'essere umano? O, forse, è solo il gioco perverso di qualcuno che per guadagno non disprezza fare leva sulle comuni paure? Insomma, il dubbio che l'autore (Pascal Laugier) vada oltre lo scibile per pura, semplice, atavica voglia di emergere sorge e che abbia un secondo e (forse) poco nobile fine pare probabile, soprattutto per la scelta di mostrarci tutti gli stadi che portano l'essere umano dal pieno delle facoltà mentali e dalla buona salute al morire di stenti e dolore sviluppando uno stato di grazia degno di approfondimento scientifico.

mercoledì 9 ottobre 2019

Vikings (5a stagione)

Tema e genere: Quinta stagione per la serie televisiva canadese di genere storico creata e scritta da Michael Hirst, incentrata sulle gesta del popolo vichingo.
Trama: Ivar, ancora pieno di rabbia per la morte del padre, dopo l'uccisione del fratello Sigurd al termine di Vikings 4, continua a sfogare la sua rabbia muovendo ancora guerra sul suolo inglese per espandere le conquiste dei Norreni (ma anche altro vorrebbe ed avrà). Floki, dopo la morte di Helga, parte per seguire la voce degli dei e si imbarca su una minuscola barca alla ricerca di una nuova vita (la troverà ma ad un prezzo). Dopo che Re Ecbert ha firmato il trattato per cedere parte delle sue terre ai Norreni, suo figlio, Re Aethelwulf, cerca di sfuggire ai pagani con l'aiuto del Vescovo Heahmund. I figli del Re Aethelwulf, Alfred e Aethelred, però non saranno in accordo col modo di agire del padre (che ben presto morirà, e complicata sarà la successione, ingombrante lo zampino della madre). Lagherta continuerà a regnare a Kattegat, ma sarà sempre più minacciata.
Recensione: La serie Vikings, al termine della quarta stagione (qui la recensione), aveva gettato le basi per un'importante svolta nella trama mostrando la morte di Ragnar Lothbrok e le prime anticipazioni su chi avrebbe assunto un ruolo da protagonista nelle puntate inedite. Il creatore dello show, Michael Hirst, ha chiuso (forse sbagliando) un importante capitolo della storia e ha dato vita a spunti narrativi inediti che, tuttavia, forse per colpa dell'assenza della sua punta di diamante, non sono riusciti a mantenere intatta l'atmosfera che aveva contraddistinto fin dal suo inizio il progetto targato History. Questa stagione infatti, segna non solo il punto più basso, ma lascia nello spettatore un senso di frustrazione notevole. Rabbia per aver lasciato che un prodotto valido, innovativo ed indipendente venisse abbandonato a sé stesso. Rabbia per una sceneggiatura quasi inesistente, se non in alcuni momenti di tensione davvero alta (che si possono contare sulle dita di una mano). Delusione per la mancanza di personaggi nuovi a cui appassionarsi, a cui interessarsi e legarsi, come era accaduto nelle stagioni precedenti. Guardando questa stagione si ha l'impressione di osservare una nave che affonda senza la possibilità di salvarla. Una stagione povera di novità e dove quei pochi personaggi che potevano sembrare interessanti scadono nella banalità, prima di essere eliminati completamente per mancanza di logica o coerenza di trama (la suddetta è infatti abbastanza confusa). Il personaggio di Jonathan Rhys Meyers, che prometteva di portare nuova linfa vitale, è stato sballottato da un lato all'altro, finendo in una rete di monotona inutilità. Si tratta tuttavia soltanto di un rappresentante di quella che è una serie lunga di esempi. Personaggi male utilizzati o poco sfruttati, in questo contesto, sono stati davvero tantissimi. Sono mancate le fondamenta che avevano reso la serie tv di Michael Hirst un punto di riferimento tra gli sceneggiati storici. Vikings era un'innovazione nel suo genere: per i dialoghi, le dinamiche e le trame. In questo caso, dato che si è già detto come i personaggi siano allo sbaraglio, non si può che sottolinearne anche la scialba parlantina. Forse si poteva definire Vikings ai suoi albori come "acerba" nei dialoghi, ma quest'ultimi non sono mai stati così brutti come in queste circostanze (e il doppiaggio non aiuta).

martedì 8 ottobre 2019

Cold War (2018)

Tema e genere: Dramma romantico, che ha ricevuto tre nomination ai premi Oscar 2019, tra cui quella nella categoria miglior film in lingua straniera, che è il racconto di una appassionata relazione tra due persone di differente background e temperamento, che sono fatalmente attratte e condannate l'una all'altra.
Trama: Sullo sfondo della guerra fredda, tra la Polonia, Berlino, la Jugoslavia e Parigi degli anni anni Cinquanta, ha luogo un'impossibile storia d'amore in un momento storico altrettanto impossibile, quella tra una cantante e un musicista.
Recensione: Un amore impossibile in piena Guerra Fredda. Un dramma in bianco e nero che dipinge la relazione tossica e carnale tra allieva e maestro (beninteso), a suon di canzoni. Nell'arco di quindici anni, i due amanti si lasceranno per poi ritrovarsi passando dalla Polonia stalinista, a Berlino-est, da una Parigi bohémienne (forse troppo idealizzata?) alla Yugoslavia comunista. La loro relazione sarà dolorosa, potente ma priva di fronzoli. Il loro amore intenso e al contempo fugace rifletterà i tempi morti e mortiferi di un'Europa disunita e senza colori. Mettiamo subito in chiaro una cosa: Cold War (premiato a Cannes 2018 per la miglior regia e vincitore di ben 5 European Film Awards, i cosiddetti Oscar europei: miglior film, regista, attrice, sceneggiatura e montaggio, selezionato ai premi Oscar 2019 per il miglior film in lingua straniera) è un film tecnicamente perfetto, addirittura sublime dal punto di vista dello stile, per l'eleganza di un bianco e nero nitido e lucente, che si sposa alla perfezione con musiche sussurrate e sognanti, che spaziano dai canti contadini polacchi al jazz (da brividi la scena della protagonista Joanna Kulig che canta suadente Dwa serduszka), con una fotografia da manuale ed inquadrature splendidamente studiate (vedi la bellezza con cui è costruita quella del ballo coreografico di fronte alle gigantografie dei leader sovietici), e da questo punto di vista è indubbiamente grande cinema (di un cinema che fu). Tuttavia la storia, la tormentata vicenda di due musicisti innamorati che si prendono e si lasciano, si rincontrano e si abbandonano, non possono stare insieme, ma nemmeno a fare a meno l'uno dell'altra, rincorrendosi da un capo all'altro dell'Europa degli anni '50 e '60, divisa dalla cortina di ferro, coinvolge fino ad un certo punto, in un'opera che basa il suo innegabile fascino più sulla forma che sul contenuto. Dello stesso regista Pawel Pawlikowski mi aveva molto più emozionato il precedente Ida (con cui vinse la prestigiosa statuetta), dove la perfezione formale si sposava perfettamente ala profondità del contenuto. In Cold War, invece la freddezza del titolo sembra posarsi anche sul suo contenuto, che non raggiunge il livello sublime della sua forma, spegnendo e raffreddando la passione che dovrebbe travolgere i due protagonisti. Nonostante ciò, il risultato finale di Cold War è un risultato di altissima qualità. Una qualità che deve certamente molto alla performance dei due attori protagonisti (bravo è anche Tomasz Kot). Cold War è difatti un film che difficilmente lascia la parola a personaggi satellitari, focalizzandosi piuttosto sul microcosmo di coppia e sul furore che contraddistingue questa relazione fagocitante e morbosa. Parrebbe addirittura che il regista si sia ispirato alla tumultuosa relazione dei suoi genitori, e che per interpretare il ruolo di Zula abbia scelto un'attrice imperscrutabile e sensuale, proprio come la madre.

lunedì 7 ottobre 2019

Maria regina di Scozia (2018)

Tema e genere: Dramma storico, adattamento cinematografico della biografia My Heart Is My Own: The Life of Mary Queen of Scots scritta da John Guy.
Trama: Maria Stuart (Maria Stuarda nella sua italianizzazione) torna nella natia Scozia per riprendersi il suo trono ma si ritrova circondata dagli intrighi e in inevitabile contrapposizione ad Elisabetta di Inghilterra.
Recensione: In piena renaissance di regine non poteva mancare all'appello Maria Stuarda, già deposta dal trono del cinema in almeno altre quattro occasioni (memorabile la prima, del 1936, ad opera di John Ford). Questa scritta dallo sceneggiatore di House of Cards Beau Willimon e diretta con mestiere dalla veterana del teatro inglese alla prima regia cinematografica Josie Rourke, è però una versione modernizzata smaccatamente femminista. Difatti, più che un film storico sembra di essere di fronte ad un'opera allegorica ai tempi del #MeToo (in tal senso è tangibile la mano di una donna: i temi sono enfatizzati eccessivamente da diventare quasi tutto ridondante e stucchevole), dove Maria ed Elisabetta sembrano simboli delle vessazioni degli uomini, del loro controllo e allo stesso tempo dell'ideologia che una donna non è solo moglie e madre. Fosse stato presentato in tal modo, molto probabilmente mi sarebbe piaciuto di più ed avrebbe ricevuto più consensi, ma in quanto film storico dovrebbe raccontare ciò che più presumibilmente è accaduto, nel modo più fedele possibile. Maria regina di Scozia dà invece un'interpretazione diversa e più "personale" di ciò che si può leggere sui libri di storia (la modernità di due donne di potere, ma sole, circondate da uomini benpensanti ma in realtà violenti, affamati e sibillini, guarda dritta ai nostri tempi). A tal proposito la critica più importante da muovere al film è proprio l'inesattezza storica. Gli sceneggiatori hanno voluto imprimere al film una chiave più romanzata rispetto ad un racconto vero e proprio. Maria ed Elisabetta sembrano, più che due regine, due burattini nelle mani degli uomini e l'odio reciproco decantato nei libri di storia viene quasi trasformato in una dualità creata dai rispettivi entourage. A dare lustro al film sicuramente è il contorno. L'esperienza teatrale della regista si percepisce nella cura dei dettagli scenografici (anche se, questa sua messa in scena è in verità talvolta smaccatamente teatrale, era molto più moderna e coinvolgente quella dell'Elizabeth di una ventina di anni fa) e nell'artisticità di alcuni dei momenti chiave del film (su tutti l'incontro finale tra Maria ed Elisabetta, che però in verità e nella realtà non è mai avvenuto). A proposito dei dettagli, essi sono importanti e in Maria regina di Scozia sono ineccepibili, facendo guadagnare alla pellicola almeno mezzo voto in più nel giudizio finale. Dato che anche trucco, parrucco e soprattutto i costumi fanno la loro parte, tant'è che entrambi sono stati apprezzati (da me non tanto, troppo pesante il trucco, acconciature strane, bene invece i costumi) e menzionati in tutti i premi che contano (ma nessuno vinto, e giustamente direi).

venerdì 4 ottobre 2019

Green Book (2018)

Tema e genere: Vincitrice di tre premi Oscar 2019 tra cui quello come miglior film del 2019, questa agrodolce pellicola racconta l'amicizia tra un buttafuori italo-americano e un pianista afroamericano nell'America negli anni sessanta, fornendone così un importante affresco di quegli anni.
Trama: La vera storia di Tony Lip, un buttafuori italo-americano che nel 1962 viene ingaggiato per portare Don Shirley, uno dei pianisti jazz più famosi del mondo, da New York sino al profondo sud degli USA per un tour di concerti. Nell'epoca precedente all'affermazione dei diritti civili, l'afroamericano Shirley deve difendersi dal razzismo e dai pericoli a esso connessi. I due si ritroveranno a stringere un inaspettato legame, aprendo entrambi gli occhi sulla realtà e sul mondo in cui vivono.
Recensione: Peter Farrelly, regista comico tendente al demenziale, che ha alle spalle risultati talvolta felici e talvolta decisamente infelici (l'ultimo Scemo & + scemo 2), qui sorprende con questa commedia agrodolce, ben calibrata su tutti i fronti, gustosa e ricca di ingredienti variegati e diversi, ma ben dosati e mescolati tra loro. Il tono del film è amaro ma il regista riesce a farci ben convivere un pizzico di commedia, cosicché la vicenda triste e amara di un pianista nero di talento che affronta una serie di concerti nel sud razzista degli Usa, accompagnato da un italoamericano di bassa estrazione, venga raccontata con delicatezza, con dolcezza, con un sorriso senza scadere mai nella retorica lacrimosa del dramma. Condita da una colonna sonora evocativa, da una ricostruzione storica affascinante, da paesaggi naturali bellissimi che contrastano con la cultura becera e razzista degli Stati Uniti degli anni '60 (che in quegli anni era profonda), quella di Green Book è una storia (grazie alla sceneggiatura, una sceneggiatura ben scritta, in cui le battute ficcanti e le trovate spiazzanti tengono alto il ritmo e le divertenti zuffe verbali tra i due improbabili compari impediscono la caduta nel buonismo più mieloso) che scorre ottimamente per oltre due ore senza mai un calo di ritmo, in un crescendo di tensione narrativa esemplare (c'è da notare che a ogni tappa in cui il pianista si reca, gli episodi di intolleranza si fanno più fastidiosi). I due protagonisti, Viggo Mortensen e Mahershala Ali, con le loro recitazioni agli antipodi, il primo molto sopra le righe e il secondo rigorosamente contenuto, il primo caciarone ed estroverso e l'altro timido e sofferente, danno vita a uno scontro stilistico/recitativo decisamente incisivo, che mantiene sempre alto il livello del ritmo. Il film posa soprattutto su di loro, su questo scontro/incontro così brillante e frizzante e mai banale, che è una gioia per chi lo guarda (molto belli infatti i dialoghi tra i due: accalorati scontri durante le scene in auto, e più intimi ed emozionali durante i pasti o nelle camere d'albergo). Insomma, per farla breve, Green Book (il titolo del film deriva da una guida per afroamericani pubblicata tra gli anni '30 e '60 del secolo scorso, The Negro Motorist Green Book, guida che indicava gli hotel e ristoranti in cui erano benvenuti negli stati del Sud, un insieme di posti dalle condizioni igieniche precarie, lontani da standard di decenza e dal benessere dei bianchi) è un film semplice ma dotato di un meccanismo perfetto, ricco di sensibilità, di impegno civico e anche di un po' di poesia in cui lo stile di Peter Farrelly ha apportato quel tocco di umorismo che ha consentito alla narrazione di non scivolare mai verso la retorica del dramma. Difatti è un film che fa riflettere, che coinvolge, che crea indignazione, ma sempre con un sorriso sulle labbra che, talvolta, sfocia nella commozione (da Road Movie a tema Buddy Buddy coi fiocchi, con un ritmo coinvolgente e con dei momenti molto divertenti). Non so se era da Oscar (come miglior film soprattutto), me ne mancano un po' ancora, ma sicuramente da vedere, rivedere e far vedere.

giovedì 3 ottobre 2019

Riviera (2a stagione)

Tema e genere: Seconda stagione della serie televisiva britannica dai toni drammatici e thriller creata da Neil Jordan e prodotto originale Sky.
Trama: La trama della seconda stagione di Riviera riprende esattamente da dove si era interrotta: dopo il tête-à-tête con Adam e conseguente burrasca Georgina viene salvata da Raafi Al-Qadar (Alex Lanipekun), un uomo di affari in luna di miele con la moglie Daphne (Poppy Delevingne), che diventa amica della protagonista ed è la figlia di Lady Cassandra Eltham (Juliet Stevenson), che nasconde un inaspettato segreto. Un segreto (più di uno) che verrà a luce e scompiglierà le carte, che metterà in difficoltà Georgina, che nel frattempo si ricongiungerà con il suo carismatico zio Jeff (Will Arnett), e verrà quindi svelato qualcosa in più sul difficile passato che la donna si è lasciata alle spalle negli Stati Uniti, e in ultimo dovrà anche fare i conti con affascinanti e misteriosi personaggi (uno, Noah) e loschi individui (tanti, uno in famiglia e l'altro no).
Recensione: Quasi quasi tenderei a rivalutare la prima stagione, valutata positivamente ma con tante riserve (qui la recensione), perché quelle riserve in questa seconda stagione non si sciolgono, anzi, la stagione cerca infatti di dare nuova linfa ad una trama sempre a rischio in più punti nel scivolare in atmosfere e in svolte narrative da soap opera, introducendo ulteriori personaggi e dando maggior spazio ai misteri, ma non ci riesce. I nuovi arrivi, aumentano la percentuale di intrighi internazionali, tra morti, opere d'arte e relazioni sentimentali ed economiche, ma la confezione patinata e incredibilmente glamour ideata per Riviera, tra famosi dipinti, yacht e residenze lussuose, non riesce a mettere in secondo piano la narrazione in cui il grado di irrealtà cresce in modo esponenziale fin dal primo episodio, tra morti e "ritorni in vita" (più o meno) inaspettati. Una narrazione che riprende dal finale della prima stagione, che riprende la storia di una famiglia in lutto, ancora alle prese con la "morte" del capofamiglia, che certamente ha un buon ritmo, e infatti la seconda stagione della serie originale di Sky Atlantic non ci lascia mai un momento di tranquillità, ma sono davvero troppe le cose da raccontare, e purtroppo, come spesso accade, quando ci sono diverse storyline intrecciate, si fatica a renderle efficaci tutte quante. Perché sì, gli sceneggiatori cercano di allontanarsi lievemente dai sentieri già percorsi, anche facendo scoprire qualche pagina inedita sul passato della protagonista interpretata da una (ancor più) statica Julia Stiles, ma quello che ne esce, insieme a tutta la rete di bugie e dettagli oscuri che contraddistingue la loro famiglia, è ugualmente una puntata (più puntate) di Beautiful. Infatti la somiglianza con titoli maggiormente vicini alla soap opera, come anche Dallas o Dynasty, non scompare, anzi, e al contrario, fin dal primo episodio diventa evidente a causa appunto del ritorno di una figura che sembrava ormai destinata a far parte del passato dei protagonisti.

mercoledì 2 ottobre 2019

Hell or High Water (2016)

Tema e genere: Western moderno dai caratteri esistenzialisti firmato David Mackenzie.
Trama: Due fratelli, un ex detenuto e un padre divorziato, si confrontano con il rischio chiusura della fattoria di famiglia nel Texas e decidono di collaborare per mettere a segno una serie di rapine. Un uomo di legge, però, segue le loro tracce ed è determinato a fermarli.
Recensione: Finalmente completata la trilogia informale ideata da Taylor Sheridan che tratta della moderna frontiera americana. Infatti, dopo l'ottimo Sicario e il discreto I segreti di Wind River, ecco l'ultimo buon capitolo finale, anche se è questo in verità il secondo dei tre. Comunque dettagli a parte, con Hell or High Water, primo film prodotto da Netflix a ricevere una candidatura all'Oscar come miglior film, lo sceneggiatore statunitense coadiuvato dal regista britannico David Mackenzie (regista tra l'altro del bellissimo Perfect Sense con Eva Green) chiude il suo cerchio. Appunto con un western contemporaneo ad alto ritmo (che comunque si prende i suoi tempi nel far decollare la storia) e dai caratteri esistenzialisti (in questo è bravo il regista nel soffermarsi sui personaggi, e far capire il movente del crimine, di cui alla fine siamo un po' tutti colpevoli, perché egli non vuole giustificare i misfatti, ma farne comprendere l'origine, nella speranza che qualcosa possa cambiare). Hell or High Water (il cui titolo si riferisce ad un modo di dire: "come hell or high water", che significa "qualunque cosa accada", ma anche "ad ogni costo") è infatti un affascinante western postmoderno in cui al posto dei cavalli ci sono le auto e in cui è fortemente accentuata l'idea della fine di un'epoca (è il caso della scena della transumanza dei capi da bestiame da parte di cowboys che suonano quasi anacronistici), una tragica parabola sull'America, in cui a contare è solo il denaro, in tutte le sue declinazioni. Un film in cui si posa uno sguardo amaro su una società persa e sugli individui che la popolano, una società divisa, ferita, in cui la distinzione tra giustizia e vendetta sommaria è quanto mai labile (agli occhi di un europeo risulta sempre impressionate vedere il numero di persone armate e alcune di loro che, in una sequenza da vero western, si mettono ad inseguire i criminali per farsi, per l'appunto, giustizia da soli). Ma non vi è solo questo: il motore di tutto, com'è reso palese ed evidente, ciò che sta dietro ad ogni cosa è l'avidità delle banche, che, costringendo gli individui a scelte disperate, è all'origine dell'escalation di sangue e violenza del film. Ci sono poi riflessioni non banali circa le contraddizioni di una nazione fondata sul sangue (al pari di molte altre), spazzando via intere popolazioni e specie.

martedì 1 ottobre 2019

The Last Sharknado: It's About Time (2018)

Tema e genere: Capitolo finale della saga trash più folle e divertente di sempre.
Trama: Per salvare il mondo da una catastrofica fine, Fin viaggia nel tempo per far risorgere la sua famiglia e fermare lo sharknado che ha dato inizio al tutto. Nella sua epica avventura, combatterà contro dinosauri, cavalieri, cowboy e naturalmente squali volanti. Per lui non si tratterà di capire come fermare i terribili uragani che portano squali ma piuttosto di capire quando farlo.
Recensione: Non potevo lasciare incompleta la saga di Sharknado e non potevo non recensire l'ultimo e conclusivo film della serie. Dovevo infatti, anche a distanza di un anno, recuperarlo, e così ho fatto, anche se ciò ha significato vedere appunto scritto su schermo la parola FINE. Ma tutte le cose, belle o brutte, hanno una fine, da lamentarsi quindi niente c'è, al massimo si potrebbe constatare il fatto che questo congedo avvenga con un ultimo capitolo stanco e ben poco ispirato, capace di sprecare anche i pochi lampi in canna. Se infatti Sharknado 5: Global Swarming aveva a sorpresa rinvigorito il franchise, iniettando nuova energia e ulteriore auto-consapevolezza per le assurdità che metteva in scena, purtroppo The Last Sharknado - It's About Time (o Sharknado 6) fa un enorme passo indietro, dando sostanzialmente ragione a tutti quelli che si meravigliavano che si fosse arrivati al sesto film. Funziona a intermittenza e il risultato è frustrante, un'occasione sprecata di dare il folle, ma piacevole, finale che i coriacei fan avrebbero voluto vedere. I presagi nefasti sono chiari già nei primi 30 secondi della pellicola diretta ancora una volta da Anthony C. Ferrante, quando veniamo trasportati indietro nel tempo fino all'era preistorica, ma soltanto il leggendario Fin (il sempre convintissimo Ian Ziering) effettua il "salto". La promessa finale di Global Swarming di vedere qui Dolph Lundgren tirare pugni e/o sparare agli squali in giro per il tempo al fianco dello storico protagonista si rivela pertanto dolorosamente una mera illusione, solo vagamente giustificata. In compenso Fin si ricongiunge alla moglie/robot April (Tara Reid) e alla sventratrice di squali e barman Nova (Cassie Scerbo), con l'ensemble che si arricchisce di un paio di facce familiari grazie alla resurrezione di Bryan (Judah Friedlander) e Skye (Vivica A. Fox), spariti in Sharknado 2. La pigrissima scusante del "stiamo parlando di viaggi nel tempo, non fatevi troppe domande" è dominante, ma nonostante l'apparentemente interessante idea di fermare il primo Sharknado della storia per cambiare il futuro, The Last Sharknado - It's About Time risolve la questione nei primi dieci minuti, per poi cambiare marcia e sostanzialmente dedicarsi solo alla ricerca di Gil, il figlio perduto di Fin e April.