Non è stata la sorpresa che mi aspettavo, che mi aspettavo dopo l'intenso scorso mese di febbraio (qui, in cui avevo espresso il desiderio di voler un mese di Marzo altrettanto bello come quello che trascorsi), anzi, un po' sì in verità (ma non volevo dirlo od ammetterlo), ma è arrivata e me la prendo tutta. E la sorpresa, il regalo di compleanno, compleanno che per fortuna ho passato senza amarezze (Riccardo del bazar del calcio potrebbe capire, o un juventino conoscere purtroppo) è stata la pazzesca rimonta della Juve avvenuta esattamente il giorno prima. In tal senso il giorno dopo gradita è la stata la nuova tazza della Juve regalatami dai miei, giorno che come preannunciato (qui) è stata per questo (e non solo) una giornata tranquilla, tra buon cibo (immancabile la torta) e tanti messaggi. Ma il mese non si è concluso lì, non è successo niente di clamoroso, solo che a San Giuseppe (così per farvelo sapere) ho mangiato una zeppola gigante ed era buonissima (da leccarsi i baffi), pochi giorni fa c'è stato il compleanno di mio padre ed è cominciata la primavera. E insomma mese bello è stato questo, ma scommetto che il prossimo non sarà male, dopotutto arriva Pasqua e la cioccolata la farà da padrone.
Pagine
▼
venerdì 29 marzo 2019
giovedì 28 marzo 2019
I peggiori film del mese (Marzo 2019)
Non l'ho mai specificato, eppure è successo che un film che inizialmente avevo scartato, l'ho poi rivalutato è visto, ma mi preme adesso sottolineare, visto che una specifica richiesta mi è già giunta (e ossessivamente) all'orecchio, che qualora un lettore qualsiasi mi dicesse che un film che ho evitato gli è piaciuto, potrei anche pensarci su, e chissà in futuro recuperare. Io infatti ascolto i consigli, leggo il parere dei critici (e dei blogger) e valuto bene se vedere o meno un film, e quando i motivi sono validi o almeno personalmente interessanti rivaluto e cambio idea, perché come si sa, cambiare idea si può, e certe volte si deve, anche se poi potrebbe risultare sbagliato fare ciò. Come sbagliato sarà stato forse vedere questi film qui, ma di cui tuttavia (più o meno) non rimpiango.
Viral (Horror, Usa 2016): A mio avviso questo film, l'ennesimo lungometraggio riguardante i virus e gli infetti, questa volta diretto dal duo Henry Joost/Ariel Schulman (Paranormal Activity 3, Paranormal Activity 4, Catfish), non convince pienamente sotto il profilo fanta-horror, lasciando poco spazio alla sostanza (gli attacchi degli infetti, uno strano e non identificato parassita si insinua all'interno delle persone controllandone la mente e successivamente il corpo, sono piuttosto ridotti) e senza approfondire alcune cose che vengono presentate in maniera superficiale. La caratterizzazione di alcuni personaggi poi non sembra delle più credibili, anzi irritano un poco certi atteggiamenti e alcune banalità evidenti. Tuttavia il film, un film che nella tradizione Blumhouse offre un prodotto abbastanza solido a livello qualitativo (anche se il soggetto è quasi mai originale), ha degli aspetti positivi, specialmente nelle due attrici protagoniste (il resto è puro ornamento), brave a sviluppare il rapporto fra sorelle di fronte ad una nascente pandemia (Sofia Black-D'Elia e Analeigh Tipton). Di solito in film di questo genere le fasi iniziali sono saltate praticamente a pie pari, ma qui ci si concentra specialmente nei primi momenti del contagio, quando c'è più incertezza sul da farsi che la necessità di sopravvivere. Meglio la prima parte della seconda, che sconta soprattutto la prevedibilità della narrazione (giacché un momento prima che la scena procede si capisce già tutto) e qualche soluzione non priva di forzature. Nel complesso però, pur non riuscendo a infondere una certa atmosfera ansiogena (nonostante l'ambientazione quasi Lynchiana), il film ha comunque il merito di non rendersi noioso, ma non fa abbastanza per meritare la sufficienza piena. Infatti senza infamia e senza lode, ma senza riuscire nemmeno a farsi ricordare più di tanto. Voto: 5+
mercoledì 27 marzo 2019
Le altre serie tv (Febbraio/Marzo 2019)
Non sapendo cosa vedere, in una settimana in cui aspettavo completassero la messa in onda alcune serie che vedrò e recensirò prossimamente, ho puntato su una serie tv d'autore, una serie che raccontava la storia di una ricca famiglia di imprenditori del settore dei media che sembravano ricordare i Murdoch ma che non erano, ovviamente, i Murdoch, ma ho sbagliato cavallo. La serie pur non essendo un qualcosa di orrido, ma soltanto qualcosa di discreto interesse, non mi ha soddisfatto, tanto che per la prima volta potrei non vedere e non concludere un serial, dato che la serie è stata rinnovata per una seconda stagione. In ogni caso, realizzata dall'emittente televisiva statunitense HBO, Succession è creata da Jesse Armstrong e prodotta tra gli altri (anche dallo stesso creatore ed ideatore) da Adam McKay, sì proprio lui regista de La Grande Scommessa e di Vice, lui che firma anche come regista il primo episodio e da Will Ferrell, con Brian Cox nei panni di un magnate a capo di una famiglia disfunzionale e di un impero mediatico multimilionario. Succession (andata in onda su Sky Atlantic tra ottobre e novembre scorsi, ma comunque sempre disponibile su on demand) è infatti un cosiddetto family drama, a conferma di quanto ancora, paradossalmente, la famiglia nelle sue varie articolazioni interessi gli autori delle fiction e di conseguenza del pubblico, soprattutto in America da dove arriva anche il maggior numero di sit-com con storie di padri, madri e figli a confronto. Il più delle volte la famiglia è rappresentata come un modello astratto da accettare o rifiutare, invece che una realtà concreta da vivere, mettendo in ombra o addirittura in cattiva luce la famiglia cosiddetta tradizionale a beneficio di altre aggregazioni. Ma questa è una storia che conosciamo bene. Tornando invece a Succession, la storia che racconta, ambientata a New York, è quella della famiglia Roy, guidata dal patriarca ottantenne Logan (il rammentato Brian Cox, in verità l'unico personalmente parlando impeccabile nel suo ruolo), che nel giorno del suo ottantesimo compleanno, a seguito di un malore, finisce in coma all'ospedale in terapia intensiva. Da quel momento, tra i quattro figli (tre maschi e una femmina) accorsi al capezzale, si scatena la lotta per la successione, ignari che il colosso di famiglia, la "Waystar Royco", navighi in acque tutt'altro che tranquille. La ricerca del successore e il futuro dell'azienda diventano così il motore di tutte le vicende che animano la serie tv (di dieci puntate), anche quando tra lo stupore generale il vecchio Logan riapre improvvisamente gli occhi.
martedì 26 marzo 2019
End of Justice - Nessuno è innocente (2017)
Dopo aver sorpreso tutti con la sua potente opera prima Lo sciacallo – Nightcrawler, Dan Gilroy è tornato dietro la macchina da presa con End of Justice - Nessuno è innocente (Roman J. Israel, Esq.), un film ancora una volta incentrato su un personaggio principale complesso e stratificato. Se il suo esordio era un thriller notturno e inquietante, in questo secondo lungometraggio, il regista che ha scritto e diretto questo film del 2017, opta per lo stesso genere, ma dandogli un contorno giudiziario ancor più politico: il protagonista, interpretato da Denzel Washington, è un avvocato di Los Angeles che ha sempre lottato per le cause dei più deboli, oltre ad essere un impegnato attivista per i diritti civili. Per le sue convinzioni e per combattere la sua battaglia per la giustizia, trascura la famiglia e la sua vita privata. Tuttavia, l'idealismo che ha contraddistinto la sua esistenza viene messo seriamente in discussione quando il suo socio in affari ha un attacco di cuore e a lui viene offerto un posto in un prestigioso studio legale gestito dal ricco e ambizioso George Pierce (Colin Farrell), uno "squalo" sostenitore di valori morali ben diversi da quelli che Israel ha sempre onorato. Due mondi completamente opposti, entreranno così in collisione, influenzandosi l'un l'altro. Nonostante l'appeal da film vecchio stampo, pronto a riproporre sul grande schermo uno schema consolidato, End of Justice si rivela una sorpresa. Il regista riesce infatti a scardinare i presupposti del legal thriller (anche questo un genere amatissimo soprattutto negli anni '80/'90) regalando allo spettatore un'esperienza cinematografica atipica. Perché più che concentrarsi sulle dinamiche strettamente giudiziarie e le pratiche da tribunale, il regista lascia difatti spazio al personaggio di Denzel Washington, quel Roman J. Israel che domina la scena con la propria contraddittoria presenza. Si tratta di un personaggio sopra le righe pieno di tic e di bizzarria, il che si sposa perfettamente con l'attitudine, potremo dire "gigionesca" dell'attore. Con quel faccione intenso che riempie l'inquadratura ad ogni scena e le movenze nevrotiche che fanno sembrare Israel talmente spostato da sembrare autistico, anche perché le battute che pronuncia si direbbero uscite da uno stato di dissociazione dalla realtà, Lui da veramente un'ottima prova.
lunedì 25 marzo 2019
Nelle pieghe del tempo (2018)
Anche la Disney può sbagliare. Lo sappiamo da sempre (è già successo, ricordate Alice attraverso lo specchio? No? Meglio) eppure si rimane
ancora sconcertati di fronte alla possibilità della casa dei sogni di
fallire. Questa volta poi si rischia di toccare il punto più basso del
percorso cinematografico del mondo immaginifico creato agli inizi degli
anni Venti, una caduta rovinosa in cui nessuno, davvero nessuno, riesce
ad uscirne illeso. La
colpa di tali ferite è causata dall'ultimo lungometraggio targato Disney del 2018, intitolato
Nelle pieghe del tempo (A Wrinkle in Time), pellicola
tratta dal romanzo omonimo del 1963 scritto da Madeleine L'Engle e diretta da Ava DuVernay, che dai fatti reali di Selma – La strada per la libertà passa all'inverosimile e all'astratto in questo suo ultimo
lavoro. Un lavoro che non soddisfa (ma per niente proprio) le
aspettative, dimostrandosi fallimentare sotto molteplici punti di vista.
Perché sì, senza mezzi termini, Nelle Pieghe del Tempo (che va
avanti tra scenari ridicoli, personaggi
inutili e momenti completamente piatti) è sia un film brutto sia un film
sbagliato, non c'è scampo. Anche
capire da dove partire per descrivere il fallimento del film è compito
arduo, perché davvero non c'è un aspetto che si salvi. Manca
il grande senso di avventura e scoperta dei film per ragazzi, manca
l'intrattenimento puro, con le scene allungate fino a che il già poco
senso di esse non diventi autentica e inspiegabile tortura. Forse
a dare più fastidio è la costante ripetitività del nulla che il film
propone. I protagonisti sono sballottati
avanti e indietro senza che se ne capisca il senso. Se l'emozione
latita, la tensione manca totalmente, ed assistiamo ad un carrozzone di
colori e CGI tirato avanti col pilota automatico. Insomma un film, che
si fa quasi fatica a definirlo un vero film,
davvero sconclusionato, malfatto e goffo. Un film che pecca di
un'eccessiva noncuranza dei dettagli. Giocando senza logica
con lo spazio e il tempo, il film dimentica spesso la
basilare regola della consequenzialità causa-effetto, alternando eventi
incoerenti tra loro con improbabili deus ex machina risolutivi. Tra
enormi lacune narrative e mancanze para-sintattiche, la storia si
snoda pertanto con fatica, rendendo la visione non eccessivamente
difficile ma indubbiamente fastidiosa. A peggiorare la situazione, non
manca poi il classico buonismo della Disney che, nonostante in altre
pellicole sia perfettamente equilibrato, qui produce una perenne e
paternalista atmosfera moraleggiante.
venerdì 22 marzo 2019
I segreti di Wind River (2017)
L'atmosfera affascinante ma inquietante dell'inospitale e monotono (come il ritmo, sebbene questo non implichi un'assenza di tensione, tutt'altro) Wyoming occidentale, dove i visi pallidi hanno confinato da oltre un secolo gli ultimi Arapaho, è forse la protagonista principale di questo insolito ma impeccabile thriller/non thriller, un film ben recitato e con tutti gli ingredienti (seppur già utilizzati altre migliaia di volte ma che non per questo manca di appassionare lo spettatore) al loro posto: begli scenari, buona tensione, dialoghi efficaci e un finale da godere. I segreti di Wind River (Wind River) infatti, che dichiara sin da subito la volontà di contaminare i generi del thriller poliziesco con elementi western, qui egregiamente supportati da una sceneggiatura solidissima e da una profonda introspezione psicologica dei personaggi, è una rilettura interessante e non banale della frontiera americana, con tempi e spazi cinematografici che ricordano i grandi classici del western che fu, richiamandosi invece all'attualità visiva moderna che si rifà ai fratelli Coen. Tuttavia il film non è né uno (un western in tutto e per tutto) né l'altro (ovvero non c'è il grottesco tipico dei due registi), perché anche se a sottolineare ancora di più l'apparenza western di questa pellicola ci sono pure un classico "stallo alla messicana", una fragorosa sparatoria ravvicinata in stile "sfida all'OK Corrall" ed una giustizia sommaria degna dei tempi di Wild Bill Hickok, non è davvero un western, è un film forse di denuncia sociale, in cui l'azione non è molta ed il mistero (del titolo italiano) non è poi proprio tale. E' semmai una pellicola che parla di miseria e di abbrutimento, di amore e, soprattutto, di dolore, in un'epoca in cui anche gli ultimi pellerossa hanno dimenticato le loro antiche tradizioni e forse anche la loro atavica dignità. E infatti, dopo l'ottima prova offerta con la sceneggiatura di Sicario (Hell or High Water mi manca), Taylor Sheridan, che si piazza questa volta dietro la macchina da presa, e che ha scritto e diretto questo film del 2017, uscendone di nuovo vincitore (la pellicola ha vinto il premio per la Miglior regia nella sezione Un Certain Regard a Cannes 2017), ci presenta un'altra (intensa, potente ed affascinante, ma comunque non perfetta) storia di frontiere geografiche e di comunità ai margini del mondo globalizzato.
giovedì 21 marzo 2019
LEGO Ninjago - Il film (2017)
LEGO colpisce ancora e questa volta tocca ai ninja della colorata serie Ninjago portarci nuovamente nel mondo dei mitici mattoncini danesi, per il terzo film d'animazione della saga, dopo Lego Movie e Lego Batman. Saga per modo di dire, poiché ogni pellicola è indipendente e slegata dalle altre. E così dopo Briksburg e Gotham City, eccoci a combattere a colpi di arti marziali nella orientaleggiante isola di Ninjago, un po' Tokyo e un po' Pechino. Isola ovviamente circondata dal mare, dalla giungla e da un vulcano, sede della base segreta del cattivone di turno. In questa nuova avventura animata degli omini gialli con le manine a portabicchiere, sei giovani ninja adolescenti, che nascondono una seconda identità, ovvero i fortissimi ninja che proteggono la città dai continui attacchi del perfido Garmadon (tuttavia all'interno di questo scontro se ne nasconde un altro: il leader dei ragazzi, infatti, il ninja verde Lloyd, altri non è che il figlio di Garmadon, anche se quest'ultimo non è a conoscenza della sua identità), lavoreranno
fianco a fianco per proteggere ciò che hanno di più caro. Insomma, come per i precedenti film targati LEGO, narrare le gesta di un gruppo di eroi sembra una formula riproducibile e vincente per vendere col massimo ricavo un prodotto di intrattenimento, si tratta di elementi con cui il pubblico dei giovanissimi (ma anche quello adulto) può facilmente interfacciarsi, nondimeno, al terzo film, gli spettatori sanno più o meno cosa aspettarsi, anche se su questo piano l'attesa viene ripagata in grande stile con un'animazione mai banale, alternando computer grafica con la tecnica dello stop motion. Peccato che, LEGO Ninjago - Il film (The LEGO Ninjago Movie), film del 2017 diretto da Charlie Bean, secondo spin-off del film The LEGO Movie, dopo LEGO Batman - Il film, film tratto dalla serie animata di Cartoon Network, Ninjago: Masters of Spinjitzu, con Jackie Chan, Dave Franco, Michael Peña, Olivia Munn e Justin Theroux come doppiatori nella versione originale, e film tendente anche troppo ai più piccini, pur mantenendo lo spirito e il divertimento dei precedenti, e sebbene le gag continue facciano comunque piacevolmente sorridere anche gli appassionati di Lego con qualche anno in più, non raggiunga assolutamente il livello dello straordinario primo capitolo e la divertente parodia del cavaliere oscuro del secondo.
mercoledì 20 marzo 2019
Agents of S.H.I.E.L.D. (5a stagione)
Ne è passata di acqua sotto i ponti dall'incerto debutto di Marvel's Agents Of S.H.I.E.L.D. nel 2013. Ma con il passare degli episodi e delle stagioni (la recensione della terza la trovate qui), la serie (con funzione da collante tra le varie pellicole facenti parte del Marvel Cinematic Universe) si è sempre evoluto, non cristallizzandosi mai nella sua forma narrativa e introducendo elementi sempre nuovi, cercando di correggere i propri difetti. Ed è così riuscito ad imporsi, soddisfacendo a volte maggiormente rispetto a serie supereroistiche più pubblicizzate ma meno riuscite. E adesso, dopo Inumani impazziti, teschi infuocati e androidi in rivolta, è giunto il turno degli alieni. Infatti dopo aver affrontato le vicende legate al Framework lo S.H.I.E.L.D viene inaspettatamente inviato nel futuro, dove la terrà è stata distrutta e i pochi rimasti vivono in schiavitù. La squadra dovrà affrontare varie sfide, ma riusciranno a tornare nel loro tempo. Sarà così che tenteranno di cambiare il corso degli eventi, per evitare che il loop temporale si ripeta e la fine del mondo avvenga ancora una volta. Reduce da una quarta stagione non proprio accolta dalla critica in maniera positiva (non da me, che l'ho promosso nonostante alcuni problemi, qui la mia recensione), la quinta ondata di episodi di Agents of S.H.I.E.L.D. è stata accompagnata da un certo scetticismo, ben giustificata poi dal basso grado di qualità di gran parte degli episodi proposti. L'ambientazione futuristica dei primissimi episodi serve solo da prologo per quello che poi è il fulcro narrativo dell'intera quinta stagione, il salvataggio della Terra dalla distruzione. Ma è purtroppo il modo con cui certi eventi vengono proposti allo spettatore che fa storcere il naso. I protagonisti, a mio avviso, vengono catapultati in futuro post-apocalittico introdotto narrativamente in maniera approssimativo, c'è bisogno, difatti, di seguire mezza stagione per riuscire ad unire tutti i puntini, e capirci qualcosa. La seconda parte della stagione fortunatamente (questa quinta stagione come detto si può dividere in due parti: quella ambientata nel futuro e quella nel presente, per impedire il futuro) sposta gli equilibri.
martedì 19 marzo 2019
Tutti i soldi del mondo (2017)
Sarò stato uno dei pochi a vedere prima la serie tv e poi il film, quest'ultimo uscito molti mesi prima rispetto alla serie diretta da Danny Boyle, ovvero Trust, e già all'epoca rimasi un po' dubbioso sul fatto di come il film potesse in 120 minuti, paradossalmente eccessivi, a sciorinare tutti i temi e a cogliere tutte le sfumature, ed infatti non ci riesce al contrario della serie, seppur la suddetta aveva nel corso delle tante puntate la possibilità di riuscire nell'intento senza alcun problema, e difatti quella grande possibilità l'ha sfruttò nei migliori dei modi. Perché regia, stile della narrazione, le parti italiane, il cast (su tutti Donald Sutherland più Luca Marinelli), tutto (a parte forse la fotografia) è nettamente superiore a questo film. Un film, Tutti i soldi del mondo (All the Money in the World), film del 2017 diretto e co-prodotto da Ridley Scott, mediocre, che poteva e doveva raccontare di più, soprattutto in virtù dell'ottimo potenziale di una sceneggiatura (di una storia nota e famosa, di una storia avvincente ed appassionante), scritta da David Scarpa, molto promettente. Ed invece, nonostante in se la storia, proprio in quanto vera, avesse delle sfumature che erano necessariamente interessanti, tutto sbiadisce. Il suo primo difetto è tuttavia l'eccessiva lunghezza. La durata del film, che preme volontariamente sulla lunga durata della prigionia del protagonista, annoia ben presto, riscuotendo così l'opposto dell'effetto desiderato. La lunghezza non riesce nemmeno a creare il pathos desiderato, facendo scadere buona parte delle scene in un insensato giro di parole e azioni. Alla base come detto c'è una storia vera che, come prassi, è stata rivista e romanzata per l'occasione, al fine di lasciare la dovuta libertà allo sceneggiatore di affrontare i diversi temi (ed effettivamente l'intera vicenda risulta assai elaborata e romanzata rispetto ai fatti realmente accaduti come titoli di testa ci avverte, i fatti presentati sono stati infatti dal regista liberamente tratti da un libro concernente il rapimento del ragazzo) purtroppo, tutto scivola via nella mediocrità (perché sì, uno dei limiti, per non dire, uno dei tanti, di questa pellicola è che l'intera vicenda è stata presentata parecchio distante dalla realtà), nella prevedibilità dei luoghi comuni (ormai titanici) sugli italiani che, spiace dirlo, vengono visti nel ruolo di mangiatori di spaghetti, con forze dell'ordine idiote e corrotte e Brigate Rosse che, per evitare attacchi di amnesia, tappezzano il loro rifugio con decine di bandiere recanti il loro nome.
lunedì 18 marzo 2019
Peter Rabbit (2018)
Dopo il criticabile remake di Annie (l'adattamento cinematografico dei fumetti Little Orphan Annie), il regista Will Gluck ci riprova, adattando la serie televisiva Peter coniglio (Peter Rabbit), basata a sua volta sul racconto di Beatrix Potter (conosciutissima nel mondo anglosassone e meno da noi), uno dei capisaldi della letteratura inglese per l'infanzia. Qualche anno fa una biografia cinematografica con protagonisti Renée Zellweger e Ewan McGregor, che ne aveva raccontato anche la storia d'amore poco convenzionale con il suo editore, ebbe poca fortuna. Forse non ha avuto neanche questo live action tanta fortuna, eppure, rendendo le avventure dell'irresistibile coniglio e della sua combriccola adatte non solo ai più piccini, ma anche ai teenager e agli adulti, il regista riesce a fare centro. Anche perché a parte l'indiretto omaggio all'autrice nel nome della protagonista femminile umana, poco rimane (fortunatamente) dello spirito originale dei racconti (alquanto stucchevole), che si trasformano in una specie di slapstick comedy in stile Tom e Jerry, dove la sfida è tra il roditore astuto e senza paura e un giovane umano che ha la pessima idea di sbarrargli la strada verso i suoi ortaggi. In più, al vecchio e burbero McGregor dei racconti originali (che tira le cuoia a inizio film per un infarto, proprio quando aveva finalmente acchiappato il coniglietto e si accingeva a trasformarlo in una torta da forno) si sostituisce il pronipote Thomas, un personaggio più "fresco". Fresco come il film, Peter Rabbit è infatti, un film (del 2018) divertentissimo e dal ritmo frenetico, che tra musica pop, irriverenza e sarcasmo, assicura risate e coinvolgimento. Realizzato con la stessa tecnica del bellissimo Paddington 2, grazie al lavoro straordinario dell'Animal Logic sulle animazioni e i modelli in CGI dei conigli, Peter Rabbit è un live action pieno di personaggi indimenticabili, a cui è facile affezionarsi per la capacità della sceneggiatura di dipingerli in modo ironico, realistico e gustosamente "scorretto". Oltre ai cattivissimi conigli antropomorfizzati, pienamente convincenti sono, difatti, anche i personaggi umani, in primis un perfetto Domnhall Gleeson (ottimo protagonista di film come Ex machina e Questione di tempo, che farebbe bene a non accumulare altri ruoli come quello dell'insulso generale Hux di Star Wars), che sembra nato per il ruolo dell'impacciato Thomas.
venerdì 15 marzo 2019
The Post (2017)
E' di notevole interesse la questione dei rapporti tra potere politico e libera stampa e Steven Spielberg dirige con affinato mestiere due grandi interpreti, tuttavia la sceneggiatura non è particolarmente avvincente né scoppiettante ed il film non esce dai binari del convenzionale: un lavoro non innovativo rispetto ai numerosi film a tema "giornalistico". In questa ultima fatica del grande regista, The Post, film del 2017 diretto appunto dal regista americano, si parla, infatti, dei rischi che aveva corso la libera stampa negli Usa nel 1971 (Presidenza Nixon), dopo gli arroganti tentativi di imbavagliarla, quando erano state pubblicate dal New York Times alcune pagine blindate dei Servizi Segreti (Pentagon Papers) che permettevano di vedere chiaramente attraverso quale rete di menzogne e manipolazioni per circa trent'anni si fosse celato all'opinione pubblica il coinvolgimento militare degli USA nelle operazioni di guerra in Indocina (la guerra del Vietnam). Quattro presidenti americani di ogni fede politica, repubblicani (Eisenhauer) e democratici (Truman, Kennedy, Johnson), non solo non avevano mai detto la verità al Paese, ma avevano fatto credere che la vittoria contro i vietcong, ovvero contro gli abominevoli comunisti, fosse imminente, cercando in tal modo di giustificare l'incremento sempre maggiore di risorse economiche e umane destinate dai loro governi all'infernale tritacarne di quella guerra, nonostante le disfatte militari e la morte dei soldati, non solo volontari ormai, fossero triste realtà quotidiana. Ma nonostante nel complesso sia comunque appassionante, anche perché il messaggio sembri, ancor oggi dopo 30 anni, attuale più che mai, nel film, un film abbastanza soddisfacente, con delle ottime interpretazioni, ma un po' carente nell'esecuzione, c'è parecchio potenziale sprecato nella scelta del regista di concentrarsi quasi esclusivamente sul punto di vista della redazione del Post e sulla figura di Katharine Graham, che, per quanto siano magnificamente rappresentati da delle ottime interpretazioni di Tom Hanks, Meryl Streep e Bob Odenkirk, rendono la vicenda un po' troppo ristretta. Il film avrebbe potuto giovare sicuramente nel mostrare di più la reazione del popolo americano dell'epoca, sui sentimenti di tradimento e di disprezzo nei confronti di chi credevano fossero stati fino ad allora dei leader onesti e giusti e che invece avevano mentito spudoratamente per anni sugli andamenti della guerra in Vietnam e su come l'intero scandalo dei Pentagon Papers avesse gettato le basi della presa di coscienza del popolo statunitense a non fidarsi mai completamente dei loro leader. Non lo fa, peccato, eppure questo è un film riuscito, soprattutto importante.
giovedì 14 marzo 2019
Jurassic World - Il regno distrutto (2018)
A distanza di tre (ora quattro) anni dal film (personalmente riuscito) che ha rilanciato a livello mondiale il franchise con cui Steven Spielberg nel 1993 aveva brillantemente aperto l'era del cinema degli effetti speciali digitali, i protagonisti di quella pellicola, l'addestratore di velociraptor Owen Grady e l'ex direttrice del parco tematico preistorico Claire Dearing (ora convertitasi alla protezione dei diritti dei lucertoloni redivivi) tornano sul "luogo del delitto". Questa volta però, in Jurassic World - Il regno distrutto (Jurassic World: Fallen Kingdom), film del 2018 diretto da Juan Antonio Bayona e sequel appunto di Jurassic World del 2015, quinto capitolo cinematografico del franchise di Jurassic Park, sono i dinosauri a rischiare grosso, perché un'eruzione vulcanica sta per provocare una seconda estinzione e il mondo si divide sull'opportunità di offrire a quegli esperimenti di genetica la stessa protezione data ad animali "comuni". Dopotutto i dinosauri nemmeno dovrebbero esistere più, forse vale la pena di lasciar fare alla Natura il suo corso. Ovviamente, per la gioia di chi non sa rinunciare agli inseguimenti e ai massacri ad opera di T- Rex e affini (ma anche del politicamente corretto, perché in un certo senso questo è anche il film più animalista di tutti i Jurassic Movies, sta dalla parte di dinosauri come mai prima d'ora) le cose sono destinate ad andare diversamente. Lo avevamo già visto in altre pellicole della serie (e anche nel "recente" Kong: Skull Island), al netto dell'illusione di sicurezza della tecnologia, tra uomini armati e animali giganteschi non c'è partita. La missione di salvataggio però si rivela qualcosa di molto più inquietante: i dinosauri sono destinati ad un'asta per ricchi acquirenti, si tratti di appassionati di preistoria, case farmaceutiche che sperano di fare ricerca avanzata e illegale, o mercanti di armi russi per cui il dinosauro può trasformarsi in un'arma di precisione. La pellicola, sfortunatamente, invece di abbracciare il tono scanzonato dello scorso capitolo, che rilanciava alla grande sul sentimento di meraviglia dell'originale e sul tema della famiglia (aggiungendo l'elemento interessante dell'interazione di branco tra uomo e animale), si perde nel mescolare tematiche "serie": dalla sfida della genetica e della clonazione, al bracconaggio, passando per il commercio clandestino di armi e la critica al capitalismo arrogante.
mercoledì 13 marzo 2019
Happy Birthday to Me
In queste occasioni non so mai cosa dire, anche perché per me questo giorno è un giorno come un altro, dove al massimo ricevo alcune telefonate (perlopiù tantissimi messaggi, comunque sempre graditi), al massimo ricevo qualche ospite (anche se è comunque abbastanza raro) e festeggio tranquillamente in famiglia e a casa, mangiando al massimo qualcosa in più e qualcosa di diverso dal solito. Niente di cui lamentarsi però, anzi, perché anche se in grande stile ho festeggiato poche volte, a me piace festeggiare, passare questa giornata, senza troppi pensieri, in tranquillità, dopotutto è solo un numero, quest'anno il numero 34. E così, come ho già fatto in altre occasioni, in tutte quelle in cui ho avuto la possibilità di fare un riepilogo o di esporre novità in merito al blog, eccomi qui ad enunciare alcuni cambiamenti. Cambiamenti che tuttavia non riguardano la cifra stilistica o grafica del blog, ma solo un importante ed interessante (spero per tutti) upgrade che vedrà la luce in occasione del quarto anniversario del blog a Luglio. Un upgrade che dovrebbe in teoria essere l'ultimo step, personalmente possibile, per rendere questo blog "definitivo". Un upgrade, meglio un progetto "esternamente interno" che affiancherà il blog stesso, che da dicembre ho cominciato a produrre e che si concluderà esattamente a pochi giorni dall'anniversario. Esatto, ben 8 mesi per fare tutto ciò, dopotutto il tempo non mi manca e mancherà, anche se questo significherà rimandare alcune visioni, soprattutto inerenti alla Promessa cinematografica, a dopo quella data. Comunque a proposito di cambiamenti, anzi notizie, quest'anno mi prenderò una pausa di 2 settimane prima e dopo Pasqua, soprattutto per ricaricare le batterie e mettere fieno in cascina. Detto questo, fino alla Domenica delle palme, sarò sempre presente (e lo sarò anche in quelle due settimane, dopotutto il giro dei blog non interrompo mica) e pubblicherò costantemente. Ma oggi non pensiamo a quello che verrà, io penso solo a godermi (nonostante tutto) questo giorno, un giorno sempre felice. In tal senso grazie già in anticipo a tutti quelli che allieteranno questo mio giorno speciale. Auguri a me.
martedì 12 marzo 2019
Il giustiziere della notte - Death Wish (2018)
Nel 1974 il regista Michael Winner portò al cinema l'adattamento del romanzo omonimo di Brian Garfield Il giustiziere della notte con protagonista Charles Bronson. Dopo quarantacinque anni è Eli Roth ad adattare la storia ai tempi moderni, riproponendone il remake. Questa volta è Bruce Willis ad interpretare lo stesso ruolo che fu di Bronson ma donando al personaggio un tratto politico più spiccato rispetto al film originale. Paul Kersey (Bruce Willis) è un rinomato chirurgo di Chicago che, in seguito all'omicidio della moglie e al ferimento della figlia durante una rapina, decide di farsi giustizia da solo. La polizia non sembra in grado di trovare i responsabili della distruzione della sua famiglia e quindi, rimboccandosi le maniche, il Dott. Kersey comincerà ad assumere una doppia identità diventando, agli occhi dell'opinione pubblica, il Mietitore. Ad un primo sguardo Il giustiziere della notte - Death Wish (Death Wish), film del 2018 diretto da Eli Roth, potrebbe sembrare come quei tanti film d'azione che sono soliti interpretare attori come Bruce Willis o Liam Neeson (che era stato scelto precedentemente per il ruolo da protagonista), ma non è così (o almeno non del tutto). La trama ovviamente resta molto ancorata all'originale, essendo comunque un adattamento di un romanzo, ma si tinge di sfumature contemporanee e di escamotage che solamente registi come Eli Roth oserebbero inserire. Sfumature contemporanee però che sono l'aspetto meno convincente, perché esse talvolta fanno ridere ed irritare, ma soprattutto tolgono quell'aura cupa e cruda necessaria a film del genere. In tal senso il film è diverso dal precedente perché mentre nel primo Paul girava a viso scoperto adesso cammina incappucciato per evitare le telecamere e le riprese dei cellulari, ciò nonostante viene ripreso e diventa in incognito un divo dei Talk-Show e della TV soprannominato il "mietitore". Il film affronta quindi non solo il problema della giustizia e quindi se sia lecito agire al posto dello stato inerte, ma anche come anche i fatti più terribili diventino spettacolo. E' anche affrontato il problema della difesa legittima specie quando i malviventi si introducano in casa del cittadino. Il film rispetto al remake affronta quindi più questioni tutte di attualità, ma nessuna che riesce tuttavia a centrare appieno il bersaglio.
lunedì 11 marzo 2019
Lady Bird (2017)
Lei si chiama Christine, ma vuole che tutti la chiamino "Lady bird". È una giovane donna all'ultimo anno delle superiori che deve decidere cosa fare della propria vita e a cui stanno strette le regole della società in cui vive e della famiglia. Questa in sintesi la trama di Lady bird, film del 2017 scritto e diretto da Greta Gerwig. La pellicola, una pellicola "carina" e pulita, ma non travolgente, ispirata all'adolescenza della stessa attrice, sceneggiatrice e regista statunitense, è un percorso di formazione al femminile, una commedia sofisticata che affronta con delicatezza e sensibilità appunto un "coming of age" femminile, scritta certamente con cura e con alcune sequenze che colpiscono nel segno (la scena iniziale in cui Lady Bird si getta dalla vettura, l'intenso primo piano della madre, sempre in macchina, verso il finale), tuttavia, nel complesso non si discosta più di tanto da altri film del genere già visti e, nel suo sguardo intellettuale ed un po' freddo, manca di un respiro potente che trasmetta fino in fondo la passione che anima un'adolescente alla ricerca di se stessa e di una via di fuga. Lady bird infatti, tenta di discostarsi dalla solita commedia adolescenziale, ciò grazie alla sua impronta fortemente autobiografica, che prova in tal modo a superare (non sempre riuscendoci) gli svariati aspetti non convincenti contenuti nella storia strutturandosi comunque tenacemente come una commedia indie con il giusto connubio tra i canoni brillanti e quelli drammatici, ma ci riesce solo in parte, e non è mai troppo incisivo, manca quel coraggio di osare di più. Per cui, pur considerandolo in ogni caso un lavoro onesto e dignitoso, bisogna dire che non possiede lo slancio necessario per spiccare il volo, come sembra invece desiderare la protagonista, così che le emozioni rimangono imbrigliate in una passione troppo sopita, per essere viscerale. In tal senso non c'è nulla di sorprendente, trascendentale o indimenticabile in questo film, se non quelle valanghe di premi e nomination (dall'evidentissimo e agrodolce sapore politico) che hanno addirittura elevato questa normalissima (anche simpatica, per carità) commedia adolescenziale allo status di istantaneo capolavoro senza tempo. Perché appunto, pur essendo un film gradevole e piacevole, non vi ho trovato qualcosa che lo distingua da altri teen movie, anzi, è piuttosto modesto in certi frangenti. Egli infatti non aggiunge nulla alla ricca e fiorente produzione di film o serie tv passata e recente che raccontano la vita degli adolescenti americani con maggior profondità, sensibilità o passione, e in tal senso proprio non si capisce la ridondante critica generalmente positiva attribuitagli.
venerdì 8 marzo 2019
Gifted - Il dono del talento (2017)
Crescere un bambino non è mai facile. Decidere quello che sarà meglio per lui è il dilemma che accomuna tutti i genitori. Se poi questo bambino ha un dono eccezionale e a soli sette anni riesce a risolvere con facilità sconcertante equazioni molto complesse, la situazione diventa ancora più difficile. Questo è quello che deve affrontare il Frank Adler di Gifted - Il dono del talento (Gifted), film drammatico americano del 2017 diretto da Marc Webb, che si prende cura da anni della nipotina Mary, figlia di sua sorella, un vero genio matematico, che l'ha affidata a lui prima di togliersi la vita. L'uomo negli anni ha insegnato alla nipotina tutto quello che sa e ha cercato di farla vivere in maniera semplice a prescindere dal suo incredibile talento con i numeri. Per curare anche la capacità di relazionarsi con i suoi coetanei di Mary, Frank la iscrive alla scuola primaria. Sin dal primo giorno però le capacità della piccola attirano l'attenzione della maestra che segnala il suo caso per una borsa di studio che le permetterebbe di frequentare una scuola prestigiosa per ragazzi geniali. Da questo momento iniziano i problemi. Infatti, torna nelle vite dei due Evelyn, madre di Frank e nonna di Mary, che ha intenzione di coltivare e sfruttare il dono della nipote, come a suo tempo fece con quello della figlia. Naturalmente le posizioni di Evelyn e Frank sono diametralmente opposte e ciò li porta inevitabilmente in un'aula di tribunale per discutere l'affidamento della piccola. Tutto ciò avrà ripercussioni nella vita di tutti, ma in particolare della piccola Mary, il cui mondo viene sconvolto dalle decisioni degli adulti che la circondano. La storia di Gifted sembra una di quella già viste mille volte al cinema con un bambino genio protagonista da gestire e da crescere tra mille difficoltà, dubbi e reticenze, ma questo film, che ricorda un po' Kramer contro Kramer e E io mi gioco la bambina, dove i dialoghi sono scritti con gusto e i personaggi sono meno banali di quanto possa sembrare, si distingue per saper alternare in modo misurato dramma e commedia, lacrima e risata, arrivando a formare un prodotto tecnicamente perfetto.
giovedì 7 marzo 2019
Maze Runner - La rivelazione (2018)
Ha fatto appassionare milioni di spettatori in tutto il mondo, diventando una delle saghe cinematografiche distopiche, e letterarie, più amate dai giovani, e finalmente è tornata per l'ultimo capitolo della sua mirabolante storia, ecco finalmente il terzo e ultimo capitolo della saga young-adult tratta dai fortunati best-seller di James Dashner, ecco Maze Runner - La rivelazione (Maze Runner: The Death Cure). Alla regia troviamo ancora una volta Wes Ball, che aveva già diretto i primi due capitoli della saga: Maze Runner: Il Labirinto e Maze Runner: La Fuga. E dal momento che squadra che vince non si cambia, nel nuovo film ritroviamo Dylan O'Brien (ultimamente visto in gran forma in American Assassin) nel ruolo del protagonista Thomas, Kaya Scodelario (vista di recente in Pirati dei Caraibi: La Vendetta di Salazar e dopo in Tiger House) come Theresa, Thomas Brodie-Sangaster e Nathalie Emmanuel (rispettivamente Jojen Reed e Missandei de Il Trono di Spade) nei panni di Newt e Harriet, accompagnati dagli altri ex-radurai Minho (Ki Hong Lee), Sonya (Katherine McNamara) e Frypan (Dexter Darden), e tornano anche i "cattivi", interpretati da Patricia Clarkson e Aidan Gillen. Un capitolo su cui la prima cosa da dire sarebbe che si è fatto attendere, anche troppo, perché la distanza di ben tre anni si è fatta sentire, e purtroppo vantaggi e svantaggi hanno pesato. Le riprese infatti erano già iniziate nel 2016, ma un grave incidente sul set ha costretto a fermare la produzione, rimandando l'arrivo del film. Un film che, nonostante le buone premesse, tende a lasciare parecchi punti in sospeso, facendo sorgere più domande e dando pochissime risposte. Perché certo, da un lato questo ritardo è andato a svantaggio del film, dal momento che negli ultimi due/tre anni si è andato molto perdendo l'interesse verso la saga, mentre dall'altro ha permesso forse al regista di prendersi più libertà nella narrazione senza incappare in critiche (soprattutto dei cultori della saga letteraria), peccato che, sarà che è passato diverso tempo dal film precedente, che gli attori hanno definitivamente perso i tratti fanciulleschi che li contraddistinguevano nei due prequel, sarà il completo distacco dall'ambientazione originale del labirinto o più semplicemente il fatto che ci sono più proiettili ed esplosioni che parole, ma Maze Runner: La Rivelazione non convince. Il regista difatti, anche se dirige con una certa naturalezza l'ultimo capitolo di Maze Runner, confezionando una pellicola ad uso e consumo dei fan della saga cinematografica (i lettori dei libri di Dashner probabilmente avranno storto parecchio il naso), ed offre nuovamente, una storia altamente action, con contaminazioni futuristiche ed apocalittiche, ed il suo giovanissimo cast, non riesce (almeno non del tutto) a chiudere degnamente la saga.
mercoledì 6 marzo 2019
Tredici (2a stagione)
All'epoca ci furono molte discussioni, che continuano tuttora, sull'utilità o meno di una seconda stagione, anche perché la storia sembrava conclusa (dopotutto era stato trasposto tutto ciò che l'autore del romanzo aveva raccontato nella sua opera, quindi il compito della serie pareva essere ormai concluso), le cassette erano terminate, le storyline avevano raggiunto il loro culmine (Clay Jensen aveva svelato la realtà sul suicidio di Hannah, così i suoi genitori avevano intentato causa alla scuola e il suo violentatore, Bryce, sembrava destinato a fare i conti con la legge, insomma tutto lasciava presagire che la vita per gli altri sarebbe continuata senza troppi patemi), ma soprattutto il finale della prima stagione di Tredici (la serie televisiva statunitense basata sul romanzo 13 di Jay Asher) era meraviglioso, così come le tante domande le cui risposte venivano lasciate all'immaginazione dello spettatore. Brian Yorkey era infatti riuscito a realizzare una serie teen come non la si vedeva da anni, un gioiellino di recitazione e straordinariamente attuale. Vedendo però la seconda stagione (comunque prodotta complice l'enorme successo) ci si rende conto che una continuazione ha tutto il senso del mondo. Perché certo, forse non l'ha detto sempre nel modo esatto e non usando le tempistiche esatte, ma il prosieguo risulta nel complesso plausibile. In tal senso di nessuna utilità sarebbe invece una terza stagione (ahimè già in cantiere) perché tutto quello che poteva essere ancora svelato, quello che ancora non si era detto, viene definitivamente qui svelato e detto, lasciando praticamente zero margine. Non sarebbe un rischio incentrare un nuovo racconto senza la protagonista principale, senza il fulcro di tutto? Per me sì, infatti non sentivamo la necessità di un cliffhanger a fine di questa stagione, che anche per questo fatto perde mezzo voto, era meglio concludere e basta. In ogni caso sono passati cinque mesi dal suicidio di Hannah e Clay sembra aver voltato pagina, iniziando una relazione con Skye, vecchia amica d'infanzia. Sembra. La notizia che, dopo mesi in cui il patteggiamento appariva certo, i genitori di Hannah abbiano deciso di fare causa alla scuola, coglie impreparato il giovane Clay, che improvvisamente comincia a vedere la ragazza defunta dappertutto, iniziando anche delle lunghe e drammatiche conversazioni con lei. Il tutto mentre qualcuno mette nella sua cassetta delle foto scattate con una polaroid che mostrano Bryce e altri atleti della Liberty High intenti a violentare delle ragazze, rivelando un pozzo nero di misfatti che supera persino le violenze subite da Hannah e Jessica.
martedì 5 marzo 2019
Downsizing - Vivere alla grande (2017)
Ci sono registi che non deludono mai, nemmeno per sbaglio. Alexander Payne, autore di pellicole splendide come Nebraska e A proposito di Schmidt, era tra questi. Downsizing - Vivere alla grande (Downsizing), film del 2017 co-sceneggiato e diretto dal regista americano, sembrava quindi promettere molto bene: una storia fantascientifica proposta in chiave realistica, l'aura da commedia, un Matt Damon convinto. C'era tutto. Eppure, a fine visione, Downsizing si rivela per quello che, effettivamente, è: un film che parte da un'idea di base interessante e a tratti geniale (più per com'è sfruttata nella prima parte, che per l'originalità) ma privo di una reale sostanza, con un ritmo discontinuo e un cambio di rotta esagerato, che lo rende pesante da seguire. Una pellicola drammatico-scientifica tinteggiata di una ironia molto acida che però rimane non poco superficiale. Un lavoro che non solo non osa ma addirittura non sceglie una direzione in cui andare, vagando erraticamente in un oceano di spunti potentissimi, il cui approfondimento è però sempre inspiegabilmente schivato con esperienza. Un lavoro con uno straordinario potenziale che soccombe a un'irrimediabile indecisione in fase di scrittura e alla più totale assenza di una visione registica. Il soggetto è infatti accattivante. Per affrontare il problema della sovrappopolazione, degli scienziati (tra questi Rolf Lassgard del sorprendente Mr. Ove) inventano un modo per rimpicciolire gli esseri umani: quando sei alto dodici centimetri, puoi permetterti una vita da nababbo lasciando un'impronta ambientale quasi nulla. Il protagonista (Matt Damon) decide per l'appunto di sottoporsi a miniaturizzazione insieme alla moglie (Kristen Wiig). La donna però cambia idea all'ultimo, quando il compagno è già rimpicciolito, e così la coppia chiude rapidamente la propria relazione senza che la cosa abbia grandi effetti sul prosieguo della pellicola. Da quel momento le potentissime idee suggerite in apertura diventano una chimera, e lo script si trasforma in qualcosa di irrimediabilmente generico e confuso. Gli ingredienti per un mix emozionante ci sono: Damon inizia la sua vita di lusso da single affranto, e nell'arco di pochi mesi il divorzio lo riduce in condizioni di quasi indigenza (in quel mini-mondo in cui tutti sono ricchi). Per una serie di vicissitudini a dir poco pretestuose scopre che esiste la povertà estrema anche in quella colonia di ometti abbienti e si lega senza motivazioni comprensibili a una poverissima vietnamita burbera e idealista. Tra un amore per nulla convincente con la ragazza (anzi, alquanto stucchevole) e un'altrettanto immotivata amicizia con un ricco contrabbandiere donnaiolo (un Christoph Waltz sempre magnetico ma ormai caratterista), finirà per navigare verso una fine del mondo (in senso letterale) improvvisa e sostanzialmente inutile ai fini narrativi.
lunedì 4 marzo 2019
Ferdinand (2017)
Quando vidi la prima volta il trailer, non mi stupì affatto, mi stupì invece la scelta da parte dell'Academy di nominare e quindi candidare il suddetto film agli Oscar 2018, non riuscivo infatti a capire perché Ferdinand (noto anche come Il toro Ferdinando), film d'animazione del 2017 diretto da Carlos Saldanha, potesse rientrare in quella cinquina. Ebbene, dopo averlo visto ho trovato forse la risposta a quella fatidica domanda che mi chiesi all'epoca, del perché appunto fosse stato nominato, è la risposta è che questo film faccia parte di quella piccola porzione cinematografica del politicamente corretto, che l'Academy spesso nomina per compiacere una fetta di pubblico, una fetta di pubblico soprattutto americano. Perché dico questo? E' difatti ovvio l'intento della pellicola di accontentare ambientalisti e vegani. Protagonista è infatti un gigantesco toro dal cuore tenero, innamorato dei fiori, delle farfalle e della bellezza della natura. Ferdinand, vitellino dalla natura pacifica e gentile, nasce in un allevamento di tori destinati alla corrida o al macello, tuttavia riesce fortunatamente, dopo esser rimasto orfano a causa della morte del padre, deceduto in una corrida, a fuggire prima che per lui sia troppo tardi e viene cresciuto con amore da una famiglia che vive in campagna e rispetta gli animali. Un giorno, però, scendendo in città, con la sua mole ingombrante e goffa involontariamente porta un gran scompiglio, creduto pericoloso viene ricondotto dai suoi vecchi padroni. Il suo passato torna così ad esigere qualcosa da lui, ma grazie alla sua tenacia e al suo buon cuore il giovane toro riuscirà a dimostrare che la sua apparenza non deve necessariamente condizionare la sua vita, che non ci sono apparentemente solo due strade alternative (combattere o morire) per gli animali come lui. E insomma è chiaro dove vorrebbe andare a parare il film, un film non brutto sia chiaro, ma colpevolmente buonista e convenzionale (solo sufficientemente riuscito), un film prevedibile non assolutamente da Oscar.
venerdì 1 marzo 2019
Dietro la maschera (A carnevale ogni recensione vale) - Hush (2016)
Ho visto da qualche giorno, per rispondere alla richiesta della combriccola di blogger cinefili di vedere e recensire un film con protagonista una "maschera", Hush, film del 2016 diretto da Mike Flanagan già regista di Oculus e di Somnia. Ebbene dico subito che il film mi è piaciuto nella sua sobria semplicità, l'ora e mezza scarsa di durata è passata in un baleno senza mai annoiare. E' un classico home invasion, tipo quelli dentro la casa devono difendersi da quelli fuori, che non si discosta molto dall'archetipo del genere e con una trama ridotta all'osso, che ruota tutto attorno alla lotta tra preda e cacciatore. Tuttavia, il particolare più interessante della classica storia della giovane e promettente scrittrice che vive in una casa isolata nei boschi ma che si ritroverà improvvisamente attaccata da un uomo mascherato, che sarà ovviamente l'inizio di una lenta ma inesorabile caccia in cui nulla è come sembra, è che la nostra protagonista femminile è sordomuta a causa di una meningite contratta all'età di 13 anni. La sua disabilità fisica, come già nel personaggio principale dell'horror Don't Breathe (il protagonista era cieco), giocherà difatti un ruolo centrale all'interno dell'intera trama dove lo stereotipo della "vittima con disabilità" sarà più volte sovvertito. La questione del sovvertimento degli stereotipi (una tendenza riscontrabile in molto cinema horror da un po' di anni a questa parte) non è però il solo punto di forza della vicenda. Il regista, infatti, riesce a mettere in piedi una piccola perla grazie a un uso sapiente di alcuni elementi presi direttamente dagli slasher classici, mescolati con arguzia e un pizzico di coraggio ad altre caratteristiche più di stampo moderno. Egli difatti, specialista e molto attivo nel campo dell'horror, anche se dal suo esordio positivo di Oculus e del discreto Somnia ha fatto un passo falso con Ouija - L'origine del male, sembra aver ben imparato bene (sin troppo!) la lezione di Wes Craven riepilogata ed estrinsecata con cura in Scream e nei successivi seguiti, e firma un horror classico e puro giocato tutto sullo scontro frontale tra un nemico potente, ed una vittima che ha solo la possibilità di temporeggiare per evitare il peggio.