Sarà che è naturalmente il mese più breve dell'anno, eppure in questo mese di Febbraio ne sono successe di cose, in campo musicale, economico, politico, cinematografico, sportivo e personale. C'è stato Sanremo e la sua scia di polemiche, c'è stata la manovra e la sua scia di polemiche, ci sono state le elezioni regionali e la sua scia di polemiche, c'è stata la cerimonia degli Oscar e la sua scia di polemiche, ci sono stati gli ottavi di finale e la sua scia di polemiche, insomma le polemiche non sono affatto mancate, fortunatamente però, nella mia sfera personale, non c'è stata nessuna polemica, anzi, ho re-incontrato la mia (ormai) carissima amica Claudia, ed è stato nuovamente bello parlare faccia a faccia (e non solo virtualmente) con lei, ho passato un San Valentino (un giorno un po' triste per chi non ha mai avuto una ragazza) senza scosse ma tranquillo, a sorpresa ha nuovamente nevicato e sembrava esser tornati al periodo natalizio ed infine oggi che i miei festeggiano il loro anniversario di matrimonio, mi sento bene, sia fisicamente che mentalmente. Insomma è stato, anche se oggi l'ultimo giorno è appena cominciato, un mese intenso, sperando che il mese prossimo sia di medesima intensità. Ma essendo il mese di Marzo il mese del mio compleanno potrebbe forse esserlo nuovamente, o almeno spero sarà così, sperando altresì che qualche bella sorpresa arrivi (e in qualsiasi campo). Intanto però ecco cosa ho visto di buono, oltre a quello che avrete certamente già letto, in questo mese di Febbraio.
Il film Orecchie, dal titolo alquanto singolare, racconta ciò che di assurdo capita in una giornata al protagonista non appena una mattina si sveglia ed avverte un fastidioso fischio all'interno del suo orecchio. Egli dapprima legge il biglietto della propria ragazza che gli comunica che un suo amico (di cui peraltro l'uomo non si ricorda affatto) è improvvisamente deceduto e che il funerale si svolgerà alle sette della sera, poi nel suo girovagare per la città al fine di raggiungere un otorino laringoiatra per farsi diagnosticare la causa del fischio egli viene a contatto con personaggi strambi: dai medici che egli consulta, ad un suo alunno a cui dà lezioni private, ad una direttrice di giornale con cui ha un colloquio per un'eventuale assunzione, alla stessa madre che ha una relazione sentimentale con un artista di strada, al suo ex-professore di filosofia con la consorte sino ad un "originale" prete che deve celebrare il funerale dell'amico. Questa intera galleria di personaggi ed il colpo di scena finale ribalterà completamente l'esistenza del protagonista. Questa è la trama sulla quale si sviluppa questa particolare e intelligente commedia, costata pochissimo (circa 150.000 euro, meno di un terzo di un film low budget) ma molto ben fatta sia sul piano tecnico sia su quello narrativo (la fotografia insieme al montaggio, molto dinamico soprattutto nella prima parte, e l'efficace colonna sonora sono difatti combinati in modo molto fluido e piacevole). On the road a piedi lungo un giorno, l'opera di Alessandro Aronadio (qui al suo secondo lungometraggio) ha un taglio tragicomico, pervasa da un senso di smarrimento e scollamento dalla realtà che appare al protagonista folle e incomprensibile. Un prodotto illuminante, che non si pone l'obiettivo di rendere il mondo un posto migliore, piuttosto cerca di guardarlo in modo diverso, dandogli un'altra possibilità, con l'ambizione di trasformare l'odissea del protagonista in una riflessione esistenziale. Cinico, caustico, Orecchie disegna un mondo pervaso da follia e vizi difficilmente sopportabili. Uno sguardo straniante, interessante e riflessivo sull'assurdità del mondo che ci circonda e sull'inetto odierno incapace di assoggettarsi alle stranezze altrui e per questo considerato ancora più pazzo degli altri. Il film infatti, in maniera pacata e quasi surreale presenta svariate assurdità del mondo di oggi o come tali appaiono al protagonista. Ma saranno proprio queste manifestazioni irrazionali e particolari ad insegnargli un atteggiamento diverso con cui d'ora in poi affrontare la propria vita, cambiandogli radicalmente le convinzioni in base a cui egli viveva. Il film è girato in bianco e nero (e non so quanto per scelta stilistica e quanto per mancanza di fondi, in ogni caso il risultato è funzionale), in maniera lineare nel corso del suo svolgersi ed intriso di un'ironia sottile che lo rende intelligentemente divertente. Arricchito poi da un cast pieno di volti noti e piacevoli del nostro cinema che vengono utilizzati con arguzia dal regista restituendo nobiltà alla definizione di "caratteristi" (Piera Degli Esposti, Rocco Papaleo, Ivan Franek, Milena Vukotic, Sonia Gessner, lo sceneggiatore Andrea Purgatori ed anche Silvia D'Amico) e centrato su un ottimo protagonista come Daniele Parisi (che ricorda un po' Claudio Santamaria e un po' Fabio Troiano), Orecchie finisce dunque per apparire abbastanza solido, al di là della sua apparente andatura svagata (un po' come sarà successivamente due anni dopo con l'altrettanto caustico e divertente Io c'è dello stesso regista Alessandro Aronadio). Solleva qualche dubbio solo l'ultima parte del film in cui, di fronte all'ovvia costrizione di dover chiudere i conti, si finisce per esagerare in sentimentalismo (inzeppando tutto quello che era stato accuratamente evitato fino a quel momento) e ci si lascia scappare qualche finale di troppo (non bastasse la seconda parte perde un po' ritmo, i dialoghi si dilungano a volte diventando quasi ripetitivi e anche alcune gag, per quanto verosimili e divertenti, risultano forse un po' forzate rischiando di scivolare nella macchietta). Nel complesso però è un film da vedere (una visione abbastanza curiosa, sufficientemente ritmata e godibile che strappa qualche sorriso e una piccola riflessione), divertente e dissacrante al punto giusto (si ride in maniera intelligente mai volgare o sguaiata). Un'opera, sia pure minore, tutta da scoprire ed apprezzare appieno. Voto: 6+
Il film Orecchie, dal titolo alquanto singolare, racconta ciò che di assurdo capita in una giornata al protagonista non appena una mattina si sveglia ed avverte un fastidioso fischio all'interno del suo orecchio. Egli dapprima legge il biglietto della propria ragazza che gli comunica che un suo amico (di cui peraltro l'uomo non si ricorda affatto) è improvvisamente deceduto e che il funerale si svolgerà alle sette della sera, poi nel suo girovagare per la città al fine di raggiungere un otorino laringoiatra per farsi diagnosticare la causa del fischio egli viene a contatto con personaggi strambi: dai medici che egli consulta, ad un suo alunno a cui dà lezioni private, ad una direttrice di giornale con cui ha un colloquio per un'eventuale assunzione, alla stessa madre che ha una relazione sentimentale con un artista di strada, al suo ex-professore di filosofia con la consorte sino ad un "originale" prete che deve celebrare il funerale dell'amico. Questa intera galleria di personaggi ed il colpo di scena finale ribalterà completamente l'esistenza del protagonista. Questa è la trama sulla quale si sviluppa questa particolare e intelligente commedia, costata pochissimo (circa 150.000 euro, meno di un terzo di un film low budget) ma molto ben fatta sia sul piano tecnico sia su quello narrativo (la fotografia insieme al montaggio, molto dinamico soprattutto nella prima parte, e l'efficace colonna sonora sono difatti combinati in modo molto fluido e piacevole). On the road a piedi lungo un giorno, l'opera di Alessandro Aronadio (qui al suo secondo lungometraggio) ha un taglio tragicomico, pervasa da un senso di smarrimento e scollamento dalla realtà che appare al protagonista folle e incomprensibile. Un prodotto illuminante, che non si pone l'obiettivo di rendere il mondo un posto migliore, piuttosto cerca di guardarlo in modo diverso, dandogli un'altra possibilità, con l'ambizione di trasformare l'odissea del protagonista in una riflessione esistenziale. Cinico, caustico, Orecchie disegna un mondo pervaso da follia e vizi difficilmente sopportabili. Uno sguardo straniante, interessante e riflessivo sull'assurdità del mondo che ci circonda e sull'inetto odierno incapace di assoggettarsi alle stranezze altrui e per questo considerato ancora più pazzo degli altri. Il film infatti, in maniera pacata e quasi surreale presenta svariate assurdità del mondo di oggi o come tali appaiono al protagonista. Ma saranno proprio queste manifestazioni irrazionali e particolari ad insegnargli un atteggiamento diverso con cui d'ora in poi affrontare la propria vita, cambiandogli radicalmente le convinzioni in base a cui egli viveva. Il film è girato in bianco e nero (e non so quanto per scelta stilistica e quanto per mancanza di fondi, in ogni caso il risultato è funzionale), in maniera lineare nel corso del suo svolgersi ed intriso di un'ironia sottile che lo rende intelligentemente divertente. Arricchito poi da un cast pieno di volti noti e piacevoli del nostro cinema che vengono utilizzati con arguzia dal regista restituendo nobiltà alla definizione di "caratteristi" (Piera Degli Esposti, Rocco Papaleo, Ivan Franek, Milena Vukotic, Sonia Gessner, lo sceneggiatore Andrea Purgatori ed anche Silvia D'Amico) e centrato su un ottimo protagonista come Daniele Parisi (che ricorda un po' Claudio Santamaria e un po' Fabio Troiano), Orecchie finisce dunque per apparire abbastanza solido, al di là della sua apparente andatura svagata (un po' come sarà successivamente due anni dopo con l'altrettanto caustico e divertente Io c'è dello stesso regista Alessandro Aronadio). Solleva qualche dubbio solo l'ultima parte del film in cui, di fronte all'ovvia costrizione di dover chiudere i conti, si finisce per esagerare in sentimentalismo (inzeppando tutto quello che era stato accuratamente evitato fino a quel momento) e ci si lascia scappare qualche finale di troppo (non bastasse la seconda parte perde un po' ritmo, i dialoghi si dilungano a volte diventando quasi ripetitivi e anche alcune gag, per quanto verosimili e divertenti, risultano forse un po' forzate rischiando di scivolare nella macchietta). Nel complesso però è un film da vedere (una visione abbastanza curiosa, sufficientemente ritmata e godibile che strappa qualche sorriso e una piccola riflessione), divertente e dissacrante al punto giusto (si ride in maniera intelligente mai volgare o sguaiata). Un'opera, sia pure minore, tutta da scoprire ed apprezzare appieno. Voto: 6+
Non voglio essere troppo duro con un film che omaggia la memoria di una ragazza strappata alla vita troppo presto e in maniera tragica, ma da premiare in questa Una stagione da ricordare (The Miracle Season), film del 2018 diretto da Sean McNamara, film basato sulla reale vicenda della squadra femminile di pallavolo dell'Iowa City West High School a seguito dell'improvvisa scomparsa del loro capitano Caroline Found il 17 agosto 2011, squadra che cerca conforto e sostegno nella loro amorevole allenatrice nella speranza di vincere il campionato (riuscendoci dopo un incredibile filotto di vittorie), ci sono solo i momenti di commozione che il cast (composto principalmente da William Hurt, Helen Hunt ed Erin Moriarty) interpreta al meglio, facendoci partecipi delle emozioni vissute. Il regista invece (abbastanza mediocre, vista la sua filmografia non proprio invidiabile) mostra delle lacune spaventose: non solo non conosce una mazza del regolamento della pallavolo moderna, ma le scene sul campo non hanno nessuna spinta, nessun agonismo da evidenziare e nessuna grande emozione da condividere e tutto sembra imbastito in maniera superficiale da risultare inutile e vuoto. Penso che l'intento di questo film, come già accennato, sia esclusivamente quello di rendere nota una storia vera che inneggia ai buoni sentimenti e che magari serva da insegnamento ai giovani, e da questo punto di vista la sufficienza se la merita, ma la gestione tecnica (debole e dalla sceneggiatura banale) fa davvero acqua da tutte le parti. Ed è un peccato perché il volley è uno sport che meriterebbe più visibilità al cinema (insomma, non che sia in verità uno sport "regale") e una più accurata presentazione (quest'ultima soprattutto). E tuttavia, anche se le scene sportive non regalano quei momenti di adrenalina agonistica come altre pellicole, non si può restare indifferenti di fronte ad un film che durante i titoli di coda (in cui come da prassi le foto dei familiari di Caroline e di Caroline stessa fanno da sfondo) fa salire l'empatia verso una vicenda umana straziante. Di fronte ad un film dove come detto bene fanno i protagonisti, con William Hurt che si fa preferire alla Hunt, un film assolutamente non memorabile, ma bello, interessante e sufficientemente riuscito. Voto: 6
Una pagina cruenta della nostra Storia, raccontata senza veli, senza indulgere in toni faziosi (non eccedendo in commenti, sottotitoli e indicazioni dell'autore fra le pieghe dei dialoghi dei protagonisti), con dedizione alla verità degli eventi, o almeno in modo tutto sommato verosimile, dopotutto non aspettatevi una ricostruzione storica fedele, anche perché i film storici, o tratti da storie vere, si prendono quasi sempre parecchie libertà). Red Land (Rosso Istria) infatti, film del 2018 diretto, sceneggiato e prodotto da Maximiliano Hernando Bruno, all'interno dei limiti di un punto di vista preciso, ossia quello della comunità italiana costretta ad abbandonare i territori ceduti alla Jugoslavia dopo la Seconda guerra mondiale (è chiaro che alcuni elementi utili non a giustificare, ma almeno a spiegare gli avvenimenti istriani del settembre-ottobre 1943 siano taciuti o appena accennati), e al netto di alcuni anacronismi e ingenuità, fornisce una versione tutto sommato verosimile della tragica vicenda di Norma Cossetto, laureanda dell'Università di Padova arrestata dai partigiani comunisti in Istria dopo l'8 settembre 1943, il cui corpo sarà riesumato tre mesi dopo dalla foiba di Villa Surani insieme ad altre decine di sventurati. Giacché il film, diretto con ambizione dal regista argentino, si impegna a tracciare un affresco corale di una resistenza strenua di un gruppo di paesani onesti e dediti al lavoro, colpevoli di aver assecondato, pur senza enfasi alcuna, l'ondata trionfalistica fascista in via di ritirata dopo l'armistizio e la resa del 1943. L'impegno e la buona volontà di narrare i fatti documentati dalle sanguinose stragi che hanno afflitto e falcidiato centinaia di innocenti nelle terre del Nord est del paese nei momenti cruciali e più drammatici del Secondo conflitto, sono senz'altro innegabili e suscettibili di merito e menzione. Non a caso la pellicola sceglie una narrazione classica a flash-back, aperta e chiusa da due appendici risalenti ai giorni nostri (interpretate da una consunta e sofferta Geraldine Chaplin), quasi a voler ribadire la necessità e l'urgenza di una memoria che possa non dimenticare ne tacere certe pagine devastanti della nostra storia recente, a vantaggio delle future generazioni. Si tratta per questo di un film duro, crudo, ma appunto ricco anche di spunti di riflessione e foriero di un messaggio di pace futura e di speranza. Un film che riesce ad affrontare un argomento ancor oggi politicamente spinoso in maniera tutto sommato equilibrata, sia pure all'interno, come si diceva, di una visione di parte. Un film (tra i cui interpreti riconosciamo ed apprezziamo pure, in ruoli minori ma non meno cruciali, Franco Nero, Sandra Ceccarelli, e lo stesso cineasta Bruno) che si districa narrativamente secondo una storia corale che permette ad alcuni personaggi, come la tenace studentessa Norma Cossetto, martire tra le più note dell'eccidio delle foibe, di farsi carico dei momenti più drammatici e riusciti della pellicola. Che, a volte, certo, sbanda nella costruzione di personaggi a rischio di caricatura, come avviene talvolta soprattutto nel tratteggio di alcuni crudeli personaggi di aguzzini istriani. Che ha diverse pecche sul piano tecnico che, a mio parere, non consentono di dare una valutazione superiore a sufficiente (durata eccessiva, personaggi che appaiono fugacemente senza che se sappia più nulla, evoluzioni psicologiche troppo repentine, eccessiva spettacolarizzazione di alcune scene). Ma si tratta, nel suo complesso, di un prodotto valido, soprattutto per il merito che la Rosso Istria di tornare validamente in argomento su una vera e propria strage di innocenti destinata troppo spesso ad essere tralasciata o non valutata adeguatamente con lo sdegno che merita, tra i capitoli più bui e drammatici per l'umanità, incentrati attorno ad un conflitto bellico devastante come fu la guerra nel lungo periodo tra il '39 e il '45. Lodevole l'intento, accettabile la ricostruzione storica, migliorabile la realizzazione. Voto: 6
Quando seppi di questo film, mi sembrava che fosse solamente un'operazione furbetta, realizzata solo per riportare in patria (era da decenni infatti che non se ne producevano più) un monumento nazionale dopo l'ottima esperienza americana targata Gareth Edwards (che aveva finalmente azzeccato l'essenza del mostro giapponese più famoso di tutti i tempi), e invece ho dovuto ricredermi. Perché fin dal suo titolo, Shin Godzilla (tuttavia a livello internazionale il titolo è Godzilla Resurgence) ci fa capire che stiamo assistendo ad un'operazione di reboot completo (in giapponese, shin significa nuovo, vero e divino), ponendosi dunque come nuovo inizio (non è infatti un seguito del film originale del 1954, bensì un reboot). In tal senso paradossalmente Shin Godzilla è moderno e satirico. Shin Godzilla ostenta con vigore tutto il suo lato rudimentale e grezzo, apprezzabile perché fa comprendere che non servono attrazioni ultra-milionarie per appagare l'occhio dello spettatore. Shin Godzilla è il nuovo, potente e riuscito kaiju movie che serviva per dimostrare che non sono solo gli americani a gestire i grossi mostri dalla distruzione facile. Là, subito oltre l'oceano Pacifico, i giapponesi hanno perciò rispolverato e ricontestualizzato uno degli esempi più emblematici della loro cinematografia (al tempo) gotica (simbolo e metafora di un secondo dopoguerra emotivamente e realisticamente devastante). Alla regia, di questa produzione dell'anno 2016, vengono scelti Hideaki Anno e Shinji Higuchi: Anno è uno dei registi e animatori più influenti degli ultimi decenni conosciutissimo ovunque per la serie Neon Genesis Evangelion (che tuttavia io non conosco) e per le sue collaborazioni con l'amico Hayao Miyazaki allo Studio Ghibli, Higuchi è un regista e sceneggiatore giapponese, specializzato nel curare effetti speciali, ed ha anche collaborato in più film di Godzilla. E il risultato è incredibile e bizzarro. Incredibile perché ritmato e narrativamente solido (nonostante qualche momento di stanca), Shin Godzilla è un cinema molto lontano dal superficiale patriottismo statunitense. Bizzarro perché Godzilla sorge dalle acque della baia di Tokyo in una versione larvale, e inizia a mutare davanti agli occhi degli abitanti della metropoli, seminando distruzione nel contempo. Quando raggiunge la sua forma finale, non assomiglia per niente al mostro "eroico" del film di Edwards (qui la recensione) e delle pellicole più leggere della saga giapponese. In sessant'anni, Godzilla ha assunto varie forme: è stato un protettore della natura (come nell'ultimo film americano), un amico degli uomini oppure una minaccia bruta. Quest'ultima lettura è quella che fanno Hideaki Anno e il co-regista Shinji Iguchi. Ma il film non è solo questo, anzi, l'intento principale di tutta l'opera è una brutale e sincera denuncia al sistema giapponese, creato per seguire alla lettera leggi e cavilli ma incapace di organizzarsi in caso d'improvvisazione, facendosi al tempo stesso schiacciare da alleati ben più smaliziati. Caste divise in livelli (metaforizzate molto bene dai vari piani degli uffici governativi), compartimentizzazione, infinite cariche, ministeri, protocolli, una società schiava della propria organizzazione, in cui non si riesce mai a trovare un vero colpevole o un vero leader, spesso frenati da dettami fin troppo antichi o da giochi politici che operano nell'ombra. La critica di Anno è dura ma giusta, atta non solo a polemizzare ma anche a celebrare chi, come i protagonisti, cerca di uscire da questo teatrino sociale guardando al futuro, pur non ritraendo mai dei personaggi completamente positivi. Aiutati da un'infinità di dialoghi veramente ben scritti, la storia ha un ritmo serratissimo e scorre via nell'ansia di prevedere gli avvenimenti futuri, con una enorme figura fantascientifica che a volte resta intelligentemente quasi come sfondo rispetto alla vicenda politica e sociale, anche se quella parte di film, di distruzione, non manca, anzi. Purtroppo il budget non sembra essere adatto ad una produzione del genere e si può fare qualche rimostranza per la scarsa CGI del film, che a volte davvero disturba soprattutto quando Godzilla è in movimento ma è davvero poca cosa rispetto alla maestosità intellettuale di tutta la produzione. Shin Godzilla è dunque un film che va capito e messo nel contesto della produzione e della cultura giapponese, tanto è lontano dagli standard occidentali. Ma, oltrepassando questo minuscolo ostacolo, ci si trova davanti un'opera di rara potenza visiva che offre ai fan un grande ritorno, da troppo tempo atteso. Voto: 6,5
E' possibile realizzare un noir sullo sfondo dei delicati eventi sociopolitici che hanno portato alla rivoluzione egiziana del 2011? Per il regista Tarik Saleh la risposta è affermativa e questo suo film ne è la prova. Vincitore del World Cinema Grand Jury Prize al Sundance 2017, Omicidio al Cairo è un neo-noir misterioso ed enigmatico che, svolgendosi appunto a ridosso della rivoluzione egiziana del 25 gennaio 2011, intreccia la storia di un giovane poliziotto con i fatti realmente accaduti durante i moti della Primavera Araba. La pellicola, prodotta in Svezia, vede l'attore libano-svedese Fares Fares (noto a livello internazionale per Zero Dark Thirty, Safe House e Rogue One: A Star Wars Story) nelle vesti di Noredin, poliziotto corrotto del Cairo a cui viene affidato il primo grande caso: l'omicidio di una famosa cantante, compiutosi in una camera dell'Hotel Hilton. L'indagine viene, prontamente, bollata come "suicidio", questa sentenza arbitraria non verrà accettata dal protagonista che, per una volta, andrà alla ricerca della verità contro il volere dei superiori, in particolare dello zio, capo della polizia (Yassar Ali Maher). Noredin si "perderà" ben presto all'interno di un complesso e quanto mai aberrante sistema politico/giudiziario che giungerà al suo culmine con l'avvento della rivoluzione. Thriller e politica si intrecciano dunque nella trama di Omicidio al Cairo che, nonostante il titolo, è ben più di un giallo ben congegnato. Sebbene infatti la componente mistery sia ben cadenzata, la story-line legata all'inspiegabile assassinio lascia spesso spazio a spaccati quotidiani dell'Egitto dei primi anni Dieci, dove correzione e povertà regnano sovrane. Il lungometraggio di Tarik Saleh riesce difatti a mostrare le contraddizioni (affrontate dal regista attraverso l'utilizzo di una sottile ironia ma divengono, anche, motivo di dramma) che puntellano la grande metropoli de Il Cairo, che diventa un riflesso dell'intero mondo occidentale. Terra decadente ma tutt'altro che desolata, la capitale dello stato egiziano si delinea come una moderna Babele, popolata da loschi figuri che spesso indossano maschere di un'apparente e falso perbenismo. I singoli personaggi si trasformano di conseguenza in modelli di giustizia, immoralità e ambiguità, abili nel rispecchiare grazie alla loro universalità anche la quotidianità dello spettatore. In tal senso, a favorire la buona riuscita del film sono anche le interpretazioni dei protagonisti, sconosciuti in Italia ma abbastanza attivi in ambito internazionale (soprattutto uno). Ben calibrati sono poi gli influssi dei diversi generi cinematografici. Se come si è detto dal mistery si costruisce la struttura narrativa del progetto, anche le logiche del neo-noir vengono sfruttate in molteplici frangenti: improbabili detective e ingenue femme fatale si muovono sulla scena, ripensando e minando i dettami tipici del cinema hollywoodiano. Cineasta imprevedibile e dai tratti anti-canonici, Tarik Saleh gioca quindi con svariate iconografie, alternando diversi elementi ma legando le forme della narrazione ad una tradizionale consequenzialità causa-effetto. Ciò non è sicuramente un male, anche se, viste le pellicole da lui precedentemente dirette, un maggior grado di rischio sarebbe stato comunque gradito. Omicidio al Cairo può, dunque, dirsi un film riuscito? Non del tutto. Sebbene l'idea sia notevole la pellicola manca di atmosfera (essenziale nei noir) e (come anticipato prima) di uno stile registico ben preciso. Spesso, si ha la sensazione di assistere a scene documentaristiche, probabilmente, una scelta voluta che collide, inevitabilmente, con la natura della pellicola. Valzer con Bashir raccontava, in maniera eccelsa, le tensioni politiche di un preciso momento storico servendosi, però, di momenti altamente suggestivi. Ciò, non danneggia la storia che si vuole raccontare ma rappresenta un valore aggiunto, in particolar modo, all'interno di un film di genere. La psicologia dei personaggi, inoltre, risulta appena accennata: difficile immedesimarsi, soprattutto, nel protagonista. Quel che possiamo fare, è intuire o immaginare i suoi stati d'animo in base alle azioni e scelte da lui compiute. L'intento di intrecciare il dramma sociale con vicende più o meno fittizie, espone alcune sequenze al rischio di risultare forzate. Certe tematiche, invece, vengono persino abbandonate all'interno del plot. Nonostante queste pecche, ci troviamo al cospetto di un progetto davvero interessante, in grado di raccontare, attraverso un espediente narrativo, una realtà difficile e, purtroppo, attuale. E questa, è una qualità per cui il cinema si è, spesso, contraddistinto. Un progetto, un lungometraggio sfaccettato e stratificato che, con intelligenza e coerenza, rielabora appunto alcuni caratteri fondamentali del cinema, alla luce della storia socio-politica di uno stato e di un popolo ancora desideroso di rivalsa. Voto: 6+
Torna a 39 anni dalla sua prima uscita televisiva italiana il più famoso robot creato da Go Nagai, quel Mazinga Z che vedevo da bambino, e lo fa con un discreto film, ovvero Mazinga Z Infinity, film del 2017 diretto da Junji Shimizu. Ambientato 10 anni dopo la serie tv vede tutti i protagonisti cresciuti e maturati alle prese di nuovo con il Dott. Inferno e la sua squadra tornati per l'occasione da un altra dimensione deciso non tanto a conquistare il mondo quanto ad annientarlo per ricostruirlo ex novo. E così, tra mondi paralleli, multi universi e pensieri filosofici il film ci delizia con combattimenti spettacolari e con un Mazinga possente. Mazinga Z Infinity è tutto ciò che un amante dei robottoni possa desiderare. Incredibili e spettacolari battaglie mozzafiato contro orde di mostri meccanici, un'intrigante storia fantascientifica, il tutto condito da uno straordinario messaggio di fondo, capace di essere ricevuto da qualsiasi tipo di spettatore. Mazinga Z Infinity non è solo un film per i fan della prima ora, i quali però non potranno che godere delle numerosissime citazioni della serie (anche se in alcuni punti sono di difficile comprensione a chi è a digiuno con il mondo di Mazinga), inoltre, la pellicola non è solo un seguito della serie, ma un vero è proprio nuovo inizio, capace di catturare anche chi è digiuno di raggi fotonici. Insomma un film spettacolare, come l'aspetto tecnico, avvincente narrativamente (ne resteranno entusiasti gli amanti della fantascienza) che, parlando di umanità, di solidarietà, di responsabilità e soprattutto di crescita su tutti i livelli, si fa apprezzare. La magnifica capacità comunicativa di Go Nagai, unita al trascinante intrattenimento d'azione regalatoci da Junji Shimizu, rendono questo film un piccolo cult. A volerlo però giudicare attraverso uno sguardo critico, distaccato e cinico, Mazinga Z Infinity è l'ennesima operazione revival che segue l'impronta de Il Risveglio della Forza per rilanciare il franchise e che tratta la materia con distaccata (e furba) consapevolezza. Go Nagai, demiurgo del genere mecha, è stato coinvolto solo in fase promozionale nell'operazione e si è limitato a dare la sua approvazione al progetto in pre-produzione. Si gioca sul sicuro proponendo la collaudata fascinazione per il protagonista invecchiato costretto a tornare sul campo di battaglia ma si getta uno sguardo anche a quelli che potranno essere gli eroi della nuova generazione, vuoi perché Tetsuya è in procinto di diventare padre, vuoi per la presenza della misteriosa Lisa, nuova esponente del girl power. Non c'è nemmeno bisogno di scomodarsi ad inventare qualche nuovo villain quando puoi riproporre tutti quelli della serie animata in un colpo solo. Il restyling estetico è improntato al realismo, sia sul piano scenografico che sui dettagli mecha, gli elementi digitali sono ben amalgamati e non presentano stonature nel contesto in animazione classica, i movimenti di Mazinga, solenni nella serie originale, divengono qui rapidissimi a beneficio del ritmo dell'action. Il tono vira ad un divertito surreal-demenziale quando entrano in scena Boss Robot e le procaci, pruriginose MazinGirls. Oltre alla prevedibile retorica ecologista, la sceneggiatura propone dialoghi infarciti da pretestuose "supercazzole" fantascientifiche e qualche interessante riflessione filosofica conferendo maggior profondità ai personaggi. Insomma non tutto è perfetto, anzi, i combattimenti in verità, il sale del manga, ci sono ma non sembrano così esaltanti, la grafica però regge abbastanza bene e tutto sommato si tira fino alla fine senza grossi problemi. Voto: 6
Quando seppi di questo film, mi sembrava che fosse solamente un'operazione furbetta, realizzata solo per riportare in patria (era da decenni infatti che non se ne producevano più) un monumento nazionale dopo l'ottima esperienza americana targata Gareth Edwards (che aveva finalmente azzeccato l'essenza del mostro giapponese più famoso di tutti i tempi), e invece ho dovuto ricredermi. Perché fin dal suo titolo, Shin Godzilla (tuttavia a livello internazionale il titolo è Godzilla Resurgence) ci fa capire che stiamo assistendo ad un'operazione di reboot completo (in giapponese, shin significa nuovo, vero e divino), ponendosi dunque come nuovo inizio (non è infatti un seguito del film originale del 1954, bensì un reboot). In tal senso paradossalmente Shin Godzilla è moderno e satirico. Shin Godzilla ostenta con vigore tutto il suo lato rudimentale e grezzo, apprezzabile perché fa comprendere che non servono attrazioni ultra-milionarie per appagare l'occhio dello spettatore. Shin Godzilla è il nuovo, potente e riuscito kaiju movie che serviva per dimostrare che non sono solo gli americani a gestire i grossi mostri dalla distruzione facile. Là, subito oltre l'oceano Pacifico, i giapponesi hanno perciò rispolverato e ricontestualizzato uno degli esempi più emblematici della loro cinematografia (al tempo) gotica (simbolo e metafora di un secondo dopoguerra emotivamente e realisticamente devastante). Alla regia, di questa produzione dell'anno 2016, vengono scelti Hideaki Anno e Shinji Higuchi: Anno è uno dei registi e animatori più influenti degli ultimi decenni conosciutissimo ovunque per la serie Neon Genesis Evangelion (che tuttavia io non conosco) e per le sue collaborazioni con l'amico Hayao Miyazaki allo Studio Ghibli, Higuchi è un regista e sceneggiatore giapponese, specializzato nel curare effetti speciali, ed ha anche collaborato in più film di Godzilla. E il risultato è incredibile e bizzarro. Incredibile perché ritmato e narrativamente solido (nonostante qualche momento di stanca), Shin Godzilla è un cinema molto lontano dal superficiale patriottismo statunitense. Bizzarro perché Godzilla sorge dalle acque della baia di Tokyo in una versione larvale, e inizia a mutare davanti agli occhi degli abitanti della metropoli, seminando distruzione nel contempo. Quando raggiunge la sua forma finale, non assomiglia per niente al mostro "eroico" del film di Edwards (qui la recensione) e delle pellicole più leggere della saga giapponese. In sessant'anni, Godzilla ha assunto varie forme: è stato un protettore della natura (come nell'ultimo film americano), un amico degli uomini oppure una minaccia bruta. Quest'ultima lettura è quella che fanno Hideaki Anno e il co-regista Shinji Iguchi. Ma il film non è solo questo, anzi, l'intento principale di tutta l'opera è una brutale e sincera denuncia al sistema giapponese, creato per seguire alla lettera leggi e cavilli ma incapace di organizzarsi in caso d'improvvisazione, facendosi al tempo stesso schiacciare da alleati ben più smaliziati. Caste divise in livelli (metaforizzate molto bene dai vari piani degli uffici governativi), compartimentizzazione, infinite cariche, ministeri, protocolli, una società schiava della propria organizzazione, in cui non si riesce mai a trovare un vero colpevole o un vero leader, spesso frenati da dettami fin troppo antichi o da giochi politici che operano nell'ombra. La critica di Anno è dura ma giusta, atta non solo a polemizzare ma anche a celebrare chi, come i protagonisti, cerca di uscire da questo teatrino sociale guardando al futuro, pur non ritraendo mai dei personaggi completamente positivi. Aiutati da un'infinità di dialoghi veramente ben scritti, la storia ha un ritmo serratissimo e scorre via nell'ansia di prevedere gli avvenimenti futuri, con una enorme figura fantascientifica che a volte resta intelligentemente quasi come sfondo rispetto alla vicenda politica e sociale, anche se quella parte di film, di distruzione, non manca, anzi. Purtroppo il budget non sembra essere adatto ad una produzione del genere e si può fare qualche rimostranza per la scarsa CGI del film, che a volte davvero disturba soprattutto quando Godzilla è in movimento ma è davvero poca cosa rispetto alla maestosità intellettuale di tutta la produzione. Shin Godzilla è dunque un film che va capito e messo nel contesto della produzione e della cultura giapponese, tanto è lontano dagli standard occidentali. Ma, oltrepassando questo minuscolo ostacolo, ci si trova davanti un'opera di rara potenza visiva che offre ai fan un grande ritorno, da troppo tempo atteso. Voto: 6,5
E' possibile realizzare un noir sullo sfondo dei delicati eventi sociopolitici che hanno portato alla rivoluzione egiziana del 2011? Per il regista Tarik Saleh la risposta è affermativa e questo suo film ne è la prova. Vincitore del World Cinema Grand Jury Prize al Sundance 2017, Omicidio al Cairo è un neo-noir misterioso ed enigmatico che, svolgendosi appunto a ridosso della rivoluzione egiziana del 25 gennaio 2011, intreccia la storia di un giovane poliziotto con i fatti realmente accaduti durante i moti della Primavera Araba. La pellicola, prodotta in Svezia, vede l'attore libano-svedese Fares Fares (noto a livello internazionale per Zero Dark Thirty, Safe House e Rogue One: A Star Wars Story) nelle vesti di Noredin, poliziotto corrotto del Cairo a cui viene affidato il primo grande caso: l'omicidio di una famosa cantante, compiutosi in una camera dell'Hotel Hilton. L'indagine viene, prontamente, bollata come "suicidio", questa sentenza arbitraria non verrà accettata dal protagonista che, per una volta, andrà alla ricerca della verità contro il volere dei superiori, in particolare dello zio, capo della polizia (Yassar Ali Maher). Noredin si "perderà" ben presto all'interno di un complesso e quanto mai aberrante sistema politico/giudiziario che giungerà al suo culmine con l'avvento della rivoluzione. Thriller e politica si intrecciano dunque nella trama di Omicidio al Cairo che, nonostante il titolo, è ben più di un giallo ben congegnato. Sebbene infatti la componente mistery sia ben cadenzata, la story-line legata all'inspiegabile assassinio lascia spesso spazio a spaccati quotidiani dell'Egitto dei primi anni Dieci, dove correzione e povertà regnano sovrane. Il lungometraggio di Tarik Saleh riesce difatti a mostrare le contraddizioni (affrontate dal regista attraverso l'utilizzo di una sottile ironia ma divengono, anche, motivo di dramma) che puntellano la grande metropoli de Il Cairo, che diventa un riflesso dell'intero mondo occidentale. Terra decadente ma tutt'altro che desolata, la capitale dello stato egiziano si delinea come una moderna Babele, popolata da loschi figuri che spesso indossano maschere di un'apparente e falso perbenismo. I singoli personaggi si trasformano di conseguenza in modelli di giustizia, immoralità e ambiguità, abili nel rispecchiare grazie alla loro universalità anche la quotidianità dello spettatore. In tal senso, a favorire la buona riuscita del film sono anche le interpretazioni dei protagonisti, sconosciuti in Italia ma abbastanza attivi in ambito internazionale (soprattutto uno). Ben calibrati sono poi gli influssi dei diversi generi cinematografici. Se come si è detto dal mistery si costruisce la struttura narrativa del progetto, anche le logiche del neo-noir vengono sfruttate in molteplici frangenti: improbabili detective e ingenue femme fatale si muovono sulla scena, ripensando e minando i dettami tipici del cinema hollywoodiano. Cineasta imprevedibile e dai tratti anti-canonici, Tarik Saleh gioca quindi con svariate iconografie, alternando diversi elementi ma legando le forme della narrazione ad una tradizionale consequenzialità causa-effetto. Ciò non è sicuramente un male, anche se, viste le pellicole da lui precedentemente dirette, un maggior grado di rischio sarebbe stato comunque gradito. Omicidio al Cairo può, dunque, dirsi un film riuscito? Non del tutto. Sebbene l'idea sia notevole la pellicola manca di atmosfera (essenziale nei noir) e (come anticipato prima) di uno stile registico ben preciso. Spesso, si ha la sensazione di assistere a scene documentaristiche, probabilmente, una scelta voluta che collide, inevitabilmente, con la natura della pellicola. Valzer con Bashir raccontava, in maniera eccelsa, le tensioni politiche di un preciso momento storico servendosi, però, di momenti altamente suggestivi. Ciò, non danneggia la storia che si vuole raccontare ma rappresenta un valore aggiunto, in particolar modo, all'interno di un film di genere. La psicologia dei personaggi, inoltre, risulta appena accennata: difficile immedesimarsi, soprattutto, nel protagonista. Quel che possiamo fare, è intuire o immaginare i suoi stati d'animo in base alle azioni e scelte da lui compiute. L'intento di intrecciare il dramma sociale con vicende più o meno fittizie, espone alcune sequenze al rischio di risultare forzate. Certe tematiche, invece, vengono persino abbandonate all'interno del plot. Nonostante queste pecche, ci troviamo al cospetto di un progetto davvero interessante, in grado di raccontare, attraverso un espediente narrativo, una realtà difficile e, purtroppo, attuale. E questa, è una qualità per cui il cinema si è, spesso, contraddistinto. Un progetto, un lungometraggio sfaccettato e stratificato che, con intelligenza e coerenza, rielabora appunto alcuni caratteri fondamentali del cinema, alla luce della storia socio-politica di uno stato e di un popolo ancora desideroso di rivalsa. Voto: 6+
Torna a 39 anni dalla sua prima uscita televisiva italiana il più famoso robot creato da Go Nagai, quel Mazinga Z che vedevo da bambino, e lo fa con un discreto film, ovvero Mazinga Z Infinity, film del 2017 diretto da Junji Shimizu. Ambientato 10 anni dopo la serie tv vede tutti i protagonisti cresciuti e maturati alle prese di nuovo con il Dott. Inferno e la sua squadra tornati per l'occasione da un altra dimensione deciso non tanto a conquistare il mondo quanto ad annientarlo per ricostruirlo ex novo. E così, tra mondi paralleli, multi universi e pensieri filosofici il film ci delizia con combattimenti spettacolari e con un Mazinga possente. Mazinga Z Infinity è tutto ciò che un amante dei robottoni possa desiderare. Incredibili e spettacolari battaglie mozzafiato contro orde di mostri meccanici, un'intrigante storia fantascientifica, il tutto condito da uno straordinario messaggio di fondo, capace di essere ricevuto da qualsiasi tipo di spettatore. Mazinga Z Infinity non è solo un film per i fan della prima ora, i quali però non potranno che godere delle numerosissime citazioni della serie (anche se in alcuni punti sono di difficile comprensione a chi è a digiuno con il mondo di Mazinga), inoltre, la pellicola non è solo un seguito della serie, ma un vero è proprio nuovo inizio, capace di catturare anche chi è digiuno di raggi fotonici. Insomma un film spettacolare, come l'aspetto tecnico, avvincente narrativamente (ne resteranno entusiasti gli amanti della fantascienza) che, parlando di umanità, di solidarietà, di responsabilità e soprattutto di crescita su tutti i livelli, si fa apprezzare. La magnifica capacità comunicativa di Go Nagai, unita al trascinante intrattenimento d'azione regalatoci da Junji Shimizu, rendono questo film un piccolo cult. A volerlo però giudicare attraverso uno sguardo critico, distaccato e cinico, Mazinga Z Infinity è l'ennesima operazione revival che segue l'impronta de Il Risveglio della Forza per rilanciare il franchise e che tratta la materia con distaccata (e furba) consapevolezza. Go Nagai, demiurgo del genere mecha, è stato coinvolto solo in fase promozionale nell'operazione e si è limitato a dare la sua approvazione al progetto in pre-produzione. Si gioca sul sicuro proponendo la collaudata fascinazione per il protagonista invecchiato costretto a tornare sul campo di battaglia ma si getta uno sguardo anche a quelli che potranno essere gli eroi della nuova generazione, vuoi perché Tetsuya è in procinto di diventare padre, vuoi per la presenza della misteriosa Lisa, nuova esponente del girl power. Non c'è nemmeno bisogno di scomodarsi ad inventare qualche nuovo villain quando puoi riproporre tutti quelli della serie animata in un colpo solo. Il restyling estetico è improntato al realismo, sia sul piano scenografico che sui dettagli mecha, gli elementi digitali sono ben amalgamati e non presentano stonature nel contesto in animazione classica, i movimenti di Mazinga, solenni nella serie originale, divengono qui rapidissimi a beneficio del ritmo dell'action. Il tono vira ad un divertito surreal-demenziale quando entrano in scena Boss Robot e le procaci, pruriginose MazinGirls. Oltre alla prevedibile retorica ecologista, la sceneggiatura propone dialoghi infarciti da pretestuose "supercazzole" fantascientifiche e qualche interessante riflessione filosofica conferendo maggior profondità ai personaggi. Insomma non tutto è perfetto, anzi, i combattimenti in verità, il sale del manga, ci sono ma non sembrano così esaltanti, la grafica però regge abbastanza bene e tutto sommato si tira fino alla fine senza grossi problemi. Voto: 6
Salto la parte cinematografica per fare gli auguri ai tuoi genitori e per esprimerti il mio plauso per il fatto che ti senta bene fisicamente e mentalmente :)
RispondiEliminaSono contento che possa aver contribuito anche la visita di Claudia.
Per le polemiche: calcio e politica sono inevitabilmente sempre fonti di discussione, sugli Oscar e Sanremo sono un po' sorpreso, ma temo che sia per l'andazzo di questi tempi: sui social bisogna fare la guerra per tutto :D.
Una volta il massimo della polemica per Sanremo era per i plagi dei brani, adesso vengono fuori le cospirazioni politiche.
Poi si scopre che radiofonicamente parlando ha vinto il pezzo migliore, che quello di Cristicchi quando passa alla radio addormenta e quello di Ultimo è già nella top ten dei "Non sopportabili" :D.
Nella mia personale top ten dei non sopportabili è entrata anche la Berte', classica canzone che fuori dal contesto di Sanremo, trasmessa duecento volte al giorno, diventa sgradevole :D (almeno per me).
Io invece avevo saltato la parte introduttiva per pudore, ma visto che hai calcato la mano, eccomi qui.
EliminaDai che magari a marzo ritorno, così diventa un mese bello a priori (oltre che per il compleanno). ;)
P.S. Auguri ad Angela e Domenico. Un bacione a tutti e 3. Anzi, pure a Nicola.
@Riccardo Lei contribuisce sempre nel rendermi la giornata più leggera, e grazie a te del plauso e gli Auguri ;)
EliminaInfatti sulla polemica mi riferivo al fatto che ormai qualunque cosa si dice e si fa c'è una polemica in attesa...alcune giustificabili, altre che sarebbe meglio evitare...
Sulle canzoni dico solo che Per un milione e Soldi ascolto con piacere, gli altri, top ten o meno, non li digerisco più :D
@Claudia Calcato la mano? Ho solo detto la verità ;)
Perché no? ci spero verrai nuovamente presto :)
p.s. Ok grazie :D
Non ne ho visto nessuno, ma forse avrei guardato "Una stagione da ricordare", anche se il regista è stato pessimo, come tu dici.
RispondiEliminaSai che da bambina provai ad iscrivermi a pallavolo? Ma niente, sono sempre stata negata con lo sport, e neanche questo faceva per me.
Voto Claudia sportiva: 3+. ;)
Credo di averlo letto da qualche o l'hai detto non ricordo, però conoscendoti non è così strano :P
EliminaOh santo dio sono già passati due anni da Mazinga Z film... mi pare comunque che il brand sia nato e morto lì.
RispondiEliminaTralasciando Red Land, zero proprio per i miei interessi, e quello sulla squadra sportiva (triste...), direi che voglio recuperare Orecchie.
Sono secoli che non vedo un film italiano così, grottesco e particolare^^
Moz-
Non so del brand, però il film è bello, anche perché nostalgico ;)
EliminaNeanche Godzilla ti acchiappa? Vabbè va, se vedi Orecchie allora va bene :)
Auguri ai tuoi .Vedrai che una bella sorpresa, prima o poi, ti arriverà!
RispondiEliminaGrazie! Spero prima che poi ;)
EliminaMi dispiace solo che tu non sia ancora riuscito a trovare un attimo per guardare Ogni giorno... ;)
RispondiEliminaPer adesso è nella lista nera, poi chissà ;)
EliminaLista nera? Addirittura?!?
EliminaTra i scartati di febbraio, poi se avrò tempo e voglia potrei entro fine anno recuperare qualcosa ;)
EliminaHo visto solo Shin Godzilla, che mi è piaciuto parecchio. Hideaki Anno forse dovrebbe dimenticare la depressione evangelioniana e darsi ai mostroni!
RispondiEliminaUn Godzilla diverso, ma la sua presenza fa sempre un certo effetto, e questo non solo grazie a lui, ma a chi lo "dirige" ;)
EliminaMazinga non è tra i miei preferiti ma una possibilità gliela voglio dare, anche se non sembra 'sto granché.
RispondiEliminaSe mi capita do una possibilità anche a Orecchie, di solito consigli bene i film italiani.
Neve nel profondo sud? Che culo! Qui niente quest'anno ☹️
Non era nemmeno uno dei miei preferiti prima di vederlo, tuttavia mi son divertito ;)
EliminaEffettivamente sui film italiani sono parecchio "cattivo", e se passano la sufficienza è già tanto, per cui sì :D
Profondo non tanto, e comunque abito in collina :)