Automata (Autómata) è un thriller fantascientifico del 2014, ambientato in un futuro apocalittico distopico. Il film è diretto da Gabe Ibáñez, con Antonio Banderas protagonista principale della pellicola. In un futuro prossimo (2044), il pianeta Terra e la sua superficie, è al centro di una progressiva desertificazione a causa dell'uomo. La razza umana, rintanata in malsani agglomerati urbani, è in piena lotta per la sopravvivenza, e vive in un ambiente divenuto ostile, in una terra regredita tecnologicamente e resa inabitabile da eccezionali tempeste solari, vaste lande desolate e inabitabili a causa proprio delle radiazioni, che prima hanno decimato gli uomini e poi li hanno costretti ad arroccarsi in megalopoli. Per combattere l'incertezza e la paura, e per supportare la condizione di una società in declino, la tecnologia ha creato il primo androide quantistico, l'Automata Pilgrim 7000. Ciò ha portato alla crescita esponenziale della ROC, la società leader nel campo dell'intelligenza robotica che ha stabilito protocolli di sicurezza utili a garantire sempre il controllo dell'uomo sulle macchine. Hanno due direttive inalterabili: non possono mettere a rischio nessuna forma di vita e non possono alterare se stessi in nessuna maniera. Ma disobbedendo alle leggi fondamentali che ne regolano l'attività (riferimento ad Asimov), e contravvenendo al rigido di protocollo di sicurezza integrato nella propria intelligenza positronica, i robot iniziano ad automodificarsi per poter sopravvivere indipendentemente dall'uomo. Come agente assicurativo per conto della ROC, Jacq Vaucan (Antonio Banderas), che ha il compito di indagare sui modelli difettosi di androide, sarà al centro di una specie di cospirazione. Durante una delle sue indagini infatti, scopre che alcuni robot si sono evoluti. Scopre che da qualche parte esiste qualcuno che sta modificando i robot per dargli una vita migliore. Ma il detective ben presto scoprirà i segreti e le vere intenzioni che si celano dietro l'Automata Pilgrim 7000 con profonde conseguenze sul futuro dell'umanità. Combattuto tra le responsabilità per la moglie incinta ed il desiderio di fuga verso l'Eden incerto di un Oceano sconosciuto e lontano, dovrà risolvere il suo caso in una lotta per la sopravvivenza contro gli spietati emissari della sua stessa compagnia decisi a celare le sconvolgenti ricadute di una verità scomoda e inquietante, diventando lui stesso oltre ai robot, una possibile minaccia per l'umanità.
E' innegabile che nel bagaglio intellettuale di Automata come già scritto c'è principalmente Asimov e il film non fa nulla per fingere che non sia così. Come le leggi, non esattamente quelle auree fissate dallo scrittore russo, ma che prendono le mosse dai medesimi principi per arrivare là dove solitamente ci si spinge quando si parte dal presupposto che le intelligenze artificiali non devono danneggiare l'uomo: che cosa succede se invece avessero dei motivi per farlo? Motivi simili a quelli che hanno gli uomini per danneggiare altri uomini. Ma anche la sua lentezza (uno dei suoi maggiori difetti), e non solo, è triste, desolato, fatalista, come può effettivamente essere un racconto che non fa dell'azione il suo punto di vista e che parte dell'antefatto che la vita sulla terra stia arrivando alla fine. Inoltre, il protagonista, che è il personaggio di Banderas, è un personaggio comune, quasi banale, che si trova al centro di eventi troppo grandi per lui. Da queste premesse sembrerebbe ovvio ma bisogna saper cogliere la sua filosofia. Filosofia che ricalca però un'opera del tutto simile (almeno nelle atmosfere) al mitico "Blade Runner", creando suggestioni del tutto vicine al vecchio grande capolavoro, ma non per questo sfigura, anzi, mi sembra che conservi una sua originalità, portando un nuovo punto di vista. Merito del regista, Gabe Ibanez, ex esperto di effetti visivi (l'aspetto migliore), che incrociando noir e fantascienza (come i classici degli anni '80), dimostra che non solo gli americani sanno fare validi film di fantascienza (questa è una produzione ispanico-canadese). Ha una trama sufficientemente coerente (ma non più di tanto), location azzeccate, regia e attori che danno una buona prova di se, a parte Melanie Griffith quasi invisibile e Banderas che nella seconda parte diventa fastidioso, prima calmo e riflessivo, poi comincia a scimmiottare diventando irritante. Il film, che inizia abbastanza bene, con 10 minuti di buon intrattenimento, diventa man mano leggermente monotono con un ritmo macchinoso, a metà film poi, nonostante alcune scene d'azione che sembrano ravvivare la pellicola (anche se non è questo il suo obbiettivo), tutto diventa scontato e prevedibile. Del film mi è piaciuta comunque l'idea di fondo, il messaggio diverso da altri, un semplice e copernicano messaggio umanista, quello di intelligenze artificiali che, invece di ribellarsi all'uomo come avviene quasi sempre nella fantascienza più o meno tecno-paranoide, decidono semplicemente di allontanarsene per vivere la loro vita, giudicando l'umanità oramai talmente irredimibile da non sprecarsi nemmeno a sottometterla. Bella infine l'idea di usare il meno possibile il digitale a favore di prototipi-marionette, con ottime inquadrature che valorizzano una produzione a basso costo. Nonostante poi una certa riflessione filosofica sulla natura umana e sullo sviluppo futuro dell'intelligenza artificiale, il film sicuramente onesto e apprezzabile, rimane però un po' piatto e poco emozionante. Come il finale, anche se tutto il resto della pellicola non è male. Forse cinematograficamente parlando non è uno dei migliori film di fantascienza che abbiamo visto ma, rispetto a questi (su tutti Blade Runner), incuriosisce ed è da apprezzare l'idea e l'audacia di voler "saltare il fosso". Discreto e più che intrigante, una bella sorpresa, da vedere per chi apprezza la fantascienza d'atmosfera, un film che gli appassionati del genere non possono perdere. Voto: 6+
Humandroid (Chappie in originale) non è il classico film di fantascienza, non siamo in un futuro distopico, non ci sono evidenti dubbi morali ed etici (alcuni però ci sono) tra umani e robot come nella precedente pellicola, anzi, qui siamo di fronte a qualcosa di unico ma non così eccezionale (anche se accattivante) come mi aspettavo. Questa pellicola del 2015, è stata scritta e diretta da Neill Blomkamp, che aveva esordito bene, benissimo con District 9, poi aveva messo le carte in tavola
col minore Elysium, qua è al suo minimo. Il film è un minestrone che
funziona poco e vale al massimo una visione alla tv. Humandroid infatti è un’opera centrifuga dove si getta tutto e tutti nel calderone: il tema della coscienza come materia tangibile, la socializzazione alla violenza, l'umanesimo della macchina, l'immortalità. I riferimenti, tematici ed estetici, sono ovviamente molteplici, alti e bassi: dai più ovvi RoboCop a Corto circuito. Mancano pensiero, direzione, un'idea di cinema, sì robusto e energetico che sa coattamente intrattenere, ma anche irritare in certi frangenti. Humandroid è ambientato in un futuro (molto) prossimo (2016..) e precipitato nei bassi fondi di Johannesburg, assediata da bande criminali. Per fare fronte al numero di aggressioni, omicidi, regolamenti di conti e rapine a mano armata che sconvolgono la città, le autorità di polizia 'ingaggiano' una brigata di robot umanoidi costruiti dalla società Tetravaal e ideati da Deon, giovane ingegnere indiano che da tempo lavora sull'intelligenza artificiale. Ma il sogno di Deon di dotare le sue creature di una coscienza è osteggiato da Michelle Bradley (Sigourney Weaver), presidente dell'impresa interessata soltanto al profitto e da Vincent Moore (il bad guy Hugh Jackman, leggermente fuori forma e non tanto brillante), ex militare esaltato e ostile che vorrebbe boicottare i robot a favore di una macchina da guerra manovrabile dall'uomo (come quasi Real Steel). A complicare il progetto di Deon interviene poi un gruppo di gangster naïf, interpretati dai membri di un gruppo rap locale (i Die Antwoord), che dopo averlo rubato e programmato, anche da lui, decidono di adottare e ad addestrare Chappie, l'umanoide intelligente (primo robot in grado di pensare e decidere autonomamente) e perfezionato che deve imparare a vivere come un bambino, che viene al mondo pieno di promesse, e che come ogni altro bambino Chappie dovrà farsi strada nel mondo con il cuore e con l'anima, tra influenze buone e cattive, per trovare la sua strada e diventare un uomo. Ma ambizioni, mire ed egoismi personali annulleranno la pace armata faticosamente conquistata sulle strade. Chappie è un robot, il primo robot capace di pensare e provare emozioni, ed è proprio per questo che in molti vorrebbero fosse l'ultimo della sua specie, in lui, alcune forze distruttive vedono un pericolo per
l'intera umanità e per l'ordine sociale da distruggere prima che sia
troppo tardi.
Neil Blomkamp concepisce e realizza un'opera che, sebbene ed inevitabilmente influenzata dalla letteratura del genere, è un assalto frontale. Magari a tratti sgangherato, disordinato e confusionario, con troppa roba dentro (inclusa una sprecata Sigourney Weaver in un ruolo insignificante), e "strano" (qualunque sia il senso che ognuno può dare al termine), ma vivo e vitale, pensante. Sguardo personale, personalissimo, rivolto con incoscienza e un pizzico (e più) di vivida follia a un immaginario infettato/influenzato da quei pazzoidi dei Die Antwoord, "genitori" gangsta sui generis, che ipnotizzano con i lori modi e canzoni (cantate in "bambinesco") che spiazzano e affascinano ma che irritano non poco anche come attori. Pessima la loro recitazione, lei bellissima per carità, lui rappresenta quell'atmosfera di ghetto, che osteggiano Chappie nei panni, nei gesti e nel vocabolario gergale di banditi scadenti che corrompono la lirica metafisica della sua anima, come qualunque essere umano senziente che vive nel ghetto. Chappie, robot con tratti da cartone animato (alcune parti della testa che si muovono come le nostre sopracciglia e le orecchie che rivelano i sentimenti come nei cani), è senza dubbio il personaggio più simpatico e profondamente 'umano' del film che prende coscienza di sé e della sua condizione mortale. Composto di titanio e 'acceso' da un software, scopre la sua vulnerabilità e la sua batteria a carica limitata, conducendo il film verso la favola esistenziale. Difatti il film è fantascienza che predilige nettamente il fantastico allo scientifico, una che rifiuta ogni possibile base tecnica e plausibile per spalleggiarsi con il favolistico. Favola che a questo giro ha il sopravvento sulla parabola politica. L'action impegnato cede il passo alla riflessione filosofica e si interroga sull'intelligenza artificiale, fornendo una risposta ottimista che anticipa l'emancipazione dalla carne e il ricollocamento della coscienza in una chiavetta USB. L'idea efficace e ambiziosa è tuttavia bizzarra (rapisce ma perde energia andando avanti), sbandando tra gore e mélo, tra thriller e atmosfere ludiche da serie B. Certo, è un casino, ma non si può non amare questo film, uno dei titoli più apertamente sentimentali (e con più cuore e palle) degli ultimi anni. Perché personalmente questo film mi è piaciuto davvero, mi immaginavo qualcosa di più scontato come Automata (ancora più scontato di questo) invece la trama è decisamente non-convenzionale, parte un po' lentamente poi si sviluppa in modo articolato diventando mano a mano sempre più interessante, una giusta dose di azione ed effetti ma anche una bella trama. Senza voler spoilerare penso che un finale meno "happy ending" avrebbe dato un taglio molto più riflessivo, ma nel cinema odierno pare impossibile finire con meno di "vissero tutti felici e contenti", però almeno il film esce dagli stereotipi dei fumetti e degli eroi teenager e pone, come deve fare la vera fantascienza, domande sociali e personali oltre ad offrire uno spaccato credibile di una futuribile società umana. Il film contiene alcune macroscopiche incongruenze ma mi sento di scusarle perché alla fine la visione nel suo insieme lascia un senso di soddisfazione che non provavo da un po', per un prodotto almeno quel poco diverso dagli altri da renderlo interessante. Humandroid non punta ad indignare ma ad intenerire, forse commuovere, girando dalle parti del prevedibile ma nel finale tuttavia accade qualcosa di inusuale, in un ribaltamento che ricorda moltissimo la parte migliore di District 9 emerge il cuore di un film che ci ha messo quasi tutta la sua durata per scrollarsi di dosso il desiderio di andare incontro ai gusti del pubblico ad ogni costo. Benché con il suo corpo di metallo e testa di bambino il robot Chappie somigli a molti altri androidi dal cuore tenero, nel finale Humandroid ha il coraggio di sfruttare il genere cui appartiene e gli assunti di base della propria storia per dire qualcosa di più onesto con le immagini. Un film bello ed intrigante nonché divertente. Consiglio la visione a tutti anche solo per vedere questa interpretazione della fantascienza di Neil Blomkamp. Voto: 6,5
Neil Blomkamp concepisce e realizza un'opera che, sebbene ed inevitabilmente influenzata dalla letteratura del genere, è un assalto frontale. Magari a tratti sgangherato, disordinato e confusionario, con troppa roba dentro (inclusa una sprecata Sigourney Weaver in un ruolo insignificante), e "strano" (qualunque sia il senso che ognuno può dare al termine), ma vivo e vitale, pensante. Sguardo personale, personalissimo, rivolto con incoscienza e un pizzico (e più) di vivida follia a un immaginario infettato/influenzato da quei pazzoidi dei Die Antwoord, "genitori" gangsta sui generis, che ipnotizzano con i lori modi e canzoni (cantate in "bambinesco") che spiazzano e affascinano ma che irritano non poco anche come attori. Pessima la loro recitazione, lei bellissima per carità, lui rappresenta quell'atmosfera di ghetto, che osteggiano Chappie nei panni, nei gesti e nel vocabolario gergale di banditi scadenti che corrompono la lirica metafisica della sua anima, come qualunque essere umano senziente che vive nel ghetto. Chappie, robot con tratti da cartone animato (alcune parti della testa che si muovono come le nostre sopracciglia e le orecchie che rivelano i sentimenti come nei cani), è senza dubbio il personaggio più simpatico e profondamente 'umano' del film che prende coscienza di sé e della sua condizione mortale. Composto di titanio e 'acceso' da un software, scopre la sua vulnerabilità e la sua batteria a carica limitata, conducendo il film verso la favola esistenziale. Difatti il film è fantascienza che predilige nettamente il fantastico allo scientifico, una che rifiuta ogni possibile base tecnica e plausibile per spalleggiarsi con il favolistico. Favola che a questo giro ha il sopravvento sulla parabola politica. L'action impegnato cede il passo alla riflessione filosofica e si interroga sull'intelligenza artificiale, fornendo una risposta ottimista che anticipa l'emancipazione dalla carne e il ricollocamento della coscienza in una chiavetta USB. L'idea efficace e ambiziosa è tuttavia bizzarra (rapisce ma perde energia andando avanti), sbandando tra gore e mélo, tra thriller e atmosfere ludiche da serie B. Certo, è un casino, ma non si può non amare questo film, uno dei titoli più apertamente sentimentali (e con più cuore e palle) degli ultimi anni. Perché personalmente questo film mi è piaciuto davvero, mi immaginavo qualcosa di più scontato come Automata (ancora più scontato di questo) invece la trama è decisamente non-convenzionale, parte un po' lentamente poi si sviluppa in modo articolato diventando mano a mano sempre più interessante, una giusta dose di azione ed effetti ma anche una bella trama. Senza voler spoilerare penso che un finale meno "happy ending" avrebbe dato un taglio molto più riflessivo, ma nel cinema odierno pare impossibile finire con meno di "vissero tutti felici e contenti", però almeno il film esce dagli stereotipi dei fumetti e degli eroi teenager e pone, come deve fare la vera fantascienza, domande sociali e personali oltre ad offrire uno spaccato credibile di una futuribile società umana. Il film contiene alcune macroscopiche incongruenze ma mi sento di scusarle perché alla fine la visione nel suo insieme lascia un senso di soddisfazione che non provavo da un po', per un prodotto almeno quel poco diverso dagli altri da renderlo interessante. Humandroid non punta ad indignare ma ad intenerire, forse commuovere, girando dalle parti del prevedibile ma nel finale tuttavia accade qualcosa di inusuale, in un ribaltamento che ricorda moltissimo la parte migliore di District 9 emerge il cuore di un film che ci ha messo quasi tutta la sua durata per scrollarsi di dosso il desiderio di andare incontro ai gusti del pubblico ad ogni costo. Benché con il suo corpo di metallo e testa di bambino il robot Chappie somigli a molti altri androidi dal cuore tenero, nel finale Humandroid ha il coraggio di sfruttare il genere cui appartiene e gli assunti di base della propria storia per dire qualcosa di più onesto con le immagini. Un film bello ed intrigante nonché divertente. Consiglio la visione a tutti anche solo per vedere questa interpretazione della fantascienza di Neil Blomkamp. Voto: 6,5
Humandroid è stata una piccola delusione, onestamente mi aspettavo di più. Ottimo Automata invece, proprio un bel recupero!
RispondiEliminaA me invece al contrario, mi aspettavo qualcosa in più su Automata rispetto a Humandroid che comunque qualcosina in più doveva esserci. In ogni caso, discreti tutti e due ;)
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