L'estate è ufficialmente cominciata pochi giorni fa, e sicuramente il caldo ancor si sentirà, per parecchio sfortunatamente sarà. Ma lamentarsi non si può e non si deve però, perché anche se in casa sauna è, a settembre o più in là forse igloo sarà, quindi che parli a fa? Io di certo sto tranquillo, il caldo l'ho sopporto (anche se fino ad un certo punto) e non dico niente, una cosa solo dico, che all'onomastico io ci tengo. Onomastico che domani sarà, che arriverà dopo Antonio, Vito e Giovanni (a tal proposito tanti auguri passati a chi non ho dato), ma anche Paolo sarà insieme a Pietro. Ah Pietro, chi ancora non sa, tra tre settimane o poco più, questo mio mondo quattro anni farà, e festa sarà. Una grande festa in cui verrà svelato finalmente il mio progetto, progetto che a conclusione arriverà, anche se non tutto terminerà già. Ma a questo poi si penserà, nel frattempo io sempre continuerò a proporvi novità, tra tag, musica e cinemà. Non vi resta quindi che aspettà, tanto il tempo veloce passerà.
venerdì 28 giugno 2019
Gli altri film del mese (Giugno 2019)
giovedì 27 giugno 2019
I peggiori film del mese (Giugno 2019)
Sono anni ormai che non vedo più film per la tv, fatti apposta per la televisione, a tal proposito li evito praticamente tutti (tranne alcuni della HBO) e in tal senso neanche li prendo in considerazione non solo per la classifica finale dei migliori o dei peggiori ma anche tra i film della lista dei scartati, ma in questo mese è capitato di vederne uno, poiché intrigato dal titolo e dalla trama, Deliverance Creek - Solo per vendetta che, ambientato verso la fine della guerra civile racconta le vicende di Belle Barlow che si trova ad affrontare delle incertezze quando cerca di difendere la terra della sua famiglia con qualsiasi mezzo, e una banca corrotta che gestisce la città, spinge Belle di diventare un fuorilegge, purtroppo però è stata una mezza (e più) delusione. Mi aspettavo un western alla Sweetwater (molto simile è lo script), un film che tempo fa mi sorprese per la sua "onestà", e invece mi sono ritrovato un film abbastanza insipido. Un film che tra dramma bellico ed heist movie, con annesso triangolo amoroso, mi ha lasciato un senso di insoddisfazione molto forte. Di certo non meno acuito da un finale troncato a metà. Un finale che ha un suo perché, esso come il film stesso era il preludio di una serie drammatica, giacché prodotto dalla Lifetime, questo film in costume tratto da un best seller di Nicholas Sparks serviva da backdoor pilot, tuttavia la serie in questi cinque anni (il film è infatti datato 2014) non è stata più prodotta, e quel finale senza degna conclusione è rimasto. E insomma è stato un grosso errore che ora però non farò mai più, film per la tv addio.
mercoledì 26 giugno 2019
Duel (1971)
Tema e genere: Scritto dal grande scrittore e sceneggiatore statunitense Richard Matheson e diretto da un allora ventiquattrenne Steven Spielberg, Duel è un thriller on the road d'alto effetto.
Trama: Il rappresentante David Mann si sta recando in automobile da un cliente. L'autista di un'autocisterna che lo precede invita David al sorpasso, a sua volta poi lo supera a velocità sostenuta. A poco a poco il "gioco" si trasforma in una caccia all'uomo dagli intenti chiaramente omicidi.
Recensione: Come ben sapete Steven Spielberg è il mio regista preferito, fin dai tempi di quando vidi per la prima volta Lo Squalo, e da lì in poi non mi sono perso un film (a parte 1941 - Allarme a Hollywood), tuttavia non avevo ancora mai visto, anche se ho sempre conosciuto e saputo di questo film, il suo film d'esordio, ovvero Duel. E così, approfittando di un passaggio televisivo su Sky Cinema, l'ho finalmente visto, e quello che ho visto è stato incredibilmente fantastico. Perché in Duel, che di per sé è un film di grande rilevanza, Steven Spielberg, qui poco più che ventenne, dimostra già di che pasta è fatto mettendo in scena un film fatto quasi esclusivamente di montaggio e regia frenetica. Un film emozionante che inchioda lo spettatore davanti lo schermo dall'inizio alla fine, senza scampo. Un film per l'epoca molto originale, talmente efficace da dare la stura a tantissimi tentativi d'imitazione. Un film che, girato in breve tempo, inizialmente nato come TV movie, fu poi allungato di un quarto d'ora, che divenne a tutti gli effetti un prodotto cinematografico nel 1973, davvero eccezionale. Un film giustamente divenuto all'epoca, ma anche adesso, un vero e proprio cult, soprattutto perché è questo il film che ha lanciato (per fortuna nostra) la carriera del geniale regista statunitense verso grandi successi di critica e di pubblico, a partire proprio da Lo squalo, girato 4 anni dopo. E questo nonostante non sia in verità Duel un film perfetto, anzi, è quasi del tutto privo di dialoghi e presenta tanti piccoli errori, però sembra incredibile il risultato ottenuto da Spielberg, che riesce a trasformare una banale situazione, portandola alle estreme conseguenze, con profondi risvolti metaforici, in un'opera di rara efficacia tensiva. Un'opera prima già matura quindi, che propone uno Spielberg diverso da quello successivo dei blockbuster e dimostra la padronanza del linguaggio (ha sempre avuto un grandissimo senso dello spazio) da parte del regista e la capacità di andare oltre le limitazioni del genere. Ed è davvero singolare che un ragazzotto ventiquattrenne esordisca al cinema con un'opera così matura, che nel tessuto d'un classico road-movie USA riesce ad innervare una sotto-trama palesemente e potentemente metafisica. Certo i meriti vanno divisi col leggendario Richard Matheson, qui autore della sceneggiatura, tuttavia Spielberg riesce nell'impresa di assemblare un elettrizzante lungometraggio da una materia narrativa che tra le mani d'un onesto mestierante avrebbe retto forse mezz'ora. Senza una vera e propria trama, dopotutto la storia è la più semplice del mondo, dopo un alterco per motivi di viabilità, un camionista comincia a perseguitare l'autore del presunto torto, comincia così un tallonamento che diventa a poco a poco una vera e propria persecuzione senza esclusioni di colpi, questo film ha la sua forza nel dramma psicologico che vive un pacifico autista per le strade deserte di un'America polverosa. Il protagonista trasmette tutta l'ansia allo spettatore, e l'invenzione del guidatore che non si vedrà mai, farà davvero epoca. Ed ecco che il regista di capolavori assoluti ci sazia con un film che è tensione e adrenalina pura. Un film di regia dove conta molto il montaggio, spesso serrato nelle sequenze di inseguimento automobilistico che si trasformano in incubo metafisico, le angolazioni della macchina da presa e il ritmo delle sequenze.
martedì 25 giugno 2019
Le altre serie tv (Aprile/Maggio/Giugno 2019)
Tema e genere: I tredici episodi conclusivi della serie televisiva statunitense di genere fantascienza distopica e crime drama, formano una monumentale parabola morale in salsa action (botte, sparatorie ed esplosioni non si contano) che tocca temi raramente sviscerati nelle serie, e raramente accessibili a quelle di network, è, infatti, una riflessione sulla rinuncia del proprio diritto alla privacy in cambio di una millantata sicurezza e sull'abuso che ne fanno i governi, una speculazione postumanista sulla possibilità o meno che le intelligenze artificiali possano sviluppare autocoscienza e umanità (e in cosa quest'ultima si definisca), un processo alla nostra specie e sul fatto che questa meriti o meno di essere salvata, e una disamina della paternità e di quali diritti e doveri comporti nei confronti di colui/colei a cui si è data la vita.
Trama: La stagione conclusiva segue Finch, Reese, Root, Shaw e Fusco organizzarsi per lo scontro finale con Samaritan, il supercomputer nemesi della Macchina (che altri non è che una versione edulcorata di Skynet).
Recensione: Person of Interest non è mai diventata la mia serie preferita, non ci è andata neanche vicino. Eppure in questi anni (nel mentre che vedevo altro), nel suo angolino seminascosto, è riuscita ad elevarsi dallo stagno del puro intrattenimento per tentare qualche passo più ardito, qualche ragionamento più significativo, riuscendoci. Riuscendo a tenere alta l'attenzione nonostante gli anni, ho recuperato la quarta solo mesi fa (qui la recensione) ma è stato come la prima volta, riuscendo ogni volta a far riflettere, visto i temi di grande importanza che l'hanno sempre contraddistinta, lo spettatore. In questo senso, la forma seriale ha dato una grandissima mano al progetto: concepire la storia di una Macchina nata per essere niente più di uno strumento di controllo preventivo, per farla diventare un'intelligenza che potesse addirittura amare e che meritasse di essere amata, avrebbe avuto sicuramente un impatto diverso se tutto il racconto si fosse esaurito nello spazio di un film (e di storie di questo tipo la fantascienza è comunque piena). La narrazione seriale, però, ha consentito uno sviluppo graduale della storia, esponendola al rischio della noia e della stagnazione, ma garantendole il tempo necessario affinché l'evoluzione dei personaggi (umani o no) riuscisse a essere davvero verosimile ed emozionante, pur nel contesto inevitabilmente futuristico. Ed è così che giungiamo alla quinta ed ultima stagione di Person of Interest, serie partita un po' in sordina, e comunque rimasta di nicchia anche negli anni, ma che ha dato tantissime soddisfazioni a chi ha proseguito nella visione fino al suo series finale. La serie infatti ha un po' faticato all'inizio, ma poi sviluppandosi ed approfondendosi sempre più, ha creato un intreccio che ha saputo regalarci ogniqualvolta una storia avvincente, colpi di scena grandiosi, morti eccellenti, riflessioni su etica e moralità, personaggi a tutto tondo ed interazioni tra loro realistiche ed emotivamente coinvolgenti, con attori bravi e sempre in parte. Tutto ciò immerso in una trama in cui niente è mai stato lasciato al caso e tutto è sempre stato ben analizzato e ponderato. E com'è ovvio la quinta stagione non si è discostata da queste caratteristiche. Nei primissimi episodi assistiamo alla lenta rinascita della macchina dopo la sua quasi distruzione nel finale della quarta stagione e vediamo i suoi sostenitori riunirsi per continuare a combattere per lei. Reese, Finch e Root ci hanno messo davvero poco a ritrovarsi, mentre per Fusco e Shaw il percorso è stato più lungo. Comunque dopo tante peripezie, i nostri trovano un virus che potrebbe eliminare il grande avversario, ma potrebbe anche far sparire per sempre la Macchina. Corrono tuttavia il rischio e ciò si rivela la mossa migliore, anche se per fare ciò non rinunceranno solo a qualcosa, ma perderanno qualcuno.
lunedì 24 giugno 2019
Unsane (2018)
Tema e genere: Unsane è la nuova sfida al Cinema di Steven Soderbergh, uno psycho-trhiller claustrofobico, teso ed angosciante, un film girato in modo e in una tecnica non del tutto standard.
Trama: Una giovane donna vittima di stalking si rivolge a una specialista, ma si ritrova suo malgrado rinchiusa in una clinica psichiatrica, dove farà un'orribile scoperta.
Recensione: Unsane è un esperimento decisamente particolare, un film che il regista Steven Soderbergh ha realizzato con un budget limitato girando in poco tempo con vari iPhone. Un film girato con il cellulare non è che sia la novità più assoluta, si è già visto da qualche parte, la particolarità di Unsane è però quella di essere il primo film girato in questo modo per una precisa scelta stilistica e non per restrizioni di budget. Unsane infatti, che ha, grazie all'uso di cellulari per la ripresa, che deformano la percezione soggetto-sfondo, un approccio visuale versatile e coinvolgente, riesce proprio per questa scelta stilistica a trasmettere il senso di impotenza della protagonista, entrata in una spirale degenerativa che assottiglia sempre di più il confine tra sanità mentale e follia. E difatti il film risulta profondamente inquietante pur senza far mai realmente paura e consente allo spettatore una profonda identificazione con la protagonista e le sue paure, e più in generale con il tema dell'opera: non siamo più capaci di un contatto umano reale, tra noi e l'altro c'è sempre di mezzo uno schermo, l'amore diventa ossessivo e i rapporti di amicizia impossibili. Non è un caso che il film parta come una farsa kafkiana, si trasformi in un'acida satira politica e poi si tuffi a capofitto nel thriller psicologico, per culminare infine in una mescolanza organica di tutte e tre le cose. E al centro un'aspra critica al sistema sanitario statunitense, ma anche e soprattutto la rivalutazione di una femminilità che è disposta a tutto pur di trarsi in salvo: sotto-testo costante una riflessione sui social-media contemporanei. Qui infatti, e non per caso, l'uso dell'iPhone per le riprese riecheggia il fulcro del film: in una contemporaneità in cui sembra impossibile non riuscire a mettersi in contatto con la persona che si desidera, in cui quindi uno stalker diventa una presenza ineludibile e onnipresente, in grado di raggiungere ovunque la propria vittima, l'ossessione è l'unico scenario possibile. La possibilità che da persecutore digitale (sui profili Facebook o Instagram, come sottolinea Matt Damon nel suo interessante cammeo) il carnefice si trasformi in una sagoma ubiqua anche all'interno dello spazio reale è tutt'altro che fantasiosa, più concreta che mai. Allora la scelta del dispositivo mobile specchia il tema centrale di Unsane: la tragica facoltà di un incubo digitale di affiorare all'interno di uno spazio tangibile (per giunta istituzionalizzato). Insomma un film sociologico e teorico che riflette sul mezzo per riflettere la società. Il regista infatti riesce a cogliere e raccontare con grande efficacia l'incredibile solitudine dell'uomo contemporaneo, anche grazie ad un'ottimo volto per queste paure, a Claire Foy, star della serie Netflix The Crown, protagonista assoluta e incarnazione della paura e della solitudine del mondo di adesso. Peccato che ogni tanto qualcosa si inceppi a causa di una sceneggiatura che si avvita nei troppi finali e che non sempre è all'altezza dell'intelligenza della regia.
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venerdì 21 giugno 2019
Hereditary - Le radici del male (2018)
Tema e genere: Presentato al Sundance Film Festival (nel 2018), Hereditary - Le radici del male è un dramma familiare dalle tinte cupe diretto da Ari Aster, al suo primo lungometraggio.
Trama: In vita, Ellen (nonna tanto amata quanto odiata da sua figlia) si dedicava a misteriose pratiche spiritiche. Con la sua morte, la famiglia inizia a fare esperienza di una serie di eventi terrificanti, e sfuggire all'oscuro destino che da lei hanno ereditato non è facile.
Recensione: Si fa fatica oramai a contare quanti film horror escono ogni anno, di horror mascherati da film drammatico, o viceversa, ancora di più, così come quelli a tema possessione demoniaca. Hereditary – Le radici del male però (un film senza dubbio particolare), è altro, è un film molto ambizioso, con elementi magari che non funzionano al meglio, ma che sicuramente porta una ventata d'aria nuova al genere. Dalla trama e dal trailer si potrebbe pensare infatti alle classiche storie di case infestate da spiriti, fantasmi e, quindi, tornano alla mente tanti film simili degli ultimi anni. Non è un caso che il film abbia tutti gli elementi che caratterizzano il genere: una famigliola all'apparenza felice ma con qualche segreto di troppo, una morte improvvisa (quella della nonna, in questo caso) che costringe i protagonisti a scavare nel loro passato, perfino una casa isolata in mezzo al bosco. Ma come detto, questa non è la classica storia, il classico film del suo classico genere. Soprattutto perché rifugge i cliché e abbandona il Jumpscare (o lo riprende solo in piccole dosi) a favore invece dell'atmosfera, del disagio, dell'eleganza della messa in scena dark, del tema, sbattendo in faccia allo spettatore senza problemi citazioni svariate e un certo autocompiacimento. Certo, l'inizio, la storia, si apre come al solito presentandoci il delicato equilibrio familiare: una nonna invadente in modo inquietante, una coppia di nipoti non perfettamente integrati, due genitori che provano a tenere in piedi questo precario castello di carte. Certo, l'improvvisa dipartita della nonna darà il via (presumibilmente) a una serie di accadimenti che porterà terrore e scompigli nei protagonisti, in una spirale che a tratti più che il tema horror sembrerà sfiorare il filone sfiga estrema. Ma è proprio da qui che il film comincia a percorrere vie sempre più imprevedibili ed inquietanti, colpendo dritto allo stomaco ed affascinando. Sì perché intriga e avvince lentamente quest'ipnotica opera prima del giovane regista statunitense Ari Aster, reputata dalla critica uno dei migliori film horror della stagione 2018. Un'opera dall'aspetto angosciante e misterioso, non per caso le cifre caratterizzanti di questo horror che racconta di una famiglia in lutto che sembra aver ereditato una sorta di oscura maledizione. Un horror girato con estrema perizia, con movimenti di macchina fluidi e il più delle volte estremamente lenti, associati a una colonna sonora inquietante, che ci guidano tra le pieghe di una storia tragica dove l'horror si mescola al thriller psicologico. Un film che vive di atmosfere cupe e morbose (lo spiritismo è per lo più rappresentato come suggestione psicologica, quasi mai reso palpabile, sfruttato quindi per alimentare quella paura viscerale ed umana per ciò che non è comprensibile, timore che attanaglia i protagonisti e finisce per coinvolgere lo spettatore stesso) e di alcuni imprevedibili colpi di scena che tengono alta la curiosità fino alla fine. La trama in effetti (senza svelare niente, ma basti dire che l'horror sa lesinare effetti raccapriccianti e soluzioni esageratamente sanguigne, a maggior vantaggio di una tensione quasi sadica con cui la sceneggiatura si riesce a districare in modo esemplare, e pure insolito per un horror) va dipanandosi con gradualità e imbocca dei sentieri imprevedibili, soffermandosi sul puro dramma nella prima parte, per poi attingere al paranormale e sfociare in un finale tanto enigmatico (più o meno) quanto inquietante (più o meno) ed originale (più o meno). Più o meno perché Hereditary – Le radici del male, partendo dal dramma familiare, tocca sì i temi del misticismo e dello spiritismo per portare alla luce la paura viscerale dell'ignoto, che arriva però ad assumere alla fine una forma fin troppo definita.
giovedì 20 giugno 2019
Le mie canzoni preferite (Maggio/Giugno 2019)
Il momento sta per arrivare, anzi, è già cominciato (il tempo dei tormentoni) ed io la Ferreri e J-Ax già non li sopporto più, e mancano ancora tre mesi alla fine dell'estate, tre mesi come quelli che passeranno dal prossimo post, perché ad Agosto prima delle "ferie" programmate ci sarà la mia compilation anni '70, dopo quella dell'anno scorso inerente agli anni '80. Ma non precipitiamo le cose, prima di ciò infatti c'è questa lista, questa mia selezione di brani preferiti di questi ultimi due mesi, mesi passati dalla pioggia al solleone in un batter d'occhio, la primavera (maledetta primavera che fretta c'era?) praticamente non c'è stata. In compenso son sbocciati nuovi artisti ed altri son rifioriti, ecco chi (come sempre la playlist completa la trovate qui).
Ne sentiremo parlare dei The Chainsmokers in futuro, dei 5 Seconds of Summer non è la prima volta, anche qui,
questo il post, comunque collaborazione fruttuosa per entrambi con questo bel pezzo
questo il post, comunque collaborazione fruttuosa per entrambi con questo bel pezzo
Ogni tanto fa capolino, ed è sempre un piacere, lei è LP, che ora c'è con un brano stranamente "vecchio" di un anno,
e non mi spiego perché l'abbia ascoltato ed apprezzato solo adesso, vabbè poco importa
mercoledì 19 giugno 2019
Mary Shelley - Un amore immortale (2017)
Tema e genere: Tra biopic storico e dramma romantico/sentimentale in costume, il film si presenta come un'opera biografica atipica prendendo in esame una parte di vita specifica di Mary Shelley. Il film infatti, copre un arco di tempo che va dal primo incontro di Mary con Percy fino alla pubblicazione del Frankenstein, avvenuta nel 1818, e quindi si svolge tutto in funzione della storia tra i due.
Trama: Com'è ovvio, la pellicola perciò narra della relazione amorosa tra Mary e il poeta Percy, e gli anni successivi al loro travagliato rapporto, fino alla creazione da parte della Shelley del romanzo "Frankenstein".
Recensione: Dopo l'imperdibile La bicicletta verde, la regista saudita Haifaa al-Mansour torna a parlare di donne coraggiose con la storia d'amore tra la scrittrice Mary e il poeta Percy Shelley. Le vicende narrate vanno dalle origini dell'amore tra i due fino al 1818, anno della pubblicazione del capolavoro letterario Frankenstein, o il moderno Prometeo. Un altro dramma tutto al femminile, che fa della lotta per i diritti della donna il fulcro della sua narrazione, ma se la storia della piccola Wadjda in La bicicletta verde commuoveva per la freschezza con cui trattava anche il tema del femminismo in un contesto complesso come quello dell'Arabia Saudita, con Mary Shelley la regista confeziona un biopic in salsa romantica che le fa compiere invece un grosso passo falso. Conosciamo la giovane protagonista dall'animo inquieto ma sensibile in piena ribellione adolescenziale: affascinata dall'eredità di una madre scrittrice, colta ed emancipata ma troppo prematuramente scomparsa, la sedicenne Mary viene mandata dall'amorevole padre (editore e scrittore anch'esso) in Scozia, per un periodo di riflessione lontano dal caos londinese. Le buone premesse s'infrangono però con l'entrata in scena del bello e maledetto Percy Shelley, che in un attimo sembra trasformarla in un burattino in balia della pubertà. Dopo una fuga d'amore alquanto rocambolesca la giovane donna si traveste improvvisamente da anticonformista e femminista in cerca della rivendicazione dei suoi diritti. Presentato al Festival di Toronto e al Torino Film Festival, Mary Shelley gode certamente di un fascino indiscutibile, ma è raccontato secondo modalità convenzionali. Se la prima parte del film mostra il percorso di crescita di Mary e le sue relazioni personali, con tutti gli aspetti positivi e negativi del caso, e del suo legame con Percy Shelley, quasi sprofondando in un teen drama vero e proprio, è la seconda parte che riesce a rendere veramente l'idea di cosa ci sia dietro la realizzazione di Frankestein, o il moderno Prometeo. Il genio, l'anticonformismo, la lungimiranza e l'universalità. Ma anche e soprattutto la fermezza nel contrastare il bigottismo, lo smarrimento, i preconcetti. Peccato che il film si perda spesso nel didascalismo e che non si assuma nessun coraggio indagatorio oltre i confini della convezione narratologica, senza arrischiare di indagare più a fondo il preciso contesto scientifico come il galvanismo, i pensieri e le contraddizioni interiori di una giovane donna, che sono quelli anche di un giovane, suo malgrado, mostro. Siamo insomma lontani anni luce dalla profondità con cui nel ben più riuscito film precedente la regista abbracciava una riflessione sulla libertà dell'essere umano e sul suo desiderio di felicità: in Mary Shelley tutto sembra puntare sull'anticonvenzionalità di una donna "contro", la cui ribellione poggia su basi troppo fragili per essere credibile agli occhi dello spettatore. Le note più interessanti che escono da Mary Shelley – Un amore immortale (lezioso il sottotitolo italiano) sono il contrasto tra il desiderio di vivere un amore oltre le convenzioni sociali e la cupa realtà di un rapporto difficile, anche se il fulcro del film si concentra sul bisogno di trovare la propria ispirazione e su come la sofferenza nella vita possa fare da motore al processo creativo di un romanzo. Sul finale (sicuramente la parte più vitale e ritmata), il film di Haifaa al-Mansour fa coincidere la ricerca d'affetto e la solitudine della Shelley con la famosa creatura del suo romanzo, in un'operazione meta letteraria e cinematografica non troppo originale. Alla fine l'impressione generale è però quella di un film parecchio debole, dalla scrittura poco fluida e fin troppo schematico per temi e stili proposti. Male, ma non malissimo, ed è già tanto.
martedì 18 giugno 2019
[Cinema] Il film che...
E' apparso per la prima volta (tra i blog che seguo) nel blog L'ultimo Spettacolo, da quel momento si è sparso a macchia d'olio, passando da Sam Simon a Moz fino a finire (senza non prima passare da tutti gli altri che non seguo, almeno non al momento, tra questi GramonHill) nel blog di Vanessa, ma già sapevo che a questo Tag di stampo cinematografico non potevo sfuggire. E infatti eccomi qui a rispondere al alcune domande, ad un elenco di ricordi cinematografici. Niente che non abbia già fatto, così tante che ad alcune di queste domande ho già risposto però non importa (per coerenza risponderò alla stessa maniera), perché questo è sempre un modo come un altro per parlarvi della mia passione, e farlo è sempre bello. Perciò ecco qui i film che...
Il film che porterò sempre nel cuore
Ritorno al Futuro: Un mix perfetto di azione, divertimento, fantascienza e drammaticità.
Il film che amo, ma che forse conosco solo io
Due vite al massimo: La versione all'acqua di rose di Bonnie e Clyde, solo che il finale stavolta immeritato ti spezza il cuore.
lunedì 17 giugno 2019
Oltre la notte (2017)
Tema e genere: Vincitore del Golden Globe come miglior film straniero e rientrato nella cinquina dei nominati agli Oscar nella medesima categoria, Oltre la notte è un film durissimo sulla rabbia e la ricerca di vendetta che racconta la storia di una madre che a causa di un attentato terroristico perde sia il marito che il figlio ed entra in una spirale di dolore e autocommiserazione dalla quale potrebbe uscire solo trovando le persone responsabili del suo terribile lutto.
Trama: La vita della giovane moglie e madre Katja (Diane Kruger) viene stravolta improvvisamente da una bomba davanti all'ufficio del marito. La giustizia fa il suo dovere, la polizia arresta due sospetti, una giovane coppia neonazista, ma forse potrebbe non bastare.
Recensione: Il regista turco Fatih Akin torna (dopo una breve parentesi nel genere commedia con Tschick, film che tuttavia non ho visto) all'impegno civile e al dramma che più sono congeniali al suo stile attraverso una storia dolorosa di dannazione, odio, rabbia e rancore che vede protagonista una superba Diane Kruger. Egli infatti, dopo il bellissimo The Cut (Il padre), con Aus dem Nichts (da titolo originale) affronta una tematica sociale e, precisamente, quella dell'intolleranza razziale da parte di gruppi neo-nazisti sorti recentemente in Germania contro le minoranze etniche qui residenti. Il film difatti, che si ispira all'attentato di Colonia avvenuto nel 2004 da parte della cellula terroristica neonazista Nationalsozialistischer Untergrund (NSU), è un film drammatico e molto intenso, con un crescendo sempre maggiore di dolore sino al finale estremo spietato, crudo e quanto mai tragico. Un film intelligente che, partendo dall'attualità riesce a proporre un punto di vista credibile e originale. Dopotutto il dolore che questa madre e moglie si ritrova ad affrontare è uno dei più forti (e purtroppo non impossibili) che si possano immaginare. E tutto il film mostra come Katja (questo il suo nome) prova a stare di fronte a questo dolore. Prima passando attraverso la giustizia dello Stato e delle indagini, che presto portano a svelare l'ombra del neonazismo dietro la bomba e le morti innocenti di Nuri e Rocco (marito e figlio), poi con la vendetta, la giustizia privata, che sembra essere per lei l'unica via, perché incapace di dimenticare e tornare a vivere. In tal senso il regista è molto bravo a farci immedesimare nelle sofferenze della protagonista, facendo largo uso di primi piani e scene al rallentatore, ma anche usando una fotografia cupa e delicata allo stesso tempo, e sfruttando al massimo la potenza simbolica delle ambientazioni: non a caso il film, questo bel film di denuncia del regista tedesco di origini turche, è diviso in tre parti (la Famiglia, la Giustizia, il Mare) che rimandano ai tre luoghi in cui si svolge la vicenda, cioè la casa dei coniugi Sekerci, il tribunale e il litorale greco. Tre capitoli (elaborazione del lutto, le insostenibili fasi del processo e la tragedia) molto diversi tra loro per taglio registico e sapore narrativo, ma tutti caratterizzati da rara tensione ed efficacia. Anche la prova attoriale della Kruger è notevole, supportata però da ottimi attori di contorno. In particolare, è da segnalare l'agghiacciante figura dell'avvocato dei due giovani indagati (Johannes Krisch) e quella del padre di uno dei due (Ulrich Tukur). Poco riuscita invece la parte ben più rilevante del legale di Katja, interpretato da Denis Moschitto.
venerdì 14 giugno 2019
BlacKkKlansman (2018)
Tema e genere: Una surreale storia realmente accaduta nel Colorado degli anni Settanta che parla in realtà dell'America di oggi. La pellicola infatti, adattamento cinematografico del libro Black Klansman scritto dall'ex poliziotto Ron Stallworth, selezionata in concorso al Festival di Cannes 2018, tratta il tema del razzismo, ma in modo non affatto convenzionale.
Trama: Anni 70. Ron Stallworth, poliziotto afroamericano di Colorado Springs, deve indagare come infiltrato sui movimenti di protesta black. Ma Ron ha un'altra idea per il suo futuro: spacciarsi per bianco razzista e infiltrarsi nel Ku Klux Klan.
Recensione: Cattivo ragazzo del cinema "all black" per eccellenza, Spike Lee quando si tratta di mettere in pessima luce l'animo razzista che si annida nella sua America non la manda certo a dire, e con questa pellicola si ripete, una pellicola tratta da una "fott*ta storia vera", come recita la dicitura ad inizio visione. Una pellicola che non per caso è Spike Lee all'ennesima potenza, per forma e contenuti. Una pellicola in cui il regista ci mette dentro tutto, dando vita da subito (tramite un lungo monologo sulla supremazia della razza bianca, monologo straordinariamente interpretato da Alec Baldwin, che in modo goffo dimentica le battute) ad una satira politica dolceamara volta a dipingere l'idiozia del razzismo. Gli elementi centrali infatti, che vengono evidenziati, sin da questo inizio di film sono l'odio e la rabbia, incarnati dal razzismo che come un serpente, corrompe l'animo delle persone, sfruttando le loro paure, spingendole anche ad uccidere, creando così di conseguenza una radicalizzazione e impoverimento dei valori, all'interno della società. Una pellicola che quindi, attraverso l'ironia e una fedele rappresentazione di un'America anni settanta, divisa, riflette e interroga, ancora una volta lo spettatore, su una realtà come non mai, sempre più attuale. Che la piaga del razzismo sia ancora un problema di forte impatto e ancora presente nella nostra società è cosa ben nota difatti, e non è la prima volta che se ne parla in un film, ma il modo in cui ne parla il buon Lee con le sue opere è sempre materia d'interesse di non poco conto, scoprendo magari cose che al contempo si legano all'evoluzione di un'idea sbagliata annidata nella (in)coscienza di determinati soggetti. Per questo uno sguardo alla vicenda, vicenda che è quella vissuta dall'agente di polizia di colore Ron Stallworth, che nel pieno degli anni '70 più confusionali si infiltrò in un'organizzazione segreta affiliata al Ku Klux Klan. Bizzarro a sentirlo ma è proprio quello che successe, ed il buon Lee (per lui la vicenda qui narrata dopotutto è anche l'occasione per poter mettere in scena una trama poliziesca miscelata ai suoi principi ideologici di cineasta, cercando una via di mezzo tra l'intrattenimento, il senso del citazionismo e la voglia di ricordare che negli States il popolo di colore è sempre stato trattato, non male, ma malissimo) non ha potuto fare a meno di appropriarsi di questa cosa per trarne una graffiante storia permeata di una feroce satira. Nei panni del prode poliziotto troviamo l'attore John David Washington, figlio del ben noto Denzel, il quale con capigliatura cotonata ripercorre tutta l'indagine, dall'idea avuta da Stallworth nell'infiltrarsi in quell'organizzazione al momento di dover presenziare alle riunioni del Klan. Ed è qui che entra in scena un suo collega, l'agente di origini ebree Filp Zimmerman, interpretato da Adam Driver, il quale dovrà infiltrarsi fisicamente in mezzo a questi pazzi esaltati, razzisti e dediti all'orgoglio dell'uomo bianco. Tra discorsi al di fuori del comune, scontri ideologici tra bianchi e neri e un'insana venerazione di un certo cinema in bianco e nero, questa indagine porterà i suoi agenti nel bel mezzo di una follia che ancor oggi sembra prendere piede tra le più deboli menti popolari (come purtroppo ben sappiamo). Una follia ben contestualizzata e ben assestata dal regista che regala momenti memorabili. Se questi sono i pregi di BlacKkKlansman, il film nella parte finale disperde in parte la sua forza annacquando il sarcasmo con il macchiettiamo dei nazisti del KKK da un lato (un po' eccessiva mi è parsa infatti la ridicolizzazione dei vertici del Klan, che potrebbe far perdere di vista le atrocità di cui l'organizzazione si è resa protagonista), e con un alto tasso di retorica dall'altro (il lungo discorso del vecchio interpretato da Harry Belafonte, con tanto di duro attacco al razzismo del kolossal muto Nascita di una nazione di Griffith: il cui titolo originario era The Clansman).
giovedì 13 giugno 2019
The Equalizer 2 - Senza perdono (2018)
Tema e genere: Torna il superagente Robert McCall, ovvero il personaggio interpretato da Denzel Washington in The Equalizer – Il vendicatore, film tratto dalla serie tv Un giustiziere a New York, creata da Michael Sloan e Richard Lindheim, di cui questo è il sequel.
Trama: Robert McCall, ex agente delle CIA in pensione, è impegnato a riportare l'ordine e la giustizia nella decadente Boston. Il passato che ha cercato di lasciarsi alle spalle tornerà prepotente a bussare nella sua vita quando Susan, sua amica e coordinatrice, viene assassinata. Gli toccherà quindi rientrare in scena per rintracciare ed eliminare chi ha osato fare del male alla sua amica più fidata.
Recensione: Attendevo questo seguito con trepidazione, perché ho adorato particolarmente il primo capitolo. Mi aveva colpito il personaggio, un uomo d'altri tempi, così eccezionale nella sua normalità: serio, tranquillo, educato e con un grande senso di giustizia. Sempre pronto a fare la cosa giusta. Non un giustiziere, ma una persona semplice, che aiuta gli altri senza gesti plateali ma con umanità e, dove necessario, dura risolutezza. Un eroe nella vita di tutti i giorni pronto a mettere in gioco le proprie capacità non comuni quando è in gioco la vita di un'altra persona. Il secondo film partiva con la missione difficile di dover mostrarsi all'altezza del predecessore. La missione non riesce, anche se non affatto disprezzabile è questo film, un film comunque inferiore al primo ed in cui però alcune cose non hanno funzionato. Innanzitutto la trama, leggermente sfilacciata, più prevedibile rispetto al primo e che fatica a decollare, ma soprattutto il villain, che ha pochissimo spessore e la sua caratteristica principale è la viscidità. Siamo ben lontani da Nicolai Itchenko detto "Teddy Rensen", il cattivo del primo film: un militare russo esperto, sociopatico ma distino nei modi, persino educato ed elegante ma capace di estrema aggressività e violenza. Insomma, un uomo tutto d'un pezzo. Il "cattivo" di questo film, al confronto, è un foglio di carta. Bidimensionale e leggero. Per non parlare degli altri componenti della squadra, soltanto accennati, anzi nemmeno accennati...tanto che nessuno di loro apre bocca. Il film si muove per inerzia, alternando alla vicenda principale i vari salvataggi e opere di misericordia dell'integerrimo McCall nei confronti dell'umanità. Il film infatti, sempre diretto da Antonie Fuqua (alla quarta collaborazione con Washington dopo Training Day, il primo The Equalizer e lo scoppiettante remake de I Magnifici Sette), che prosegue il filone dell'eroe vendicatore molto in voga ultimamente, che prosegue il franchise dell'eroe combattuto e crepuscolare interpretato da Denzel Washington, che dimostra di non saper rinunciare ancora una volta ad un nuovo ruolo action (anche se questo film rappresenta il primo sequel della carriera dell'attore premio Oscar), mostra qualche leggera crepa qua e là nascosta tra le solide pareti dell'intrattenimento mainstream. Questo sequel, difatti e come detto, tarda a decollare, prepara un lungo set up iniziale che contribuisce semplicemente a rallentarne il ritmo (con delle sottotrame che si aprono e si chiuderanno poi alla fine, ma fini a se stesse e che nulla hanno da spartire con la linea principale della storia), fino ad arrivare ad un secondo atto pronto a recuperare quota nonostante le pecche della sceneggiatura. Ma è col terzo atto, decisamente efficace, che il film riesce, superando i propri stessi limiti, anche un'adrenalina meno esposta del primo film, adrenalina qui dosata in piccole parti e sparsa nelle due ore di visione (un intro accattivante, una violenta scazzottata con dei malsani giovani rampanti, la resa dei conti finale), a diventare un dignitoso (sufficiente) secondo capitolo a tutti gli effetti, seguito ideale del primo nonché perfetta metà della mela, capace di completare un ideale percorso vincente sul piano della lunga distanza audiovisiva.
mercoledì 12 giugno 2019
Gomorra (4a stagione)
Tema e genere: Giunge al giro di Boa numero 4 la serie di Sky prodotta dal trio Sollima-Cupellini-Comencini. Una quarta stagione, composta da 12 episodi, e conclusasi poco tempo fa, che nuovamente tratta dall'omonimo romanzo di Roberto Saviano, continua nel suo percorso del potere criminoso.
Trama: La quarta stagione riparte esattamente da dove si era chiusa la terza: Genny Savastano da solo sullo yacht a largo del Golfo di Napoli su cui pochi istanti prima ha ucciso, su ordine di Enzo, Ciro Esposito. Dopo la morte de "L'Immortale" il protagonista viene riportato a riva. Solo e in pericolo di vita decide quindi di volare a Londra, con lui la moglie Azzurra, per cominciare a costruire qualcosa di vero. A Napoli intanto gli equilibri sono saltati, ma un accordo viene trovato, e tutto sembra ristabilito, però niente dura in eterno.
Recensione: Sì è fatta attendere quasi un anno e mezzo la quarta stagione di Gomorra, serie che dopo il finale choc dell'annata precedente (qui la recensione) lasciò gli spettatori appesi a un filo, curiosi di sapere dove gli autori della serie avrebbero deciso di dirigere il racconto. La quarta stagione arrivava quindi accompagnata da tantissimi punti interrogativi, sia per quanto riguarda il piano prettamente drammaturgico (come sarà il racconto senza la presenza di Ciro?) sia per quanto concerne il rapporto di pesi e contrappesi tra i personaggi più importanti della serie, vista la necessità di creare nuovi equilibri. Ebbene, il responso non è del tutto positivo, anzi. La serie infatti, presenta un interessante ed affascinante scenario sempre più intenso e noir nella configurazione delle location e nella riproduzione delle colonne sonore. Ma per il resto la suddetta non fa altro che continuare con i soliti contenuti e nelle solite dinamiche fatte di guerre tra clan rivali per il monopolio dei quartieri della città (tematiche riprese anche in Suburra), di amicizie e tradimenti continui, di storie d'amore finite male, degli avvicendamenti al potere, delle paranze, dei vecchi boss, delle sparatorie e degli omicidi cruenti. Tutte cose interessanti certo, ma che cominciano leggermente a stancare, anche perché in questa stagione si ritorna al punto di partenza, stagione in cui molte cose non funzionano, a partire dai personaggi e la storia, seppur la costruzione dei personaggi (soprattutto di Enzo Sangue Blu e Patrizia Santoro) funziona bene, ma la quarta stagione di Gomorra sembra dimenticarsene, scegliendo di sacrificarne uno dei due (Enzo) pur di dare più spazio a tre storie meno interessanti: la costruzione del nuovo aeroporto di Napoli, l'introduzione della famiglia dei Levante e quella del magistrato Ruggieri. Il problema dei personaggi è essenzialmente un problema di scrittura. Salvatore Esposito è ancora qui, con i suoi pregi e i suoi difetti, ma dopo la dipartita di Don Pietro, Donna Imma, Salvatore Conte e Ciro di Marzio, è evidente come Gennaro Savastano non sia più abbastanza per tenere in piedi lo show. La quarta stagione butta qualche nuovo personaggio nel mix, ma fallisce completamente nel dare ai nuovi coprotagonisti un qualsiasi senso di profondità. Non è solo un problema di recitazione, ma piuttosto un errore fondamentale di scrittura che tende a rendere le nuove personalità tristemente monocromatiche. La differenza principale tra Pietro Savastano e Gerlando Levante la si trova proprio qui: Don Pietro lo si ama o lo si odia sulla base che se ne condividano o meno le idee, mentre Gerlando è un personaggio scritto come "cattivo" per il solo fine di esserlo. Soffre dello stesso problema il personaggio di Alberto Resta: non avendo una qualsiasi profondità, al momento della sua morte si prova solo un senso di delusione, come se le sue scene nelle prime otto puntate siano state un semplice riempitivo. L'introduzione di questi personaggi e la side story dedicata alla costruzione dell'aeroporto sono arrivate ad un prezzo: a pagarlo è stato il personaggio di Enzo Sangue Blu, totalmente dimenticato nella prima metà della stagione e ridotto a macchietta per maggior parte della seconda metà.
Recensione: Sì è fatta attendere quasi un anno e mezzo la quarta stagione di Gomorra, serie che dopo il finale choc dell'annata precedente (qui la recensione) lasciò gli spettatori appesi a un filo, curiosi di sapere dove gli autori della serie avrebbero deciso di dirigere il racconto. La quarta stagione arrivava quindi accompagnata da tantissimi punti interrogativi, sia per quanto riguarda il piano prettamente drammaturgico (come sarà il racconto senza la presenza di Ciro?) sia per quanto concerne il rapporto di pesi e contrappesi tra i personaggi più importanti della serie, vista la necessità di creare nuovi equilibri. Ebbene, il responso non è del tutto positivo, anzi. La serie infatti, presenta un interessante ed affascinante scenario sempre più intenso e noir nella configurazione delle location e nella riproduzione delle colonne sonore. Ma per il resto la suddetta non fa altro che continuare con i soliti contenuti e nelle solite dinamiche fatte di guerre tra clan rivali per il monopolio dei quartieri della città (tematiche riprese anche in Suburra), di amicizie e tradimenti continui, di storie d'amore finite male, degli avvicendamenti al potere, delle paranze, dei vecchi boss, delle sparatorie e degli omicidi cruenti. Tutte cose interessanti certo, ma che cominciano leggermente a stancare, anche perché in questa stagione si ritorna al punto di partenza, stagione in cui molte cose non funzionano, a partire dai personaggi e la storia, seppur la costruzione dei personaggi (soprattutto di Enzo Sangue Blu e Patrizia Santoro) funziona bene, ma la quarta stagione di Gomorra sembra dimenticarsene, scegliendo di sacrificarne uno dei due (Enzo) pur di dare più spazio a tre storie meno interessanti: la costruzione del nuovo aeroporto di Napoli, l'introduzione della famiglia dei Levante e quella del magistrato Ruggieri. Il problema dei personaggi è essenzialmente un problema di scrittura. Salvatore Esposito è ancora qui, con i suoi pregi e i suoi difetti, ma dopo la dipartita di Don Pietro, Donna Imma, Salvatore Conte e Ciro di Marzio, è evidente come Gennaro Savastano non sia più abbastanza per tenere in piedi lo show. La quarta stagione butta qualche nuovo personaggio nel mix, ma fallisce completamente nel dare ai nuovi coprotagonisti un qualsiasi senso di profondità. Non è solo un problema di recitazione, ma piuttosto un errore fondamentale di scrittura che tende a rendere le nuove personalità tristemente monocromatiche. La differenza principale tra Pietro Savastano e Gerlando Levante la si trova proprio qui: Don Pietro lo si ama o lo si odia sulla base che se ne condividano o meno le idee, mentre Gerlando è un personaggio scritto come "cattivo" per il solo fine di esserlo. Soffre dello stesso problema il personaggio di Alberto Resta: non avendo una qualsiasi profondità, al momento della sua morte si prova solo un senso di delusione, come se le sue scene nelle prime otto puntate siano state un semplice riempitivo. L'introduzione di questi personaggi e la side story dedicata alla costruzione dell'aeroporto sono arrivate ad un prezzo: a pagarlo è stato il personaggio di Enzo Sangue Blu, totalmente dimenticato nella prima metà della stagione e ridotto a macchietta per maggior parte della seconda metà.
martedì 11 giugno 2019
Il sacrificio del cervo sacro (2017)
Tema e genere: Presentato in concorso al Festival di Cannes 2017, dove ha vinto il Prix du scénario, premio che viene assegnato alla miglior sceneggiatura dei film presentati in concorso nella selezione ufficiale, il film è un thriller drammatico che riprende alcuni elementi del mito greco del sacrificio di Ifigenia.
Trama: Un carismatico chirurgo è costretto a fare un sacrificio impensabile quando la sua esistenza inizia a cadere a pezzi a causa del comportamento sempre più sinistro e misterioso dell'adolescente che ha preso sotto la sua ala protettiva. Il processo sarà dilaniante e le conseguenze gravi.
Recensione: Si ricompone la coppia regista/interprete Yorgos Lanthimos e Colin Farrell di The Lobster, in un film che in comune con il precedente ha il senso del "weird", del mistero soprannaturale nascosto tra le sue pieghe, e un senso dell'estetica cinematografica molto lineare e pulito. Il regista infatti, punta nuovamente tutto sul racconto distopico dallo stile straniato, algido, nel quale i sentimenti vengono espressi rigidamente, il sesso consumato attraverso lo sguardo posato su corpi inerti e l'ipocrisia serpeggiante in ogni ambiente. Il regista infatti, facendosi aiutare dal ruolo centralissimo di una colonna sonora che procede a colpi di dissonanze, punta tutto su un'estetica raggelata che è il suo marchio di fabbrica. Ma stavolta l'esito del racconto (al contrario del bellissimo precedente), che per gran parte sembra quasi seguire una pista gialla, che quasi naufraga miseramente in un finale leggermente ridicolo, non convince. Non tutto difatti sembra filare, con momenti in cui il meccanismo di tensione crescente e di tragedia annunciata perde il ritmo, con pause che dilatano l'attesa. A proposito del finale, che svelare (seppur immaginabile dalla trama) non è corretto e pertanto si tralascia la parte conclusiva del film in cui si spiega chiaramente l'andamento dell'intera vicenda che prende spunto direttamente dalla tragedia classica di "Ifigenia in Aulide" di Euripide. Il regista Lanthimos, in pratica (come spesso gli capita, egli infatti non è un regista diretto, giacché tutte le sue opere vengono caricate di significati ed immagini ricercate per consegnare allo spettatore in maniera contorta il proprio messaggio e la propria concezione negativa sulla natura umana ingenerale), trasporta l'opera o, più precisamente, il concetto espresso dall'autore greco ai giorni nostri, caricandola di metafore, però, poco comprensibili perché occorrerebbe effettivamente conoscere bene il testo originale. Ed è un problema non di poco conto, perché le scene disperate di tortura fisica e psicologica, le patetiche strategie di sopravvivenza dei condannati alla "maledizione", i calcoli spietati di chi ha la responsabilità di prendere decisioni inumane si perdono in un catalogo di sgradevolezze che culminano nell'atroce roulette mortale, epilogo sadico ed ambiguo che lascia perplessi. Il sacrificio del cervo sacro vuole raccontare una tragedia moderna, quella di un uomo le cui certezze si sgretolano quando viene messo davanti alle conseguenze tragiche dei suoi errori, ma non emerge mai davvero la volontà di inscenare questa suddetta tragedia e resta solo un revenge movie che pur essendo ben orchestrato non è mai fonte di stimoli e suggestioni ma solo di reazioni effimere e contingenti. In tal senso non aiuta il perseguimento estenuante di una perfezione formale sempre più ricercata, che sempre più spesso ultimamente sembra far capolino tra i grandi indagatori morali dell'arte cinematografica mondiale, tra questi il regista, che è seguace ed erede. Formalità che è senz'altro assai ambiziosa, nel casting e nell'impianto di ogni singola scena, ognuno ci può vedere riferimenti, palesi o impliciti, a grandi autori, ma perlopiù soffocante.
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lunedì 10 giugno 2019
Gli Incredibili 2 (2018)
Tema e genere: Sequel de Gli Incredibili - Una "normale" famiglia di supereroi del 2004, è il 20esimo film prodotto dalla Pixar Animation Studios, ed è incentrato nuovamente sulle vicende di un'insolita famiglia di supereroi.
Trama: I supereroi sono nuovamente fuorilegge ma qualcuno vorrebbe riportarli in auge. Questa volta però tocca a Elastigirl fare la parte del leone, mentre suo marito resta a casa con i bambini.
Recensione: Nel 2004 lo scenario cinematografico era ben diverso da quello attuale, in particolar modo per un genere che ora domina i botteghini e fa parlare molto di sé, ma che 15 anni fa era ancora di là dall'esplodere nella connotazione odierna: i cinecomics di stampo supereroistico. È quindi in un contesto piuttosto vergine che si muoveva The Incredibles (in Italia Gli Incredibili – Una "normale" famiglia di supereroi), tuttavia, pur arrivando a distanza di più di dieci anni, pur uscendo in un periodo di sovraesposizione di questo genere sul grande schermo, questo sequel riesce a non sfigurare di fronte al primo bel capitolo, mantenendo perfino in parte l'effetto sorpresa, grazie anche all'aggiunta di nuovi spassosi personaggi e ad una buona sceneggiatura che schiaccia l'occhio anche agli spettatori più grandi. Anzi di più, in questo caso infatti la Disney Pixar con questo sequel riesce inoltre a consegnarci un seguito assolutamente all'altezza dell'originale, addirittura migliore (anche se l'effetto emozionale e d'impatto rimane basso), del quale appare come una natura continuazione e anziché, come spesso accade, una forzatura priva di originalità e spessore. Gli Incredibili 2 difatti, prende avvio dalle scene finali del primo film, dall'affiatatissima famiglia di supereroi finalmente pronta a sconfiggere un nuovo Super Cattivo: il Minatore, in diretta continuità quindi con lo status quo che ricordavamo. Non cambiano neanche le dinamiche, i supereroi, infatti, sono ancora illegali. Tuttavia un eccentrico milionario, affiancato dalla geniale e stravagante sorella, fanno appello a Hellen (aka Elastigirl) per rivalorizzare e risanare l'immagine pubblica dei supereroi, per poterli rendere di nuovo "legali". Ma per fare ciò qualcosa deve cambiare, ed infatti le avventure della famiglia Parr continuano, però prendendo una strada inattesa. Questa volta difatti, spetta a Mr. Incredible tenere le redini della famiglia, mentre Elastigirl è impegnata in una duplice missione: fare la portavoce dei diritti dei supereroi e investigare su un nuovo supercattivo. Helen e Robert dunque si invertono i ruoli in un'ottica moderna e se vogliamo molto politically correct, con lui che resta a casa a badare ai piccoli, mentre lei va a "guadagnare il pane" per entrambi. Robert così si ritrova a casa con una figlia in preda alle turbe adolescenziali, un ragazzino alle prese con difficoltà nella matematica e il piccolo ed incontenibile Jack Jack. Quest'ultimo in particolare si diverte a sperimentare tutta una serie di nuovi superpoteri e si potrebbe dire che alla fine sia lui il vero protagonista del film: con le sue faccette buffe e le gag esilaranti riesce a dare una ventata di novità alla storia. Ad ogni modo il compito dell'uomo di casa si rivela piuttosto arduo per Mr. Incredibile, che però, preso anche da un certo orgoglio maschile, si rifiuta di interpellare la moglie e dimostrarle di non saper gestire la situazione, finendo per improvvisare e provare qualsiasi cosa per mantenere tutto sotto controllo.
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venerdì 7 giugno 2019
Deadpool 2 (2018)
Tema e genere: Basato sull'omonimo personaggio dei fumetti Marvel, undicesimo film della saga sugli X-Men, sequel di Deadpool (2016), Deadpool 2 è l'action fumettistico che segna il ritorno tanto atteso del mercenario chiacchierone.
Trama: Quando gli viene portata via l'amata Vanessa, Deadpool perde ogni ragione di vivere. Almeno finché i suoi amici gli trovano una nuova missione, e sarà così costretto suo malgrado a riflettere su ciò che significa realmente essere un eroe e a capire che spesso bisogna giocare sporco per fare la cosa giusta.
Recensione: Il successo del primo film dedicato al mercenario chiacchierone di casa Marvel fu una sorpresa inaspettata per tutti (anche e soprattutto per me, qui la recensione). E questo nuovo capitolo, che rimarca la linea tracciata con il primo capitolo (con la combinazione di linguaggio sboccato, citazioni e violenza fatta apposta per mandare in estasi gli adolescenti che in teoria non dovrebbero vederlo), che lascia anche tanto spazio alla comicità, all'assurdo, ma anche (e sorprendentemente) alle emozioni e ai sentimenti, non delude le aspettative. Anche se Deadpool 2 non è una sorpresa, nel senso però più sorprendentemente positivo possibile. Non è una sorpresa perché, in fondo, il primo capitolo aveva già fissato bene le regole di base di un franchise solitario che, terminato anche Wolverine, si riconferma con il sequel un cavallo di razza tra i mutanti di casa Fox (ora Disney). E si sa, Wade Wilson è un cavallo pazzo. Deadpool 2 non sorprende insomma, però conferma tutto ciò che doveva confermare: ironia, azione, sentimenti, emozioni e assoluta padronanza dei mezzi, peraltro non immensi, ma usati in modo che sembrino il doppio, in qualità e quantità. Infatti, pur non potendo più sfruttare la carta della sorpresa, come avvenne per l'uscita del primo film, la figura di Deadpool si mostra, alla sua seconda prova, in grado di eguagliare l'entusiasmo provocato al suo inizio. E lo fa non solo spingendo l'acceleratore del divertimento al massimo, ma donando al personaggio una dimensione in cui svilupparsi al meglio e in cui donargli dunque un più ampio respiro. Sembra difatti in evoluzione il protagonista Wade Wilson: non abbiamo più solo volgarità e frecciatine (che non mancano anche stavolta di colpire ovunque e chiunque con il loro irriverente piglio), ma una storia in cui ci si approccia alla maturazione del personaggio. Perciò non più solo quel bistrattato e a tratti mancante eroismo, ma una parte comica minuziosamente curata, talmente sregolata da essere il più brillante possibile. Al contempo non rinuncia a uno svolgimento appassionante e ben costruito, ritmato, equilibrato nelle parti. È insieme genio e sregolatezza. E dunque, senza fare spoiler, si ride tanto, da subito e fino alla fine, dai dissacranti titoli di testa alla James Bond alle sequenze post-credit. Si ride per un montaggio chirurgico e un citazionismo a catena, un umorismo meta-cinematografico a pioggia che non risparmia davvero ma davvero nessuno. Le citazioni e i camei (alcuni davvero incredibili), oltre a quelli dei compari della Marvel, spaziano infatti dai personaggi e situazioni della rivale DC Comics (c'è anche uno sberleffo a Batman vs Superman) a tutta la filmografia degli scorsi decenni (da Forrest Gump a Robocop, James Bond e Terminator, ma anche Frozen e Yentl). Lo stesso vale per la musica e le scelte di cast, a partire da Josh Brolin nei panni dell'antagonista Cable, che a un certo punto Deadpool apostrofa come Thanos, il nome del personaggio che Brolin interpreta nella saga degli Avengers. In tutto questo non è mai chiaro se a Deadpool interessi davvero portare fino in fondo la sua missione o semplicemente portare all'esasperazione chi ha di fronte, a furia di botte o di battute. L'unica cosa che rimane "sacra" in questo panorama è proprio l'amore di Wade per Vanessa (la sempre bella Morena Baccarin): il motore, nel bene e nel male, di ogni sua scelta. E gli altri personaggi? La Domino di Zazie Beetz (che spicca per i suoi poteri spettacolari, resi molto bene, e per il suo atteggiamento estremamente coinvolgente) è una new entry esplosiva, così com'è un piacere, a breve distanza dal suo Thanos in Avengers: Infinity War, ritrovare Josh Brolin in un'altra prova assolutamente convincente. Le scene d'azione del suo perfetto Cable sono tutte performance di statura, anche quando strappano le consuete risate garantite dai vari sparring partner. Chiudono il cerchio una nutrita schiera di personaggi di contorno, che tutt'insieme trovano una dimensione armonica, ricca ed efficace entro la quale agire: tra TJ Miller, Colosso, una X-ilarante X-Force e Julian Dennison, motore degli eventi, nessuno manca di dare il proprio piccolo ma fondamentale apporto all'opera tutta.
giovedì 6 giugno 2019
Ore 15:17 - Attacco al treno (2018)
Tema e genere: Basato sull'autobiografia The 15:17 to Paris: The True Story of a Terrorist, a Train, and Three American Heroes di Jeffrey E. Stern, Spencer Stone, Anthony Sadler e Alek Skarlatos, il film racconta la storia dell'attacco terroristico al treno Thalys del 21 agosto 2015 e di come esso sia stato sventato proprio dai tre, anzi, quattro eroi.
Trama: Tre bambini diventano amici. Da giovani si troveranno su un treno ad alta velocità diretto a Parigi, durante un attacco terroristico. Giovani che con il loro coraggio e la loro prontezza riusciranno a salvare la vita a molte persone.
Recensione: Da fan del grande Clint Eastwood mi duole molto commentare negativamente questa sua opera, anche perché lodevole nelle premesse e negli intenti ma purtroppo scadente nell'iter che spinge l'autore texano all'ennesima celebrazione dell'uomo comune, quello che pur non avendo mai avuto un ruolo di spicco si erge dalla mediocrità assurgendo a scudo contro il male. Una celebrazione riuscita nel buon American Sniper, ancor più riuscita nel buonissimo Sully, ma fallimentare in questo film. Stavolta lo spunto è quello della storia vera di tre 23enni americani (due militari e uno studente) in vacanza in Europa che, durante un viaggio in treno verso Parigi, hanno sventato un attacco terroristico che poteva causare decine e decine di morti, ricevendo addirittura la Legion d'onore dal presidente francese Hollande. Raccontata così, la vicenda (che ha fatto il giro del mondo) poteva anche destare interesse, peccato però che tutto ciò sullo "schermo" si esaurisca in appena una decina di minuti, mentre il resto è praticamente inutile ciarpame. Infatti l'attacco terroristico ad opera di un 26enne marocchino, salito sul treno armato di kalashnikov, pistola e quasi 300 munizioni, è stato sventato praticamente subito dal trio americano, esaurendo quindi in brevissimo tempo tutta la parte interessante della storia. Come riempire, quindi, un'ora e mezza di film? Con i temi cari a Eastwood, come il patriottismo, la fede e la spasmodica ricerca del dare un senso alla propria esistenza, tutti temi però esasperati all'ennesima potenza, ma soprattutto con un'interminabile flashback. Infatti per metà film si assiste al noiosissimo coming of age dei giovanissimi e problematici Spencer e Alek che, dopo aver conosciuto lo smaliziato Anthony alle scuole medie e aver affrontato un'adolescenza difficile tra fede e madri single, diventati maggiorenni decidono di arruolarsi (segue quindi relativo addestramento e disavventure correlate). Nella seconda metà del film eccoli ritrovarsi in un'interminabile vacanza europea che li porterà a visitare Roma, Venezia, Berlino, Amsterdam, fino a culminare con il viaggio in treno verso Parigi. Il tutto tra dialoghi imbarazzanti, soporifere "cartoline" delle varie città, decine e decine di selfie, e il disinteresse totale dello spettatore verso questo trio di californiani di provincia che, da Sacramento, si ritrovano per caso a diventare eroi. L'intento di tutto questo "allungare il brodo", inframezzato qua e là da rapidi flash forward sul treno, vorrebbe essere quello di creare una sorta di tensione in vista dello scontro con l'attentatore, ottenendo però il risultato opposto e annoiando mortalmente. E così Ore 15:17 - Attacco al treno, rappresenta un incredibile passaggio a vuoto per il grande Clint Eastwood, che sforna un film noioso e scritto male, con una storia adatta al massimo per un cortometraggio. Un film che in sé non sarebbe nemmeno poi così male, il suo intento era quello di raccontare la storia di questi tre (due) ragazzi, la loro infanzia problematica, le difficoltà nel trovare la loro strada comuni a quelle di un qualsiasi altro individuo e da questo punto di vista raggiunge sicuramente il suo obiettivo, ossia il comunicare che qualsiasi persona può diventare un eroe ed aiutare il prossimo anche senza per forza avere dei superpoteri o essere un cavaliere senza macchia e senza paura, basta avere la giusta dose di coraggio, decisione e (soprattutto) fortuna come del resto si sottolinea anche nel film.
mercoledì 5 giugno 2019
The Walking Dead (9a stagione)
Tema e genere: Continua il viaggio dei superstiti all'apocalisse zombie nella serie tv survival horror più longeva di sempre.
Trama: Dopo lo scontro "definitivo" all'apparenza, che ha comunque risolto alcune divergenze e dato la possibilità a tutti (quasi tutti) di ricominciare e progredire, le difficoltà nella nuova società non mancano. E se la prima volta il nuovo inizio sopperisce alle problematiche della conciliazione in modo spiazzante, la seconda, spiazzante è l'arrivo di uno spietato avversario, che metterà a durissima prova gli sforzi fatti. E non sarà l'unico problema.
Recensione: Personalmente una sorpresa, credevo peggio, e invece nel complesso è stata una buona stagione, la nona, di The Walking Dead. Non "eccezionale", neanche "ottima", ma buona sì, e per arrivare a questo risultato sono bastati alcuni accorgimenti e alcune iniezioni di minima creatività, che hanno consentito di uscire da strutture e dinamiche che ormai mostravano da tempo un certo affaticamento. Dopotutto dopo nove stagioni, nessuna serie televisiva poteva rimanere integra del tutto, poteva sedersi beatamente, qualcosa doveva cambiare, è cambiato, anche se non tutto è andato per il meglio, ma sarebbe ingrato non riconoscere a questa stagione di aver lanciato dei confortati segnali di risveglio. E questo nonostante la testarda presenze dei soliti punti dolenti. In questa stagione infatti, nei sedici episodi, i protagonisti affrontano molte traversie, simili ma diverse, tra la perdita di numerosi personaggi importanti e tante tragedie. Questo soprattutto nella seconda parte, la serie difatti vede nuovamente una suddivisione in due tronconi, più accentuata però, diversa l'una e l'altra sia per accumulo della tensione drammatica, sia per un discorso legato a un rinnovamento dei contenuti. Seconda parte che paradossalmente vede uno dei periodi più stanziali e sereni di sempre. Un salto temporale di sei anni infatti, ci (re)introduce in un mondo profondamente cambiato, un mondo che è andato avanti, portando con sé vecchie ruggini tenute nascoste (che vede la "scomparsa" di due protagonisti centrali), ma che vedrà sorgere soprattutto una nuova temibile minaccia, minaccia che è probabilmente la migliore mai vista nella serie, i Whisperers (i Sussurratori), sorta di anello mancante fra umani e zombie, che riescono a sommare le peggiori caratteristiche dei due. Alpha (interpretata benissimo da Samantha Morton), a capo di questo folle ed inquietante gruppo (che riesce nell'impresa di ridare senso e spessore alla presenza degli zombie, ormai non più minacciosi da anni, il disorientamento provato davanti a un errante, di cui adesso va interpretata la vera natura in pochi istanti, è infatti una svolta inaspettata quanto necessaria), è un'ottima villain, perché è la prima della serie che ha un'intelligenza tattica, ma con cui al contempo è impossibile ragionare. Tanto che molto scompiglio produce e produrrà, le cose sembrerebbero infatti poter ulteriormente peggiorare in futuro, probabilmente lo faranno, e si ha una discreta voglia di vedere come e cosa accadrà. Comunque al di là di ciò, da segnalare soprattutto c'è un elemento in tutto questo, in questa stagione e in questa seconda parte, ovvero la scomparsa di uno dei personaggi storici della serie, se non il più importante: Rick Grimes. Come noto (almeno dagli addetti e fan), Rick, interpretato dal bravissimo Andrew Lincoln, ha lasciato la serie in maniera molto originale, ma decisamente furba, furbescamente in attesa dei film. Una mossa interessante ma la sua mancanza è intensa e percepibile, inoltre non sapere cosa gli è successo infastidisce. A tal proposito di note dolenti ce ne sarebbero più d'una, non ultimo il fatto che su sedici episodi stagionali se ne contano forse 3-4 realmente memorabili, e sono un po' pochini. Non bastasse che restino e sono troppe le sequenze dedicate a tanti, troppi personaggi senza carisma e profondità, incapaci di accaparrarsi il nostro interesse e la nostra empatia.
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martedì 4 giugno 2019
Gli Incredibili (2004)
Trama: A causa dell'accrescersi del malcontento popolare causato dagli "effetti collaterali" delle imprese dei supereroi, conosciuti per brevità come "Super", questi vengono costretti a porre fine alle loro attività di vigilanti. Ma per Mr. Incredible è dura non aiutare il mondo. E quando gli sarà data l'occasione per tornare a rendersi utile, anche se in un modo imprevedibile, coinvolgerà tutta la famiglia.
Recensione: In procinto di vedere il sequel, ho colto l'occasione di rivedere "l'originale", un film, Gli Incredibili, premio Oscar nel 2005 come miglior film d'animazione che, come l'anno scorso all'epoca dell'uscita dissi, non è mai stato uno dei miei preferiti. E' innegabile tuttavia non "dare a Cesare quel che è di Cesare" dicendo che è questo (anche a distanza di 15 anni) un buonissimo film d'animazione. Un film che non mi sento di elevare a capolavoro anche perché non lo è affatto, è un film d'animazione impeccabile, con una ottima regia, con una portentosa colonna sonora, dei buoni personaggi sia primari che secondari con il proprio carisma che li contraddistingue dagli altri e una sempre eccezionale CGI, ma non ti entra dentro (come fu per me all'epoca) come gli altri, non ti da (e non mi dette) emozioni forti come quelle per esempio che ho provato in Wall-E o altri (soprattutto gli ultimi), ed è quindi questa la pecca che grava sull'operato finale dell'opera sesta della Pixar. Pixar, la casa della lampada da tavolo saltellante mamma di alcuni clamorosi successi prima, Toy Story, A Bug's Life, Monsters, Inc. e Alla ricerca di Nemo, giusto per citare qualche titolo, ma soprattutto dopo, e tutti capaci di incassare cifre che sarebbe fin troppo sobrio definire stratosferiche. Le ragioni di questi trionfi che sembrano ripetersi puntualmente ad ogni nuova uscita (o almeno quasi tutti) sono da ricercarsi in un'azzeccata mescolanza di fattori, presenti tutti anche in questa produzione. Si comincia con la tecnica realizzativa, sopraffina come sempre, fino alla genialità della narrazione, della sceneggiatura. Avventura, commedia, fantasy, humor e tante mirabolanti scene d'azione in questo film d'animazione che mescola la spy story alla parodia dei supereroi, con personaggi simpaticissimi e ben dettagliati e ambientazioni di stupefacente realismo. Film che porta (e portò) per la prima volta personaggi umani sullo schermo (questa è infatti la prima volta in cui la Pixar si cimentò con le persone), ma in una dimensione super. Un mondo dai connotati anni sessanta che però è proiettato verso il futuro lasciando nella bocca dello spettatore il tipico gusto di un "Bond movie" degli anni settanta. Un mondo in cui (a volte) le migliori intenzioni producono effetti nefasti: i passeggeri di un treno salvato dal disastro dal super eroe Mr. Incredibile gli fanno causa per danni. Il governo, preoccupato per i continui risarcimenti, vara un programma per togliere i super eroi di mezzo, costruendo loro una nuova, innocua identità. È questo lo spunto (indubbiamente geniale) de Gli Incredibili, ma geniale è anche il resto, perché apparentemente si tratterebbe della solita tiritera avente come fulcro la rivalsa di quei supereroi ormai fin troppo abusati, ma la realtà, all'esame dei fatti, è ben diversa.
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lunedì 3 giugno 2019
Maria Maddalena (2018)
Tema e genere: Dramma storico incentrato sulla figura di Maria Maddalena, descritta dai Vangeli e riconosciuta ufficialmente dalla Chiesa (pochi anni fa), come l'apostolo donna di Gesù.
Trama: Maddalena lascia il suo villaggio di Magdala, in cui si sente stretta e costretta, per seguire Gesù e il suo rivoluzionario messaggio di amore. Un messaggio che la porterà a Gerusalemme e la vedrà diventare testimone della resurrezione di Gesù.
Recensione: La figura di Maria Maddalena è stata sovversiva e molto importante, anche se questo emerge con poca forza nelle scene più importanti del film, questo film, un film che, nonostante le buone intenzioni, appare un tentativo poco riuscito di rileggere in modo "rivoluzionario" e al passo con i tempi il messaggio evangelico, perché da una parte fraintende e banalizza la valorizzazione del femminile in atto da tempo nella Chiesa e dall'altra non riesce a trovare una chiave davvero interessante per dare rilevanza al mondo e ai personaggi che rivisita. Il film infatti, rifiuta le interpretazioni più note della figura di Maria Maddalena (che qui non è né la prostituta salvata da Gesù né una delle sorelle di Lazzaro) e si ispira al titolo di "Apostola degli Apostoli" conferito alla prima testimone della resurrezione, ma costruisce perlopiù un racconto "al femminile" che altro, un racconto che se nelle intenzioni del regista Garth Davis (al suo secondo film dopo il bellissimo Lion) voleva riabilitare la figura evangelica di Maria Maddalena (così come la Chiesa ha fatto nel 2016), e in parte ci riesce, non riesce invece a dare, a causa di una sceneggiatura incostante ed una regia eguale, spessore e profondità al personaggio della Maddalena (che è più uno stereotipo che una persona tridimensionale con cui creare empatia, anche se brava è Rooney Mara) e alla storia stessa (che non possiede la scintilla e la potenza adeguata). Per non parlare di tutti gli altri protagonisti, così come il film poco approfonditi. Facendo così risultare il tutto convenzionale. Siamo lontani anni luce dalle dissertazioni filosofiche adoperate da Martin Scorsese ne L'ultima tentazione di Cristo, dove era chiaro che il sacrificio finale rappresentasse l'unico significato alla venuta di Dio sulla terra. In Maria Maddalena, invece, non c'è alcun tipo di ragionamento di questo tipo. E' vero che la storia (gli ultimi giorni di vita di Cristo) ha un unico punto di vista, quello della Maddalena, ma al termine delle appesantite due ore di film, che destano un timido sussulto solo in alcune scene con protagonista Gesù, si ha come l'impressione che di questo film resti poco più che una superficiale storia di emancipazione femminile prendendo come esempio colei che nel Medioevo (ma anche ben oltre) fu tacciata di essere una prostituta da Papi misogini. Per veicolare questo messaggio non c'era però bisogno di rappresentare gli apostoli di Gesù come degli sciocchi, che attendono il Regno di Dio pronunciando parole poco credibili con espressioni del volto quasi ironiche. In tal senso, controversa per non dire di peggio (ma quasi sicuramente politicamente corretta), la scelta di affidare ad un attore di colore (Chiwetel Ejiofor) il ruolo dell'apostolo Pietro. Più interessante invece la figura di Giuda (Tahar Rahim), che tradisce Gesù non per denaro ma per disillusione, peccato che manchi un po' di complessità, che non avrebbe guastato per rendere il racconto (alquanto didascalico) un puro esercizio di stile. Il racconto infatti, insiste sulla poeticità delle immagini per compensare a una certa mancanza di sostanza. Non è un caso che la chiave del racconto (Maria è l'unica a capire il vero messaggio) risulti un po' annacquato nel tessuto di una storia che prima si sofferma a lungo sul tema del femminile schiacciato nella sua unicità, poi, quando mette in scena Gesù, si rifiuta di andare alle radici del suo annuncio eccezionale. Il Gesù di Joaquin Phoenix è un prescelto che sembra sempre un po' in trance, con lunghi momenti di "assenza", quasi sopraffatto dal suo stesso messaggio, che si oppone ai sacerdoti, ma non dice mai di essere Figlio di Dio e non offre il suo corpo e il suo sangue nell'ultima cena, non bene. Non bene come questo film, un film poco approfondito e molto patinato personalmente deludente, che solo in parte riabilita il personaggio di Maria Maddalena.
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