Dopo mesi di attesa, rimandi e controversie, finalmente le questioni in sospeso rimaste impantanate per parecchio tempo, sembrano ormai arrivate in via di definizione, e sembrerebbe aprire ad importanti scenari. In questo mese di Maggio infatti, non solo è arrivata l'ufficialità di avvenuta vendita della casa della mia defunta nonna (anche se la riscossione bancaria è ancora a metà percorso), vendita che potrebbe aiutare il "sogno" di cambiare casa a prendere corpo (anche se potrebbe restare comunque tale, giacché non è una cosa facile), ma anche la questione legata alla pensione di mio padre (dopo parecchi problemi di certificazione ed altro) sembra essere in via di risoluzione (in un mese dovrebbe risolversi tutto), fatto che ovviamente consentirà un sostegno economico sicuro dopo un anno e mezzo senza stipendio. E quindi finalmente un po' di notizie positive in questo mese, quinto mese dell'anno che nel tempo ha riservato momenti belli misti ad alcune amarezze. Di certo in campo cinematografico il discorso è diverso, tuttavia dopo gli immancabili peggiori film di ieri, eccoci oggi con le altre pellicole (le ultime due passate in televisione ultimamente) viste durante il suddetto mese, pellicole moderatamente sorprendenti e consigliabili alla visione.
Ispirato alla pièce di Maurice Rostand, da cui Ernst Lubitsch trasse "Broken Lullaby", Frantz, film drammatico del 2016 (passato in concorso a Venezia 2016) di produzione franco-tedesca che conferma la passione di François Ozon (al suo sedicesimo film in 18 anni) per il melodramma sentimentale e per le storie piene di misteri, con più di un richiamo ad atmosfere alla Hitchcock, è ambientato nel 1919 in un piccolo villaggio tedesco, all'indomani della fine della Grande Guerra e mette sotto la lente d'ingrandimento l'eredità da essa lasciata, ossia il vuoto di una generazione morta in trincea e le ferite fisiche e psichiche di chi è invece riuscito a sopravvivere. Il film infatti, dalla forte componente melodrammatica, che non scade tuttavia nel romanzo d'appendice, poiché illude, depista e regala sorprese inaspettate, racconta di una giovane vedova di guerra di nome Anna che si reca quotidianamente alla tomba del fidanzato Frantz e che sulla stessa conosce un misterioso uomo di nome Adrien, anche lui intento a portargli fiori. Tra i due così si instaura un forte legame, una frequentazione emotivamente provante e non priva di qualche sfumatura ambigua, dato che la sua presenza susciterà delle reazioni imprevedibili in un ambiente segnato dalla sconfitta tedesca. Non a caso il regista mette bene in mostra come la diffidenza e l'odio reciproco tra Francia e Germania, che non si dileguò affatto con la cessazione delle ostilità, proseguì prima con le condizioni a cui fu costretto il popolo tedesco e, quasi di conseguenza, con la Seconda Guerra Mondiale. D'altronde in questo dramma fuorché banale (che vale la pena vedere per i temi affrontati, dato che riesce a trasportare letteralmente lo spettatore nell'immediato dopoguerra, pieno di disagi, di dolore per la perdita dei propri cari e denso di una vena patriottica che è evidente per tutta la durata della pellicola) a farla da padrone non è solo il senso di colpa, provocato qui da un "errore di valutazione" che ha causato molto dolore e tormento a entrambi i personaggi principali, non emerge solo la tematica del perdono, ma appunto il dolore causato dalla guerra (quindi dalla perdita di qualcuno che amiamo), ancora molto sentito nel film ed anche il conseguente patriottismo smisurato che ne deriva. Non dimenticando che il regista lavora anche su sentimenti contrastanti che sono dettati da due parti del corpo ben distinte: il cuore e la testa. A tal proposito, è essenziale anche la scelta cromatica del bianco e nero, che diventa a colori solo quando vengono mostrati i ricordi dei diversi personaggi inerenti a Frantz o quando si tratta di un momento significativo ai fini della narrazione. Una tecnica interessante e utile nel film, in quanto rende chiara anche la divisione tra passato e presente. Un film che per questo suscita emozioni e avvince con false piste e ambiguità, tra verità parziali e menzogne più o meno pietose. Il film infatti, nella prima parte ruota sull'identità di Adrien e il suo rapporto con Frantz, ed entrambi riserveranno sorprese inaspettate, nella seconda rovescia la prospettiva, la ragazza tedesca diventa così la straniera in terra di Francia, ripercorrendo con esiti e tappe diverse lo stesso percorso di Adrien, mentre la chiusura al Louvre e di fronte al "Suicidio" di Manet, conclude l'arco narrativo e la parabola di Anna lasciando un'unica ineludibile verità: la morte o la sua esorcizzazione sono forme che possono liberare la vita. Il film per questo accumula forse troppe situazioni, ma complessivamente è un discreto film d'autore. Certo, la colonna sonora seppur ricca di piccole e sottili sfumature non convince fino in fondo, e le scene che si susseguono mantengono lo stesso ritmo, che non si può certo definire incalzante, ma nonostante ciò, il film si lascia seguire con facilità (di certo non mancano scene di puro riempimento o di lunga durata, che potevano essere tagliate o, comunque, ridotte). Perché in Frantz, un lavoro riuscito la cui ottima confezione non si traduce in freddezza, perché i sentimenti dei protagonista affiorano in maniera prepotente e muovono la narrazione della storia stessa, se lo stile e la fotografia sono di alto livello, non di meno le interpretazioni di tutto il cast. Non solo Pierre Niney (L'Odissea e Yves Saint Laurent), un intenso Adrien, ma soprattutto la straordinaria (bella e brava) Paula Beer (premiata a Venezia con il premio Mastroianni come miglior emergente) nei panni di un altrettanto intensa Anna. François Ozon quindi continua a raccontare vicende mai limpide, mai chiare, sempre con lo sguardo rivolto al mistero, e la fa benissimo, con un film non eccezionale ma coinvolgente, appassionante e consigliabile. Voto: 7
Nel suo complesso Mal di pietre (Mal de pierres), film del 2016 diretto da Nicole Garcia, si rivela un film su una storia d'amore come ce ne potrebbero essere e ce ne sono state tantissime e parecchio tendente al mélo, ma la regista riesce fortunatamente a non banalizzare la propria opera nel genere melodrammatico ed a farne un lavoro altamente interessante e di pregio riuscendo soprattutto a cogliere e rappresentare il disagio esistenziale della protagonista, il suo isolamento forzato dalla moltitudine delle persone e la sua conseguente ed ovvia sofferenza per essere costretta a vivere secondo delle regole imposte dalla società benpensante in cui lei invece non si riconosce affatto. Mal di pietre infatti (costruito come un lungo flashback), adattamento del romanzo omonimo della scrittrice italiana Milena Agus, e presentato in concorso al Festival di Cannes 2016, racconta di Gabrielle (Marion Cotillard) che, cresciuta tra le fila della piccola borghesia agricola, dove il suo sogno di una passione assoluta fa scandalo e in un'epoca in cui il destino delle donne è il matrimonio, è costretta dai genitori a vivere con José (Alex Brendemuhl), un lavoratore stagionale che ha il compito di renderla una donna rispettabile. Gabrielle non lo ama e si sente come sepolta viva. Quando però si reca in un centro termale per curare i calcoli renali (il mal di pietre del titolo), fa la conoscenza di André Sauvage (Louis Garrel), un tenente ferito nella guerra in Indocina di cui si innamora. I due fuggono insieme e Gabrielle sarà disposta a tutto pur di vivere il suo sogno. Il film quindi si muove tra passione (fisica e non solo), ricordi (non tutti positivi) e frustrazioni (scatti d'ira e rimproveri), niente di nuovo insomma, tuttavia poiché esso non si relega nella banalità, nella superficie e nel feuilleton ma, ben riprodotto anche per ciò che concerne i costumi dell'epoca, diventa un'attendibile testimonianza di certi aspetti degli anni passati altamente apprezzabile e veritiera. Almeno fino al (rassicurante ed inquietante al tempo stesso) colpo di scena finale (in fondo non così improbabile e persino ridicolo come potrebbe apparire), che in modo melodrammatico rovescerà le carte, scoprirà segreti conservati gelosamente, sarà una vera e propria rivelazione per Gabrielle e cambierà definitivamente la sua psiche e la sua vita. Perché quello che, in seguito, ad un occhio distratto e pigro potrà infatti sembrare una capriola esagerata della narrazione, esso altro non è che la concretizzazione, la materializzazione visibile, il disvelamento e infine l'espulsione della "pietra" dal corpo fisico e psichico di Gabrielle. Certo, alcune contraddizioni nascono e alcune situazioni sembrano parecchio forzate (come appunto quest'ultima scoperta), ma alla regista, piuttosto, andrebbe attribuito il merito di una non facile (suppongo) trasposizione per immagini di questa niente affatto semplice vicenda, regista che, pur percorrendo sempre i binari di un raccontare realistico e ordinato, sarà capace comunque di stupire lo spettatore al momento giusto e nel modo migliore, fino a giungere ad un finale assai toccante e appena pennellato con grande tatto. Ma ciò che determina anche il valore del film è soprattutto la performance artistica di Marion Cotillard (dopo quella funzionale ed efficace in È solo la fine del mondo), resa drammaticamente efficace dalle espressioni del volto, e dalla bravura artistica dei suoi compagni stessi. Perché sarà il viso intenso, chiuso e divorato dall'ossessione di Marion Cotillard (convincente nei panni di questa donna ribelle, alla ricerca di una propria identità e affermazione nei sentimenti, cosa non concessa nella Francia di quegli anni), la dignità silenziosa che Alex Brendemühl presta a José (nella parte del marito), il perfetto physique du rôle di Louis Garrel nei panni di un letteratissimo tenente Sauvage, sarà la capacità della regista di muovere i suoi burattini in un clima asettico, livido e soffocante nella sua forzata "normalità" (un'astratta normalità sotto cui ribolle una lava di passioni e di frustrazioni per cui non sembra esserci sfogo possibile se non nella dedizione muta e nella solitaria follia) che una improbabile (almeno in parte) storia riesce, nonostante tutto, a trasmettere qualcosa di autentico. Come qualcosa di assolutamente autentico (e in tutti i sensi) offre la meravigliosa Marion Cotillard (che presta corpo, e che corpo, voce, e che voce, e tormento, mamma che sguardo e che occhi) che, proprio grazie alla sua inafferrabile bellezza tradizionale, rassicurante, genuina e incorruttibile, riesce a superare la prova del tempo incarnando, nel corso dei 120' del film (forse eccessivi), il ritratto completo di una donna che copre un arco narrativo di circa 17 anni. Un arco forse non eccezionale e non del tutto coinvolgente (fotografia e scenografia nella media) ma certamente da vedere, anche e soprattutto per chi nutre per l'attrice francese un forte desiderio non solo artistico. Voto: 6,5
Apparenze. Pregiudizi. Ellissi. Ruoli e funzioni definite. È attorno a questi termini che ruota Class Enemy (Nemico di classe), opera prima del 2013 dello sloveno Rok Bicek. Una piccola ma esemplare storia, raccontata con straordinaria efficacia. Una pellicola che dal punto di vista registico, tecnico e attoriale è veramente ben fatto. Class Enemy infatti, che porta inevitabilmente a interrogarsi sul ruolo dell'insegnante, sulle scelte (spesso impopolari) che toccano a chi ha un compito educativo, sulle difficoltà che un giovane deve superare per capire di più se stesso, e anche sull'irragionevolezza di tanti assiomi del "politicamente corretto", e che mostra altresì quanto sia delicato il ruolo dell'insegnante e, dato che nessuno è perfetto, quanti errori si possano commettere, pur animati dalle migliori intenzioni ed anche come nell'apparente durezza di un professore antipatico si possa celare la via (spesso dura da percorrere) per ritrovarsi uomini, è un film spiazzante, importante e registicamente valido. Proprio perché la storia, ambientata in una classe del 5 anno di superiori in Slovenia, ci racconta di un nuovo professore di tedesco (severo ma giusto) che non riesce a trovare la giusta intesa con i suoi studenti per via dei modi differenti che hanno di intendere la vita, e che quando una studentessa si suicida, viene accusato di essere il responsabile di quella morte. Inizia così una ingiusta ribellione (con dichiarazioni, gesti eclatanti e persino una sorta di processo pubblico) da parte degli studenti contro il proprio insegnante e contro il sistema scolastico (che secondo loro è sbagliato ma che in verità non lo è) secondo loro responsabili dell'accaduto, senza tuttavia tener conto che la severità del professore è fatta per il loro bene (nonostante loro pensano all'opposto), giacché non sempre i confini tra ciò che è bianco e ciò che è nero sono netti. Il film perciò per rimarcare in modo netto il problema dei ragazzi di oggi, troppo egoisti, senza senso di responsabilità e con genitori che molto spesso li difendono, è girato in maniera lucida, essenziale e dove ogni personaggio viene perfettamente delineato ed inquadrato nel proprio modo di essere. Anche tra gli studenti stessi, il regista riesce infatti a distinguere l'uno dall'altro consegnando allo spettatore un ritratto distinto di ognuno di loro, anche se in essi, e nel film, sono presenti troppi luoghi comuni che vanno dagli studenti ai professori. Luoghi comuni che fanno risultare a volte il film troppo lontano dalla realtà. Tuttavia alcuni di questi eccessi di semplificazione però possono essere perdonati ad un'appassionata opera prima (quasi autobiografica) come questa, di un regista giovanissimo che si sforza, nonostante la rabbia, di comprendere le fragilità e conservare sguardi compassionevoli, e che ha l'intelligenza di lasciare un finale aperto a mille spunti di riflessione. Giacché è con la mirabile figura del professore (mirabilmente interpretato da Igor Samobor), soprattutto per ciò che concerne la sua personalità di uomo severo ma giusto e per questo poco accettato da tutti, studenti e colleghi insieme (figura forse rara nelle scuole di oggi), che il regista sloveno presenta le difficili e scomode tematiche dell'autorità (di un sistema che si sta sempre più piegando al volere degli studenti), della disciplina severa, dei metodi educativi e di come affrontarle al fine di formare una società di individui retti, preparati nonché equilibrati, perché in fondo a questo scopo dovrebbe servire più che altro l'insegnamento nelle scuole. Certo, la pellicola presenta problemi nel ritmo, poiché a volte è troppo lento (a volte poi esagera e come detto è semplicistico e pieno di luoghi comuni), ma è grazie alla buona regia, all'efficace comunque montaggio, alla funzionale fotografia e alle musiche (non eccezionali ma perfette) che il film, intenso, interessante e tematicamente importante è certamente un prodotto riuscito e sicuramente da vedere. Voto: 7-
Il personaggio Tarzan ha sempre catturato l'attenzione del pubblico, sia nella serie di romanzi di Edgar Rice Burroughs sia nei vari adattamenti cinematografici. E così, dopo l'esperienza con gli ultimi 5 capitoli di Harry Potter, David Yates (che ha all'attivo già due spin-off della saga del maghetto, uno già uscito l'altro prossimamente) si mette di nuovo dietro la macchina da ripresa per raccontare la storia di Tarzan. E lo fa ribaltando quasi completamente i ruoli, rivoltando gli eventi in favore di un Tarzan in fuga dalla vita borghese e inserendo la storia in un contesto storico credibile. Una scelta che poteva sembrare azzardata (e in parte lo è), ma che soddisfa pienamente, giacché ottima è l'idea di sorvolare sulla tanto conosciuta origin story, che si vede comunque brevemente in una serie di flashback sparsi in tutto il film. The legend of Tarzan, film del 2016 diretto dal regista britannico, sin da subito infatti, si presenta come un sequel rispetto al canone tradizionale, con Tarzan (che ora si fa chiamare John Clayton III) e sua moglie Jane costretti ad abbandonare gli agi della loro tenuta inglese per tornare in Congo. La missione è salvare la loro terra dalle avide mani del re belga Leopoldo e del suo uomo di fiducia, Leo Rom, pronto a creare, grazie all'aiuto di un vecchio nemico di Tarzan (che non sa di essere al pari del suo rivale pedina di scambio per un complotto), un impero basato sulla schiavitù degli indigeni e sull'estrazione intensiva di diamanti. Tuttavia la pellicola in verità, seppur è senza dubbio ammirevole il desiderio del regista di salvare Tarzan dalla piatta omologazione del blockbuster moderno, raggiunge risultati altalenanti. Non solo perché questo riadattamento (comunque solido) è privo di guizzi narrativi o intuizioni registiche, ma perché il senso di già visto è ricorrente, anche se la storia, per quanto semplice e prevedibile, non risulta mai banale, facendosi seguire dall'inizio alla fine. Il film difatti, sorretto da una fotografia efficiente, da una colonna sonora intrigante e da location mozzafiato (la foresta affascinante e variopinta del Congo), seppur parta con tutti i pregi ma anche i difetti del caso (cominciando da uno script che poco scava nei personaggi ma che comunque si 'salva' durante il percorso narrativo lineare ed asciutto), riesce a farsi apprezzare. Proprio perché la e nella pellicola (un inno ai diritti umani ed una denuncia al razzismo e alla schiavitù), seppur non raggiungendo la perfezione di altre pellicole odierne, il contesto, i costumi, gli animali 3D e animazioni fanno il loro dovere (fatta eccezione per alcune alquanto inverosimili sequenze). Infatti nel corso di due ore che procedono al galoppo, il film (inizialmente lento ma che mantiene un ritmo incalzante per gran parte del tempo, non stancando e lasciandosi seguire senza problemi), fa il suo dovere assicurando allo spettatore momenti in cui si ride, ci si emoziona e si rimane a bocca aperta per alcune sequenze spettacolari, in primis quella del combattimento di Tarzan contro uno scimmione. In tal senso, grazie all'uso di effetti speciali accattivanti e ben orchestrati (ma non perfetti) il film prende forma e permette allo spettatore di immergersi in un mondo nuovo e intrigante, pieno di sfumature e di momenti caratterizzati da una dolcezza, forse inutile ma giustificata (a tal proposito non ho trovato troppo sdolcinata la storia d'amore tra i due protagonisti, che uniti e separati di continuo, riescono ad intraprendere ognuno la propria strada affrontando ogni sfida in modo completamente autonomo ma allo stesso tempo complementare). Perché a questi si contrappongono inseguimenti, scene di lotta e di peripezie, ma anche molta suspense e adrenalina allo stato puro. Questo grazie, non solo ai molti temi che affronta il film, ma anche a tutti gli attori perfettamente in parte. Da Alexander Skarsgård, un perfetto Tarzan non solo fisicamente, ma soprattutto espressivamente, a Margot Robbie (che fa sempre la sua porca figura), e da Djimon Hounsou (perfetto gladiatore africano) e Samuel L. Jackson (ironicamente interessante), fino ad un riuscitissimo villain interpretato da Christoph Waltz, che sembra aver appena dismesso la divisa nazista di Bastardi senza gloria. Insomma nulla viene lasciato in sospeso, anche se il finale è un po' scontato e prevedibile, ma (come è giusto che sia) non poteva mancare il lieto fine. In definitiva difatti, seppur questo è un film senza infamia e senza lode, né perfetto ne memorabile, ma neanche brutto, siamo di fronte ad un film niente male, che tenta di rinverdire una saga da tempo "morta" e rivista molte (troppe) volte, ben confezionato e senza particolari pretese. Voto: 6
Guarda, dei quattro film non mi attira nulla, forse giusto Class Enemy per le tematiche scolastiche, non se ne vedevano da tempo.
RispondiEliminaPer il resto, son contento per te delle belle notizie (o delle cose in via di risoluzione)^^
Moz-
Neanche Tarzan? Comunque davvero, se ti capita vedilo Class Enemy ;)
EliminaGrazie, sperando fili tutto liscio :)
Ho visto solo Tarzan, per me film che ho adorato, sia perché non è la solita storia ma un sequel (adorato come Pan che era un prequel e non l'ennesima rivisitazione) e per l'attore, che adoro per True Blood, qui troppo in forma, è una bestia (di muscoli) confronto al mingherlino spillungone che era. Pensa che manco mi ricordavo ci fossero Jackson e Robbie... 😝
RispondiEliminaComunque come per Autopsy ecc. ecc. concordo con ciò che scrivi ma ne esco molto più soddisfatto!
E io che credevo che con Tarzan fossi stato troppo clemente, e invece qualcuno d'accordo con me c'è, anche se io in verità quello di Pan, quella versione "musicale", ho un po' odiato...
EliminaSkarsgård l'ho visto in tanti interessanti film, perché True Blood non mi ha mai attirato, comunque soddisfatto anch'io del tuo commento positivo ;)
Sì, mi ricordo di Pan, ne abbiamo parlato proprio qui da te 😉
EliminaDovrei controllare la filmografia del biondone perché mi è capitato molto di rado e non era mai protagonista (l'ultima volta di recente su 13 Se Perdi Muori).
Io l'ho visto recentemente in Crazy Dirty Cops, Zoolander 2 e Hidden, ma tutti mediocri film, meglio precedentemente a partire da Cani di paglia ;)
Elimina