Negli ultimi mesi Sky ha proposto ai suoi spettatori, tramite la dicitura "a pochi mesi dalle sale", alcune commedie italiane in prima visione, in questo caso specifico quattro pellicole, e quindi quale migliore occasione come questa, tastando così il polso alla commedia di genere, per capire, dopo l'ovvia visione, quale sia il livello della commedia italiana moderna?. Ebbene, le mie perplessità e i miei dubbi, siccome ultimamente mi trovo spesso a valutare mediocremente tante commedie soprattutto italiane, hanno avuto conferma. Perché in Italia solo una commedia su 4 riesce nel suo intento (come potrete vedere dalle mie recensioni), riesce a raggiungere la sufficienza piena (di più è alquanto raro), mentre la metà sono da bocciare (probabilmente era meglio non produrre nemmeno) e l'ultima da "rimandare". Certo direte voi, questo è soprattutto un giudizio più soggettivo che oggettivo, tuttavia è innegabile non accorgersi di questa crisi comica, di come molte commedie ricamano sempre intorno agli stereotipi, alla banalità ed alla volgarità, insieme ad una prevedibilità e una superficialità di fondo, e che solo pochissimi prodotti grazie a sprazzi di originalità, genialità ed imprevedibilità riescono ad alzare la qualità del Made in Italy (non è un caso che film come Perfetti sconosciuti o alcuni della cinematografia di Checco Zalone, Quo vado?, l'abbiano fatto). L'arte della nobile commedia all'italiana infatti (assente oramai dagli anni '70 e '80) ultimamente latita. Questo perché un tipo di commedia fece capolino vent'anni fa (il cinepanettone, con l'idea che per far ridere bisognava essere volgari), e da allora tutte, cercando di realizzare il successo di un "franchise tematico" che a parte nei primi film fece furore fino a diventare però successivamente un vizio (un qualcosa di ormai abusato e di basso livello), finiscono nel vortice della mediocrità. Per fortuna però alcuni nuovi soggettisti e sceneggiatori, seguendo l'insegnamento dei grandi maestri che ci facevano ridere o sorridere, e slegandosi in gran parte da quel tipo di commedia, brillantemente provano a rialzare il tiro, anche se tutti non ci riescono. Tuttavia quei pochi lo fanno e anche bene, seppur non eccezionalmente (Piuma e L'ora legale gli esempi ultimi da me constatati in positivo). Ed è paradossale tuttavia che al centro di questa nuova linfa ci sia un solo attore. Difatti in questi anni di profonda crisi della commedia all'italiana, l'unica autentica certezza sembra esser diventata Edoardo Leo. Con lui, infatti, la commedia all'italiana sembra aver trovato quel giusto equilibrio tra innovazione e tradizione. Che si tratti di un film da lui diretto e interpretato o come nel caso dell'ultimo film della mia selezione solamente interpretato (anche se in Io c'è il suo contributo sembra esserci pure nel soggetto e nella sceneggiatura), il cinema di e con Edoardo Leo presenta sempre delle caratteristiche ben precise che lasciano immaginare che l'attore romano, negli ultimi anni, scelga con molta attenzione le sceneggiatura da sposare senza lasciarsi "corrompere" dal vil denaro (fulgidi esempi il brillante Loro chi? e la spassosa trilogia di Smetto quando voglio). Massimo rispetto per Leo, dunque, che in poco più di cinque anni ha saputo donare nuova linfa al genere italiano per eccellenza imponendosi come miglior commediante del momento, sperando che di attori, registi e sceneggiatori così nel futuro ci siano ancora, perché comunque adesso il livello della commedia italiana è intorno alla mediocrità.
Dopo il mediocre Mamma o Papà? torna il team formato da Riccardo Milani/Antonio Albenese/Paola Cortellesi. I risultati sono leggermente migliori ma nel complesso comunque e ugualmente insufficienti. Vengono nuovamente affrontati temi legati alla famiglia stavolta prendendo spunto da una specie di Indovina chi viene a cena, ma Come un gatto in tangenziale, film del 2017 del regista romano, e non è un caso che il titolo è un'espressione, utilizzata prevalentemente a Roma e dintorni, per esprimere un parere su una cosa, una situazione che si presume avrà una durata molto breve, come, appunto, un gatto che cammina sulla tangenziale: di vita breve (e giustappunto come il film stesso, vedibile però dimenticabile in fretta), puntando e giocando nuovamente su una dialettica antagonista e sugli stereotipi di genere, dopotutto la storia è quella che attinge dalla classica commedia italiana, ovvero il confronto tra due opposti, due mondi paralleli che si guardano con diffidenza e che non sono destinati a incontrarsi (e non è un caso che abbondino gli stereotipi sulla borghesia d'alto bordo snob e piena di sussiego e sul proletariato ruspante e abituato all'arte d'arrangiarsi), non riesce ancora una volta a centrare il bersaglio. Il film infatti, che racconta di Giovanni, che da sempre a favore dell'uguaglianza e della condivisione, vede vacillare le sue convenzioni quando la figlia (appena tredicenne) decide di fidanzarsi con Alessio, un ragazzo della degradata periferia romana, e che troverà nella madre di lui ragazzo un'insospettabile risorsa per far sì che i due si lascino (i loro mondi sono incompatibili o almeno così sembrerebbe), è, non solo moralmente banale e bigotto, ma anche forzatamente e inutilmente caricaturale. Perché anche se Come un gatto in tangenziale non disdegna la risata (e non manca più di un momento divertente), tuttavia questa è spesso figlia dell'istrionismo dei due attori coinvolti, che non possono però fare tutto da soli. Difatti il tentativo del regista è quello di cavalcare gli stereotipi per mettere in scena una tematica attuale come l'enorme forbice che c'è tra la periferia (coatta, "multiculturale", criminale) e la borghesia intellettuale. Un film che affronta l'incomunicabilità attraverso l'avvicinarsi di due personaggi distanti, costretti a condividere un'esperienza (il fidanzamento appunto dei rispettivi figli). Tuttavia il tentativo, pur non essendo comunque fallimentare, non sembra pienamente riuscito perché c'è la volontà di estremizzare il tutto, per giocare con i rispettivi comportamenti che non riescono a concepire il compromesso, se non nelle battute conclusive. E allora ecco che si assiste a una ripetitività narrativa e situazionale che non aiuta il film, anzi sembra chiuderlo in un paradosso inconcludente, passando da luoghi comuni (la politica è tutta un "magna-magna") a invettive che condannano il menefreghismo produttivo. E quindi si assiste a un prodotto che delinea, in maniera ironica, le differenze sociali senza però riuscire a far riflettere sul perché i due mondi non possano convivere e aiutarsi l'un l'altro. E perciò nel film e nella sua sceneggiatura, sceneggiatura che nonostante la simpatica comicità di Paola Cortellesi, risulta prevedibile nella risoluzione, inutile in altre soluzioni (le due sorelle cleptomani e un Claudio Amendola simpatico ma che arriva troppo tardi) e scontata dalla partenza (in 2 minuti ha già detto tutto senza nessun prologo o spiegazione alcuna), a restare sono gli sketch comici scontati, sentimenti e moralismi stereotipati, un tocco di politically correct, insomma gli ingredienti di un cinema che non va da nessun parte. Un cinema, un film, con molta apparenza e poca sostanza che scorre lasciando quasi il nulla. Voto: 5,5
Commedia corale in cui viene analizzata la reazione di un gruppo all'improvvisa mancanza di Internet, Sconnessi sbanda in maniera evidente quando l'esperimento riesce e la nevrosi comincia a montare. Ed è proprio in quel delicato passaggio che questo prodotto del 2018 diretto da Christian Marazziti comincia a perdere d'interesse, dopotutto l'impasse deve trovare una via d'uscita, la narrazione deve evolversi, invece ciò che gli sceneggiatori scelgono di fare è di accatastare umorismo spicciolo in aggiunta a una sequela di situazioni sempre più esasperate. Il film e la trama infatti, che racconta di alcuni componenti di una famiglia allargata che si ritrovano isolati in uno chalet di montagna senza connessione internet e che dovranno quindi confrontarsi gli uni con gli altri comunicando direttamente tra loro per riscoprire i legami di famiglia, si riduce solamente come espediente necessario a mostrare le reazioni (in alcuni casi immotivate) di questa (strana) cerchia familiare di fronte alla mancanza improvvisa di una tecnologia che è diventata ormai parte della loro (nostra) vita, non facendo per questo chissà quali rivelazioni. Il regista difatti non approfondisce l'aspetto sociologico o psicologico, che poteva essere interessante (l'analisi dei personaggi causa la breve durata del film in rapporto al notevole numero di caratteri non arriva a completarsi), mantenendosi invece su di un livello superficiale e accontentandosi di fornire mero intrattenimento, con qualche indovinato siparietto comico, ma senza minimamente graffiare. Certo, il film per questo si segue agilmente, ma il suo passo eccessivamente chiassoso e frenetico non aiuta. Giacché Sconnessi, seppur sulla falsariga di Perfetti sconosciuti, prova a fare i conti con gli smartphone in quanto scatola nera della nostra società, anche se in questo caso, più che i segreti in essi contenuti, a contare è la loro sparizione, motore comico di tutta l'esile e un po' sgangherata vicenda, a differenza del film di Paolo Genovese, la sceneggiatura (scritta dallo stesso Marazziti insieme a Michela Andreozzi e Massimiliano Vado) è piuttosto schematica e senza appunto particolare approfondimento psicologico dei personaggi. E questo è un po' il limite perché rende la storia (in cui purtroppo la scrittura di gag e situazioni è tutt'altro che dosata e calibrata, poiché dominano gli eccessi da avanspettacolo lasciati andare a briglia sciolta e senza costrutto, inoltre abbondano i facili doppi sensi su wi-fi, internet e annessi, con la sconnessione a fare da isterico e fastidioso fil rouge) piuttosto prevedibile, con un finale che vira molto sui buoni sentimenti ma senza particolare mordente. Sconnessi infatti, rimanendo ingabbiato da una sceneggiatura scialba e inconcludente, non decolla mai (nonostante il buon livello del cast). Perché in definitiva sì è di fronte a un prodotto che piuttosto che interrogarsi sulla deriva social, preferisce arenarsi su una paradossale escalation dalla quale ogni personaggio (attore) esce sconfitto. Infatti le pretese sociologiche annegano ben presto nella farsetta volatile, che strappa qualche sorriso sul momento, in particolare grazie ai tempi comici di Ricky Memphis e alla verve di Stefano Fresi alle prese con un personaggio bipolare, ma che si dimentica subito al termine della visione. Mentre Fabrizio Bentivoglio, la stanca caricatura di un intellettuale qualunque che sposa la giovane ragazza di turno (una Carolina Crescentini qui decisamente sopra le righe), Giulia Elettra Gorietti (che non perde l'abitudine di spogliarsi) e tutti gli altri, proprio non convincono e abbassano il valore della fragile, banale e semplice commedia. Una commedia piatta nella confezione e scialba nella struttura, cinematograficamente evitabile. Voto: 5
A partire da un curioso spunto on the road, che si rapporta palesemente con un vissuto da figlio d'arte e con i retaggi famigliari di un'esperienza prossima all'autore, Alessandro Gassmann torna dietro la macchina da presa dopo Razzabastarda (film che tuttavia non ho visto e forse mai vedrò..) per il racconto di un viaggio in cui un padre ingombrante e carismatico fa i conti con i propri cari. Un dispositivo non nuovo, al quale Il premio, film italiano del 2017 diretto e interpretato da Alessandro Gassmann, si appoggia per orchestrare uno spostamento da Roma a Stoccolma (dove un anziano scrittore dovrà arrivare per ritirare il premio Nobel alla Letteratura) in cui succederà di tutto e molte tensioni sopite (banalmente) verranno a galla, tra scoperte e malinconie, tra durezza e risate (dopotutto mica normale è la famiglia di Giovanni Passamonte). Dunque poteva essere una prova ricca d'interesse, anche grazie alla partecipazione di Gigi Proietti, in un ruolo atipico rispetto a quelli brillanti, cui il grande artista ci ha abituato, giacché usando il suo carisma recitativo il tentativo in partenza sarebbe anche apprezzabile, soprattutto per la vena riflessiva e al contempo brillante con cui il regista prova a intavolare un confronto generazionale, ma gli esiti finali lo sono molto meno. Il film infatti prende subito la deriva della solita commediaccia all'italiana, farsesca quando va bene e volgare in numerosi snodi. Il tutto difatti si riduce specialmente nel primo tempo ad una serie di gag scontate e con alcune trovate veramente surreali, migliora nella seconda parte ma il danno ormai è fatto. Non per caso Il premio non decolla mai, perché i personaggi, per quanto definiti nelle singole caratteristiche, sono forzati all'inverosimile e appaiono calati dall'alto in maniera innaturale (poco credibile) dentro il racconto, un racconto che continua in questo modo, con tante scene poco credibili, con dialoghi molto forzati, fino alla fine in cui raggiunge l'apoteosi (del non credibile) con l'irrompere nella scena della premiazione, con momento retorico finale più che prevedibile: ben diverso era l'argentino Il cittadino illustre (confrontare i due discorsi di accettazione del premio per credere). Ancor più farraginosa, al di là della regia diligente, è la sceneggiatura, firmata dal regista, Walter Lupo e Massimiliano Bruno, che alterna parentesi più misurate ad altre stonate e grossolane in cui dominano la risata facile, lo spunto grottesco ma mai fino in fondo, gag triviali da cinepanettone qualunque e scombinate sortite di grana grossa, momenti il più delle volte imbarazzanti e spesso scollegati l'uno dall'altro che fanno perdere la trebisonda al film, un film in cui i tanti spunti e registri sono mal dosati e non si armonizzano mai tra di loro, il finale poi chiude il cerchio in maniera frettolosa e irrisolta e la sensazione conclusiva è quella di un'occasione malamente persa. E tutto nonostante il buon cast, tra cui un Rocco Papaleo sempre bravo anche se condannato alla macchietta (con tanto di vizietto notturno da malato di porno) e una Anna Foglietta che meriterebbe uno spessore maggiore ai suoi personaggi, mentre Matilda De Angelis, rivelazione di Veloce come il vento, dovrebbe evitare di farsi risucchiare nella spirale dei volti nuovi che vengono chiamati a far da tappabuchi in numerosi film, con il rischio di bruciarsi in fretta. Dopotutto se in un film manca una buona sceneggiatura, puoi avere delle buone idee e dei bravi attori ma il risultato finale sarà deludente. Perché con una buona sceneggiatura e un impronta meno da commedia, i temi affrontanti (tipo il rapporto generazionale padri figli) avrebbero potuto essere più credibili, così invece perdono di spessore così come gli attori sembrano meno bravi di quello che in realtà sono. L'unico che forse un po' si salva (o almeno risulta più credibile nel suo personaggio) è Gigi Proietti. Non si salva invece il film, un film ordinario, anche perché il grande colpo a sorpresa non arriva. Voto: 4
A dispetto di quello che si potrebbe pensare, Io c'è, pellicola del 2018 diretta da Alessandro Aronadio, è una commedia ironica e dissacrante (caustica e divertente) ma mai volgare. Il film e il regista soprattutto infatti, realizza quella commedia impeccabile che fa centro sotto un po' tutti i punti di vista (tuttavia solo parzialmente in alcuni casi). In Io c'è difatti c'è una storia ori-geniale, un senso dell'umorismo costante ma che non eccede mai ed un cast di attori assolutamente in stato di grazia. Giacché in questa commedia, che racconta di un gestore di un bed & breakfast, che subendo la "concorrenza sleale" di un convento di suore, si inventa una religione per non pagare le tasse (situazione che ovviamente creerà assurde situazioni), tutto è al suo posto, tutto è perfetto. In primissima istanza si lascia apprezzare il coraggio dell'autore di aver voluto ironizzare, talvolta in maniera velata ed altre in modo più diretto, su un argomento che nel nostro Paese è sempre un po' tabù: la religione. Ma la capacità di Aronadio è quella di scherzare sulle religioni, tutte e non solo quella cristiana, in modo intelligente e spiritoso senza correre il rischio di poter offendere la sensibilità di nessuno. Quelli che vengono messi alla berlina, infatti, non sono le religioni in quanto tali bensì molti usi e costumi legati ai culti sacri, tanti dei quali hanno davvero dell'incredibile senza il necessario bisogno di esagerazioni al fine di generare risate. In questo Io c'è fa un centro clamoroso e molte sequenze, come il pernottamento del protagonista al convento delle suore o la genesi dello Ionismo (che poi in verità come religione non è un'idea del tutto malvagia, essere dio di se stessi e quindi cercare in noi la forza per andare avanti e fare le cose senza aspettare che cadano dal cielo, non è una brutta idea), riescono a suscitare grasse risate pur mantenendo il massimo rispetto verso qualunque credo religioso. E comunque Io c'è, che non è un film religioso, si rivela però e inaspettatamente profondo e intenso. La prima parte è brillante, divertente e nonostante l'impronta cinica e politicamente scorretta mai offensiva. La seconda, invece, si sposta su una dimensione più filosofica ed esistenziale, affrontando i temi della morte e della libertà di cura. Nel complesso, il film è equilibrato, dissacrante e provocatorio nei modi giusti. Anche perché Io c'è riflette sull'importanza del credere e sulla responsabilità delle religioni. Questo perché oltre alla riuscita sotto un punto di vista etico-concettuale, la sceneggiatura del film (brillante e in grado di mantenere il ritmo e la vis comica) si distingue in tutte le sue sfumature che, al di là del già citato senso dell'umorismo costante, riserva un lavoro magistrale sulla caratterizzazione dei personaggi in scena. I tre protagonisti sono perfetti e se non occorre aggiungere altro per sottolineare i meriti di Edoardo Leo, va evidenziata la grandiosità di Giuseppe Battiston (che nel film interpreta l'esaltato scrittore-ideologo Marco Cilio, un personaggio-spalla perfetto a cui sono affidati molti dei momenti più divertenti del film). Notevole anche l'interpretazione di Margherita Buy, la sorella del protagonista, che torna a prestare una performance divertente lontana dai suoi soliti cliché filo-drammatici a base di ansia e depressione. Ma Aronadio non si accontenta di scrivere alla perfezione i tre protagonisti, no, ci fornisce un campionario di psicologie interessanti anche per ciò che riguarda tutti i personaggi secondari, tra cui citiamo la brava Giulia Michelini e un simpatico Massimiliano Bruno. Tutti quindi al servizio di un film divertente, ma con interessanti spunti di riflessione, decisamente caustico e, con una satira feroce e audace verso le più diverse forme di religione. Un film, un prodotto di buon intrattenimento, che si inserisce brillantemente nel filone di questa nuova e promettente corrente della commedia italiana, che sta cercando di tornare alla corrente di un tempo, quella divertente e cinica al tempo stesso che sapeva ironizzare in modo pungente sui vizi e le virtù di noi italiani, che sembra ultimamente latitare. Un film perciò, seppur non perfetto e non eccezionale, decisamente originale, geniale e ironicamente divertente da vedere. Voto: 6+
A dispetto di quello che si potrebbe pensare, Io c'è, pellicola del 2018 diretta da Alessandro Aronadio, è una commedia ironica e dissacrante (caustica e divertente) ma mai volgare. Il film e il regista soprattutto infatti, realizza quella commedia impeccabile che fa centro sotto un po' tutti i punti di vista (tuttavia solo parzialmente in alcuni casi). In Io c'è difatti c'è una storia ori-geniale, un senso dell'umorismo costante ma che non eccede mai ed un cast di attori assolutamente in stato di grazia. Giacché in questa commedia, che racconta di un gestore di un bed & breakfast, che subendo la "concorrenza sleale" di un convento di suore, si inventa una religione per non pagare le tasse (situazione che ovviamente creerà assurde situazioni), tutto è al suo posto, tutto è perfetto. In primissima istanza si lascia apprezzare il coraggio dell'autore di aver voluto ironizzare, talvolta in maniera velata ed altre in modo più diretto, su un argomento che nel nostro Paese è sempre un po' tabù: la religione. Ma la capacità di Aronadio è quella di scherzare sulle religioni, tutte e non solo quella cristiana, in modo intelligente e spiritoso senza correre il rischio di poter offendere la sensibilità di nessuno. Quelli che vengono messi alla berlina, infatti, non sono le religioni in quanto tali bensì molti usi e costumi legati ai culti sacri, tanti dei quali hanno davvero dell'incredibile senza il necessario bisogno di esagerazioni al fine di generare risate. In questo Io c'è fa un centro clamoroso e molte sequenze, come il pernottamento del protagonista al convento delle suore o la genesi dello Ionismo (che poi in verità come religione non è un'idea del tutto malvagia, essere dio di se stessi e quindi cercare in noi la forza per andare avanti e fare le cose senza aspettare che cadano dal cielo, non è una brutta idea), riescono a suscitare grasse risate pur mantenendo il massimo rispetto verso qualunque credo religioso. E comunque Io c'è, che non è un film religioso, si rivela però e inaspettatamente profondo e intenso. La prima parte è brillante, divertente e nonostante l'impronta cinica e politicamente scorretta mai offensiva. La seconda, invece, si sposta su una dimensione più filosofica ed esistenziale, affrontando i temi della morte e della libertà di cura. Nel complesso, il film è equilibrato, dissacrante e provocatorio nei modi giusti. Anche perché Io c'è riflette sull'importanza del credere e sulla responsabilità delle religioni. Questo perché oltre alla riuscita sotto un punto di vista etico-concettuale, la sceneggiatura del film (brillante e in grado di mantenere il ritmo e la vis comica) si distingue in tutte le sue sfumature che, al di là del già citato senso dell'umorismo costante, riserva un lavoro magistrale sulla caratterizzazione dei personaggi in scena. I tre protagonisti sono perfetti e se non occorre aggiungere altro per sottolineare i meriti di Edoardo Leo, va evidenziata la grandiosità di Giuseppe Battiston (che nel film interpreta l'esaltato scrittore-ideologo Marco Cilio, un personaggio-spalla perfetto a cui sono affidati molti dei momenti più divertenti del film). Notevole anche l'interpretazione di Margherita Buy, la sorella del protagonista, che torna a prestare una performance divertente lontana dai suoi soliti cliché filo-drammatici a base di ansia e depressione. Ma Aronadio non si accontenta di scrivere alla perfezione i tre protagonisti, no, ci fornisce un campionario di psicologie interessanti anche per ciò che riguarda tutti i personaggi secondari, tra cui citiamo la brava Giulia Michelini e un simpatico Massimiliano Bruno. Tutti quindi al servizio di un film divertente, ma con interessanti spunti di riflessione, decisamente caustico e, con una satira feroce e audace verso le più diverse forme di religione. Un film, un prodotto di buon intrattenimento, che si inserisce brillantemente nel filone di questa nuova e promettente corrente della commedia italiana, che sta cercando di tornare alla corrente di un tempo, quella divertente e cinica al tempo stesso che sapeva ironizzare in modo pungente sui vizi e le virtù di noi italiani, che sembra ultimamente latitare. Un film perciò, seppur non perfetto e non eccezionale, decisamente originale, geniale e ironicamente divertente da vedere. Voto: 6+
Premetto che non l'ho visto, ma insomma mi stai dicendo che il film italiano più visto della stagione, sebbene undicesimo e dunque fuori dalla top ten stagionale, ossia Come un gatto in tangenziale, non è nulla di che?
RispondiEliminaLo sospettavo, ed è il motivo per cui mi fido poco del cinema italiano...
Ciao, Vincenzo
Sì, almeno io personalmente lo reputo così, proprio perché il livello sembra essersi abbassato da tempo e non sempre il botteghino alto è sinonimo di qualità ;)
EliminaAnche qui non ne ho visto nessuno, ero curioso di vedere Il premio, Io c'è e Come il gatto in tangenziale.. di quest'ultimo tanti me ne hanno parlato bene, sul fatto che è divertente..mah dovrei vedere di persona :)
RispondiEliminaSe hai letto almeno il voto che ho dato ai film, dovresti sapere quindi che l'unico secondo me meritevole di visione è Io c'è, mentre gli altri non tanto, compreso il tanto acclamato Come un gatto in tangenziale.. ;)
EliminaSeverissimo Pietro :) A me Io C'è è piaciuto tantissimo, e si meriterebbe un pochino di più di un 6+ (ma è un mio parere), anche Sconnessi mi è piaciuto tanto :) niente sono una che non porteresti mai al cinema ahahaha Come un Gatto in tangenziale invece non sono riuscita proprio a finirlo, ho preferito mamma o papà? delle due!
RispondiEliminaSevero ma giusto però...almeno dal mio punto di vista ;)
EliminaSe per vedere una commedia italiana probabilmente no, ma per film di altro genere ti ci porterei volentieri al cinema :)
Deluso da Mamma o Papà? non ho proprio intenzione di rivedere questa pessima coppia di attori! Mi sembra Insieme Per Forza (quello nuovo, non quello vecchio con Fox/Woods) da quello che scrivi... non ho neanche visto il trailer quindi conosco solo quello che hai scritto.
RispondiEliminaMi attira solo Io C'è per via di Leo e a quanto pare è l'unico che supera la sufficienza.
Ripasserò quando lo avrò visto per dirti la mia 😉
E' un po' diverso, almeno Insieme per forza non faceva finta di essere un altro tipo di film...
EliminaNon a caso Leo è il nuovo punto di riferimento comico italiano se si vuole fare centro ;)
Concordo con tutto quello che hai detto su questa categoria di film italiani anche se devo confessare mi manca ancora vedere tanti film dell'epoca d'oro della commedia italiana, quello che ho visto mi ha bastato comunque per capire il lento degrado verso il quale sta avanzando. Dei nuovi film di cui stai parlando, ho visto Io c'è, al cinema, ed è stato guardabile ma non mi ha impressionato molto e Come un gatto in tangenziale, visto a casa su sky e trovato anch'esso guardabile ma quando mi hanno offerto al cinema di vederlo gratis, ho scelto di non andarci per non sprecare il tempo.
RispondiEliminaInutile nascondersi in effetti, il degrado è ormai in atto...comunque hai fatto bene a non sprecare tempo per un film non così proprio eccezionale, anzi ;)
EliminaCome un gatto in tangenziale invece per me è il migliore di questi quattro: ironico, divertente e come al solito Albanese e la Cortellesi mi piacciono parecchio.
RispondiEliminaSconnessi non mi è dispiaciuto, più che altro perchè mi ha fatto divertire un sacco Stefano Fresi, per il resto film dimenticabilissimo.
Io c'è invece non mi è piaciuto per niente: banalizza il tema e ci scherza sopra nella maniera meno graffiante possibile, insomma un peccato.
Il premio non penso lo vedrò invece.
Ma almeno in Io c'è qualcosa di originale c'è, negli altri tutto è stato già visto....certo, non può mica bastare solo l'originalità, ma però è sempre meglio che ridere sempre per le stesse cose, le stesse battute..
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