L'ispirazione dichiaratamente autobiografica dell'esordiente Maya Forbes contagia lo stile di questo dramma familiare dolce-amaro dalla narrazione che procede leggera per aneddoti ed episodi più o meno cruciali, senza però premere mai sull'acceleratore del tragico, ma anzi costruendo una quotidianità perfino buffa. Affogato nella luce dorata della nostalgia, il film vive soprattutto nell'intensa performance di Mark Ruffalo, credibile ma mai sopra le righe, mai davvero folle ma indubbiamente tenero. Un discreto film quindi, adatto soprattutto per chi ama vite vissute. Un film che non ha aspetti particolari, è, come dire, la vita che scorre sullo schermo, tutto piuttosto prevedibile. E, come nella vita, ci sono momenti di gioia e di sofferenza, di commozione e di tristezza. Non è un grande film ma se si guarda in quest'ottica può piacere. Perché questa bella, sorprendente commedia di una debuttante come lo è lei, è davvero ben fatta e di buona fattura (tra i produttori c'è un certo J.J. Abrams). La regista, che aveva quasi un ossessione per questa storia, dato che ciò traspare in modo marcato dall'estrema cura nello script che nulla trascura ma che tutto cerca di rendere veritiero e avvolto da una luce amorosa e rispettosa per un padre molto amato a cui vuole rendere omaggio (come vediamo a fine film) per il coraggio con cui ha affrontato un matrimonio con due figlie, assumendosi notevoli responsabilità e adempiendole grazie alla fiducia riservatagli dalla moglie e dalle bambine. Coraggio non comune perché Cameron Stuart è affetto da un disturbo bipolare (chiamato altrimenti sindrome maniaco-depressiva) in cui a periodi di depressione e apatia si alternano periodi di maniacalità in cui la persona che ne è affetta si sente onnipotente e invincibile tanto da iniziare tanti progetti che gli frullano per la testa, come un vera e propria fuga delle idee, e che spesso restano incompiuti, negli intervalli il soggetto si comporta invece abbastanza normalmente. Coraggio perché a quei tempi non era visto di buon occhio. Lui che si era sposato con Maggie, una bella ragazza afro di umili origini, quando sembrava solo un po' strambo, brillante e divertente ed in più era membro di una nota famiglia molto facoltosa di Boston, invece quando si materializza la diagnosi lui ha già mollato, dopo più di una stranezza, l'Università di Harvard, non riesce a mantenersi un lavoro e la rigida famiglia lo ignora completamente. Siamo però nel 1978, e Maggie, pur amandolo, vorrebbe allontanarlo da casa, pensando al bene delle figlie, nate nel frattempo, alle quali vorrebbe dare un'istruzione migliore della sua e una vita meno difficile della loro, al limite della povertà e disturbata dalle stranezze del padre, che anche se tenero e affettuoso, non assume con regolarità il litio (unica terapia farmacologica efficace) e fuma esageratamente, quando non beve alcolici. La decisione di lei di iscriversi al Master of Business Administration della Columbia University, che è a New York, la induce ad un atto di fiducia e di coraggio lasciando le figlie al padre in Massachusetts. Per 18 mesi Maggie tornerà ogni week- end dalla sua famiglia e si renderà conto che la fiducia e l'amore hanno reso Cam un padre-madre perfetto nell'accudire le bambine, badando all'igiene personale, facendo della cucina il suo punto di forza, in cui viene da loro emulato, accompagnandole a scuola, facendole studiare, facendole divertire con le sue trovate e facilitando, nonostante alcuni pregiudizi, la loro amicizia con altri coetanei. Cam, sopra le sue stesse forze, fa di tutto per accontentare le figlie, anche se a tratti ha avuto qualche piccola caduta o sono volate parole dure nei suoi riguardi dalle intransigenti e viziate bambine, e viceversa, ma sono momenti fugaci e facilmente dimenticabili, data la forza del legame che ormai li unisce e che verrà messa alla prova alla fine del Master, riuscendo però anche dopo a tenere duro.
Nonostante una certa vena ovviamente autobiografica e anche una non certo originalissima trama, la sensibilità interpretativa e la luminosa presenza scenica dell'intenso Mark Ruffalo permettono alla pellicola di deviare dalle abusate rotte indie-familiste. La regista-autrice infatti (già figlia, quella maggiore, la "bianca"), consapevole di avere già le risposte, così come dei rischi (derivatività, banalità, disinteresse, retorica del ricatto, gli eccessi di sentimentalismo ed il troppo sentire/subire l'argomento), si "limita" ad un ritratto (di famiglia, innanzitutto) semplice, lineare, conciso (un'ora e mezza di durata, una rarità, di questi tempi), evitando di scadere nella maniera o di affidarsi a toni enfatici. L'importanza, d'altronde, più che alla ricostruzione d'epoca, ed oltre che alla generale descrizione psicologica ed intima della famiglia, è per gli oggetti, vere testimonianze che legano il filo dei ricordi alla ricerca di un senso e di un perché. Fotografie, filmini, automobili, scaffali, cartoni, biciclette, lattine di birra, roba smontata-rimontata-smontata ovunque, un complesso (umano-identitario) inafferrabile di stramberie, gesti, (re)azioni, pensieri. Pochi fronzoli, alla larga da (pretestuosi) sottotesti e voli pindarici teorici, la dimensione ed i tempi sono per il racconto, per i personaggi. Insomma, la regista Maya Forbes racconta una storia (la sua), alla ricerca di un delicato equilibrio che Mark Ruffalo, con la sua solida, credibilissima prova, ammanta di un alone di autenticità prezioso. La narrazione poi è vivacizzata da una godibile colonna sonora anni 70, e inframmezzata da inserti di filmati in stile 'home movies', che la rendono più naturale. E' evidente che c'è un tentativo di edulcorare una storia che ha inevitabilmente momenti drammatici, imbarazzanti e spesso commoventi, forse anche perché nei ricordi spesso prevalgono i momenti più belli. Quando la malattia seria entra in un film, il pietismo e l'agiografia hanno spesso il sopravvento, qui no e qui sta il pregio della sceneggiatura, della regia e della recitazione di tutto il cast. La malattia viene esorcizzata e mai veramente menzionata, non ci sono dottori o psicologhi. Le bambine sono più che all'altezza degli attori principali e sono presenti in tutto il film, soggetti fondamentali delle vicende e del clima che si crea attorno a questa inimitabile famiglia. Mark Ruffalo è un attore con una lunga e più che dignitosa carriera, ma qui sembra aver trovato il ruolo della sua vita, esprimendo in mille sfumature del volto e del corpo, specialmente dello sguardo, sentimenti, paure e talora menefreghismo se non vuoto del soggetto bipolare, tutto senza andare mai sopra le righe. In fin dei conti il film però è forse troppo ottimista, nel senso che, si può essere ottimisti se nella tua famiglia c'è un babbo affetto da disturbo bipolare? Probabilmente si, e poi in America e soprattutto in questo film tutto è possibile. Perché se l'amore c'è, e il babbo nel fondo è un tenerone pieno di allegria e di spirito sessantottesco, e la mamma è dolce, non recriminante e ha una pazienza e una determinazione infinite, e le bimbe una resilienza e una capacità di adattamento sovrumane, ebbene sì, tutto è possibile. E il bello è che arrivi alla fine del film credendoci un poco, persino un poco troppo, grazie a quattro attori (due grandi, due piccole) convincenti, ad una sceneggiatura magica nel dipingere con spudorata naturalezza la più improbabile delle situazioni, giocando con leggerezza su vari tasti, dal drammatico al sentimentale, dal serio al comico. E su due punti non puoi fare a meno di essere d'accordo con tutto il cuore, cose che sembrano essenziali nel comune sentire, una sana follia te le rivela inessenziali e, per quanto questo ci sorprenda sempre, la natura umana ha infinite possibilità di adattamento, soprattutto quando sei un bambino o conservi dentro di te un po' del bambino che sei stato. Insomma, un film, interessante e vivace, emozionante e commovente, divertente ed esuberante, ma soprattutto bello, ma bello davvero. Voto: 6,5
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