venerdì 31 maggio 2019

Gli altri film del mese (Maggio 2019)

Proprio ieri vi ho spiegato nel dettaglio alcuni piccoli accorgimenti nel post in oggetto, ma non vi avevo ancora rivelato il motivo per cui oltre al meno tempo che impiegherei nel "compilare" i due post di fine mese, ho deciso di rivoluzionare il tipo di banner utilizzato per i post. Ebbene, il motivo è semplicemente quello che in questo modo, soprattutto per quanto riguarda il lato social ed interattivo del blog (Twitter, Facebook ed Instagram), produrrei più curiosità nel visitare il post, perché va bene che delle visualizzazioni mi interessi poco e niente, ma una visita in più e il raggiungimento di più persone è sempre preferibile. Se faccio bene lo diranno i numeri, ultimamente sempre più bassi, ma è comunque un buon modo per non essere "prevedibile" e stantio. Comunque al di là di ciò, a differenza dei peggiori, in questo post degli altri film del mese, la recensione sarà preceduta dalla locandina e non da un immagine o immagini. Detto questo, cambiamo argomento. E mi soffermo sul lato personale che bloggeristico, anche se a dirla tutta in questo mese di maggio, mese delle ciliegie che quest'anno tardano ad arrivare, praticamente non è successo di particolarmente importante, sia in senso positivo che negativo, e quindi la chiudo qui, buona lettura.

giovedì 30 maggio 2019

I peggiori film del mese (Maggio 2019)

L'avevo già anticipato 10 giorni fa del cambiamento in atto, di come sarebbero cambiati i classici due post cinematografici di fine mese, ma se ancora non siete a conoscenza di questo cambiamento, eccomi oggi a spiegare cosa esso comporti. Per prima cosa come potete notare, il banner non contiene più le locandine dei film, ma un'immagine generica che sarà successivamente e mensilmente aggiornata (i mesi intendo). Per secondo, anche le recensioni di questi peggiori film hanno lo stesso stile di tutte le altre recensioni, senza alcuna distinzione. Infine, e questa è una novità, per spezzare un po', due banner con le immagini dei film recensiti. Non cambia invece la parte finale del post, che ha come consuetudine la lista dei film evitati e scartati preventivamente. E quindi non vi resta che leggere, vedere e se possibile commentare, perché nient'altro ho da dire.

Slumber: Il demone del sonno (Horror, USA, Gran Bretagna, 2017)
Tema e genere: Un horror che tratta di una patologia reale, la paralisi del sonno.
Trama: Alice è una specialista del sonno, perseguitata dalla misteriosa morte del fratello minore avvenuta di notte. Il caso di un'intera famiglia affetta da problemi del sonno la porterà ad abbandonare ogni logica scientifica per combattere contro un oscuro demone.
Recensione: Lo spunto della paralisi del sonno è molto comune: anche a me è capitato qualche volta, fortunatamente in maniera leggera e senza visioni. L'impianto tensivo in questo film non appare però capace di impressionare chi guarda, limitandosi a giocare con il sonoro nelle scene clou e mostrando quel tanto che basta per catalogarlo nel genere horror. Ma è davvero poco per strappare un voto positivo e Slumber risulta, alla fine della fiera, un modesto prodotto per l'intrattenimento, di quelli che potevano fare qualcosa in più e invece finiscono tra la massa dei dimenticabili. Il film infatti, rivela una pochezza registica e di scrittura che finisce per compromettere la potenziale ricchezza del soggetto. Il demone che si palesa tra il sonno e la veglia (già utilizzato e meglio nella serie di Nightmare) per prendersi l'anima del bambino (metafora del rischio di soccombere alle nostre paure se non affrontate), trova terreno fertile in un habitat familiare disaggregato. Che era poi l'intuizione del ben più riuscito Babadook. In questo caso invece lo spunto si squaglia in una serie di soluzioni narrative infelici e l'idea suggestiva di perimetrare il fenomeno all'interno di una clinica per il sonno si rivela poco più che un espediente. E' in sostanza l'ennesimo horror visto e rivisto, che nulla aggiunge a quanto già prodotto.
Regia: L'argomento trattato aveva grandi potenzialità, soprattutto perché il tema è reale. La regia però non ha saputo sfruttare l'ansia e l'agonia che si prova durante il disturbo del sonno. La regia cosi di fatto è solo un esercizio di stile, priva di vere novità, che propone una pellicola incolore, che riesce solo in alcuni momenti, grazie all'utilizzo di frequenti Jumpscare a far sobbalzare lo spettatore sprovveduto, ma che è troppo prevedibile per quello smaliziato.
Sceneggiatura: Essa propone tutti quei passaggi ed espedienti narrativi triti e ritriti, tante, troppe volte, incluso un finale con colpo di scena che lascia aperta la possibilità di un sequel.
Aspetto tecnico: Assenza di fotografia e musica infliggono ulteriormente un danno enorme all'atmosfera che dovrebbe regalare un film dell'orrore.
Cast: Gli attori scelti purtroppo non lasciano niente, non trasmettono niente, sono freddi e distaccati rispetto alla trama.
Commento Finale: Film che non riesce a sfruttare l'ottima potenzialità data dal soggetto e che finisce con l'appiattirsi, complici una colonna sonora spesso assente e una recitazione che manca nel coinvolgere lo spettatore. Peccato.
Consigliato: Se siete afflitti o affascinati dalla patologia della paralisi notturna, Slumber: il demone del sonno non è il film che vi soddisferà. Per i disinteressati può essere un thriller della domenica sera, visto con pochissimo impegno, anche se, detta in tutta sincerità, non ve lo consiglierei mai.
Voto: 4,5
[Qui più dettagli]

mercoledì 29 maggio 2019

Nella tana dei lupi (2018)

Tema e genere: E' un heist movie, ma anche qualcos'altro, è uno scontro classico tra guardie e ladri, anche se il confine tra buono e cattivo è labile, anzi stravolge lo stereotipo che possiamo averne con la parte antagonista metodica, efficace e riflessiva, mentre dalla parte della legge si erge uno sceriffo violento, molesto e irrisolto nella vita privata. A conti fatti però, pura e semplice azione in un heist movie alla "guardie e ladri" dal sapore di Heat: La Sfida.
Trama: Una gang di ladri professionisti organizza un sofisticato piano per mandare a segno il colpo della vita, ma l'occhio indagatore di un poliziotto fuori dagli schemi trasforma la rapina in una sfida all'ultimo sangue.
Recensione: E' sempre bello quando delle basse aspettative vengono ribaltate trasformandosi in piacevole sorpresa, e una delle cose che Nella Tana dei Lupi riesce a fare è proprio quella di sorprendere piacevolmente, cosa che un film action succede raramente, anche se la stessa cosa mi è capitata pochi mesi fa con American Assassins. I campanelli d'allarme c'erano tutti: da Gerard Butler (negli ultimi anni il suo nome è sempre andato a braccetto con produzioni quasi totalmente fallimentari) alla presenza di 50 Cent, dal trailer fanfarone alla scelta azzardata di affidare il progetto ad un regista esordiente (Christian Gudegast, sceneggiatore de Il Risolutore di Felix Gary Grey con Vin Diesel, mediocre film, e di Attacco al Potere 2, ugualmente mediocre) eppure in definitiva Nella Tana dei Lupi si dimostra essere molto più di quello che era lecito pensare che fosse, e come Catherine Zeta-Jones in Entrapment quei dannati campanelli d'allarme riesce a schivarli tutti, uno dopo l'altro. E pure con una certa eleganza. Tenendo bene in mente (e nel mirino) il cinema programmatico di Michael Mann (Heat: La Sfida è chiaramente il punto di riferimento per il regista, anche se non mancano riferimenti a Codice 999The Italian Job ed Arma Letale, ma senza la benché minima ironia, anzi, azione allo stato puro) Nella Tana dei Lupi racconta una semplice storia di guardie e ladri, il vecchio gioco guardia e ladri su scala urbana, come un western metropolitano dove la stessa città di Los Angeles, luogo in cui avvengono il più grande numero di rapine al mondo, fa da perfetto sfondo, della rapina dei cattivi e delle contromisure dei buoni per impedire quella rapina, di pianificazione, ma soprattutto di confini sottilissimi a separare i protagonisti (i cattivi raccontati come fossero buoni, i buoni descritti mettendone in risalto i numerosi difetti). Gerard Butler e Pablo Schreiber (quest'ultimo ormai ben avvezzo all'action, da 13 Hours a Skyscraper) sono al comando rispettivamente dell'unità speciale della polizia di Los Angeles e del gruppo di rapinatori di banche che i primi devono acciuffare: il film segue i due personaggi passo dopo passo, giocando sull'anticipazione dell'inevitabile confronto finale (una bellissima scena che parte da un calco di quella ambientata al casello del confine messicano vista in Sicario, accumulando la suspense come faceva Denis Villeneuve ma prendendo poi tutta un'altra direzione e declinare quella materia verso la forma dell'action puro).

martedì 28 maggio 2019

[Games] Dirt Rally

Genere: Racing Game.
Trama: Essendo un racing game l'obbiettivo è essere semplicemente il più veloce.
Recensione: Sono sempre stato un fan dei giochi di rally, ma soprattutto dei racing game. Ho iniziato da TOCA ed ho continuato con Need for Speed in primis, per poi arrivare agli storici titoli dedicati al compianto campione Colin McRae (che è un po' il padre spirituale di Dirt, sempre di casa Codemasters). Dirt Rally è però un gioco diverso da tutti questi elencati, forse da tutti i giochi di rally in generale. Infatti, rispetto ai precedenti titoli, validi ma un po' troppo arcade, difatti a differenza degli altri capitoli della serie DiRT, dove insomma erano presenti gimcane, inviti continui alle derapate e diverse specialità che nella vita reale si vedono fare a virtuosi delle quattro ruote come Ken Block, questa nuova incarnazione rappresenta tutto sommato un gradevole ritorno alle origini, ovvero a quel modo di interpretare questo sport che apparteneva al glorioso Colin McRae Rally, dove la sfida era soprattutto contro se stessi, Dirt Rally rappresenta di fatto una lettera d'amore ai giochi di corse di qualche generazione fa (sebbene comunque qui sono presenti dei circuiti Rally Cross in cui bisogna gareggiare fisicamente contro altre vetture). In tal senso, non è un gioco immediato, basta poco per capire come funziona, ma ci vuole molta dedizione per padroneggiarlo. La pratica in Dirt Rally è davvero tutto. Nelle prime gare, sarà normale fare delle uscite di strada o girarci in curva durante una derapata. Inizialmente potrebbe capitarci per colpa dell'inesperienza, di arrivare al traguardo con la macchina molto scassata o addirittura arrivarci praticamente con il solo volante in mano. Il bello di questo capitolo di Dirt Rally è che ogni macchina reagisce in modo diverso ai terreni e alle sue stesse prestazioni, quindi, per ogni macchina sarà necessario prenderci confidenza almeno inizialmente. Anche la macchina più difficile da tenere in strada con il tempo, riusciremo a maneggiarla piuttosto bene. Oltre all'allenamento nella guida e a saper conoscere come guidare ogni macchina che avremo a disposizione, anche il dover conoscere le piste è fondamentale per potersi piazzare sul podio ad ogni gara, e a fine campionato, passando così di livello. Poche piste, ma veramente belle e impegnative.

lunedì 27 maggio 2019

Un sogno chiamato Florida (2017)

Tema e genere: Un dramma che parla di indigenza e marginalizzazione.
Trama: Poco distante da Disneyworld c'è un condominio chiamato Magic Castle. Che ha poco del castello e del magico, e in cui vive una bambina che si accontenta di quello che ha e ama la sua giovane madre irresponsabile.
Recensione: Vivere al Magic Castle Hotel, un residence dalle pareti colorate di lilla, può sembrare piacevole e divertente. Soprattutto se il residence si trova a pochi passi da Disneyland, il parco dei divertimenti più famoso al mondo. Per Moonee, Scooty e Jancey (i giovani, giovanissimi protagonisti del film) effettivamente le giornate trascorrono in libertà, scorrazzando e divertendosi spesso a spese degli adulti. Peccato, però, che per gli adulti in questione, la vita non sia così prodiga di soddisfazioni e divertimenti. Perché il luogo dove abitano è un motel che accoglie gente che fatica a sbarcare il lunario. Madri sole che faticano a tirar su i figli, giovani donne che, come Halley, mamma della seienne Moonee, passano le giornate a guardare tv spazzatura, a litigare con Bobby, il gestore del motel o, peggio, a prostituirsi per poter pagare l'affitto. È un'America borderline, quella descritta da Sean Baker (che ha già all'attivo 6 film, ma questo è il primo che vedo). L'America povera e derelitta delle periferie in cui il sogno americano, con le luci sfavillanti del parco dei divertimenti, si frantuma inesorabilmente sulle pareti del residence, inutilmente colorate per fingere un'allegria che qui, nella parte sbagliata di Disneyland, non c'è più. Un film che nell'intento e nel contesto che vuole rappresentare è quindi certamente interessante, una Florida defilata rispetto al sogno del divertimento americano. Qui si consuma la vita di stenti di famiglie che sfidano la loro capacità di sopravvivere, l'unica ancora della loro salvezza è l'ottimo Willem Dafoe nel difficile ruolo di capo del Motel dove i nostri protagonisti vivono giorno per giorno cercando di dare dignità alla propria vita ai margini. I protagonisti sono i bambini ai quali basta poco per trovare un pretesto per divertisti anche nell'illegalità che per loro diventa presto una componente inevitabile. Altro elemento centrale del film è l'uso dei pastelli che colorano tutto quasi a voler stigmatizzare il fatto che non basta un colore per nascondere una vita in bianco e nero. Tuttavia il film c'entra pochi dei propri obiettivi, anche perché nella pellicola di Baker (presentata a Cannes) non succede granché. Le giornate dei protagonisti trascorrono sempre uguali, con i soliti problemi e le solite difficoltà. Forse troppo uguali per lo spettatore medio che, dopo circa un'ora di spettacolo, inizia a domandarsi se, prima o poi, potrà accadere qualcosa di diverso. Un limite oggettivo di un film che, tuttavia, prende quota nel finale, quando il dramma irrompe, inesorabile, nella vita di Halley e Moonee. Non aspettatevi però un lieto fine, anzi, non aspettatevi una fine tout court. I personaggi ci coinvolgono, ma quello di cui si sente un po' la mancanza (anche se forse è proprio ciò che il regista vuole) è il climax di una "storia" che si sviluppa e si compie. Il film può contare tuttavia su più che discrete interpretazioni, non solo Dafoe (che per la sua interpretazione ha ricevuto diverse candidature, una ai Premi Oscar 2018), ma anche quella della piccola Brooklyn Prince nel ruolo di Moonee (anche se le sue urla infastidiscono), su un felice contrasto di caratteri e su uno studio estremamente efficace dell'inquadratura, del colore, del gioco tra primi piani e sfondo che tutti insieme disegnano spietatamente la triste America del regista Baker.

venerdì 24 maggio 2019

Morto Stalin, se ne fa un altro (2017)

Tema e genere: E' una commedia nera che con toni grotteschi sviluppa una tesi sul potere.
Trama: I primi di marzo del 1953, il leader dell'Unione Sovietica Iosif Stalin muore improvvisamente. Nei giorni successivi le alte sfere dell'URSS tramano e complottano per accaparrarsi il potere.
Recensione: L'autore e sceneggiatore scozzese Armando Iannucci (di genitori italiani, già ideatore della serie tv Veep) adatta il romanzo grafico La morte di Stalin di Fabien Nury e Thierry Robin, e porta sul grande schermo le confuse e drammatiche ore, consumatesi nei palazzi del potere, dopo la scomparsa del leader sovietico più sanguinario della storia. E lo fa con una commedia (una rivisitazione paradossale sugli eventi presentati nel corso della storia contemporanea) dai toni ai limiti del grottesco, che rende in modo magistrale la tragicità dei fatti. Gli odi, i rancori, le alleanze segrete, i voltafaccia che i dirigenti del partito si scatenano vicendevolmente, confluiscono nello scontro tra l'abile politico Nikita Kruscev (uno Steve Buscemi in forma smagliante) e il vendicativo ministro degli Interni e capo della spietata polizia segreta, Lavrentij Berija (Simon Russell Beale). Sciacalli attirati dal profumo di potere che, con tragicomiche trovate, tentano di avvelenarsi a vicenda per raccogliere la loro opportunità di supremazia. Immersi in un momento quanto mai volatile per la fiducia e per le promesse di alleanza che puntualmente sembrano venir tradite o rettificate, i personaggi della divertente opera, ognuno introdotto dopo una solenne e appropriata presentazione, vengono perfettamente interpretati da un coeso cast di attori il quale senza alcun timore stabilisce il tono sguaiato di una pellicola che non lascia intrappolata l'occasione per piazzare una battuta, meglio ancora se nel contesto risulti alquanto inappropriata. Perché l'arguzia del film di Armando Iannucci risiede nel coraggio di trattare strazianti avvenimenti da tempo confermati avvalendosi di una cattiveria sottile, abile nel pungere come saprebbe fare una freccia appuntita e instaurando una farsa che trae il proprio giovamento dal suo assoluto menefreghismo nei riguardi del buon gusto. E tuttavia le gag esilaranti tra le alte sfere sovietiche non impediscono al film di trasmettere la drammaticità, l'angoscia e la psicosi che devono aver caratterizzato il periodo delle grandi "purghe" staliniane, durante il quale bastava pronunciare una sillaba sbagliata per essere deportati nei gulag siberiani o brutalmente uccisi. Il film non è perfetto, le battute non sempre sono riuscite e lo humour nero non sempre risulta efficace, ci sono infatti alcuni cali nella tensione comica, ad esempio quando entrano in scena i figli di Stalin (soprattutto il figlio maschio, una caricatura stucchevole e piatta) e a volte la black comedy diventa troppo black e poco comedy (le sevizie e gli stupri sui malcapitati di passaggio). Ma nel complesso il ritmo della narrazione, le gag irresistibili tra i gerarchi, la recitazione convincente di tutti (dai protagonisti all'ultima delle comparse) ci regalano 100 minuti di vero godimento cinematografico. In più scopriamo anche qualcosa su un periodo poco noto dell'impero sovietico, il che non guasta. Inoltre sorprendentemente, contento che per una volta il titolo della versione italiana del film sia più azzeccato di quello originale (Death of Stalin).

giovedì 23 maggio 2019

La verità sul caso Harry Quebert (Miniserie)

Tema e genere: Miniserie in 10 puntate diretta da Jean-Jacques Annaud, basata sull'omonimo romanzo del 2012, scritto da Joël Dicker, trasmetta su Sky Atlantic, che tratta di un caso poliziesco e non solo.
Trama: La serie parla del giovane Marcus Goldman che alle prese con il primo blocco dello scrittore dopo la pubblicazione del primo libro decide di rivolgersi al suo mentore: Harry Quebert. Di lì a poco, però, Harry (artefice di un romanzo capolavoro) viene accusato dell'omicidio di una giovane ragazza, Nola Kellergan, avvenuto nel 1975. E così mentre Marcus scopre che Quebert aveva avuto una relazione clandestina con la ragazza (quindicenne) la polizia comincia, dopo 30 anni, e con l'aiuto dello stesso, ad indagare. Ma non è facile, gli intrighi sono moltissimi, le persone coinvolte tante, tutti però rivivranno quell'estate nel tentativo di venire a capo del mistero. Chi ha ucciso Nola?
Recensione: Le premesse per un'opera capace di lasciare il segno c'erano tutte. Un best seller internazionale da 3 milioni di copie vendute, considerato da molti come uno dei gialli più avvincenti dell'ultima decade. Una ricca produzione internazionale. Un regista cult come Jean-Jacques Annaud (Il Nome della Rosa, Sette anni in Tibet, ma anche L'ultimo Lupo). E un cast hollywoodiano (anche se non di primissimo piano) capitanato da Patrick Dempsey. Invece la trasposizione televisiva de La verità sul caso Harry Quebert, è una piccola delusione. Chi scrive non ha letto il libro e dunque la critica non risulta influenzata dalla sindrome del lettore-deluso, che sovente colpisce coloro che hanno amato un'opera letteraria nel momento in cui dalle pagine passa sullo schermo. Il giudizio è frutto unicamente della visione della serie. Una serie certamente non brutta, anche piacevole, che si lascia seguire senza mai annoiare, ma che ha parecchi ed evidenti difetti. Ci sono dei passaggi infatti che mi hanno lasciato parecchio perplesso, momenti specifici in cui la voglia di cambiare canale si fa veramente molto pesante. Colpa soprattutto di un racconto sempre parecchio arzigogolato e spesso anche inverosimile. Devo ammetterlo, due cose sono a dir poco assurde. Già hai una trama piena di mistero, una cittadina in cui nessuno ha visto, sentito e detto niente, hai il parallelismo con la vita del romanziere...Bene, con tutta questa carne a fuoco era necessario ricorrere a certe trovate? E poi, ancora, ma si doveva necessariamente far fare la parte degli imbecilli all'ispettore e a Marcus, Ben Schnetzer e Damon Wayans Jr. infatti, che rispettivamente interpretano lo scrittore e il sergente, gli unici due personaggi ricorrenti che si ritrovano completamente estranei alle vicende avvenute 33 anni prima, sorta di narratori che guidano lo spettatore attraverso le vicende, le 10 puntate e i vari livelli temporali (sono 3, ma non immaginatevi la fluidità e la classe di True Detective, proprio no), quando si scopre che non erano a conoscenza di un particolare importante? Cioè veramente (senza aver fatto spoiler), l'ABC della credibilità di una investigazione. Mi sono sembrati due espedienti volti unicamente ad allungare il brodo (già allungato da storie secondarie sui personaggi della cittadina di Sommerdale poco affascinanti) e a rendere assai inverosimile il mistero. Un mistero scandito da continui colpi di scena, da cliffhanger a fine episodi, che vengono costantemente annullati nella puntata successiva. Ma uno dei problemi più grandi che ho riscontrato in questa serie è in assoluto il casting dei protagonisti. Dal giovane Ben Schnetzer a Kristine Froseth (senza carisma entrambi). Gli altri attori, forse perché anche più maturi (e parlo di Kurt FullerRon Perlman e Virginia Madsen) riescono ad arginare le mancanze dei due giovanissimi, ma ciò non basta a renderli piacevoli quando in scena. E insomma va bene che la serie ha un bel ritmo, che comunque si lasci seguire, ma una storia meno intricata e più credibile no? Qualcosa di meno banale no? Personaggi e quindi attori più verosimili no? No! Ok, contenti loro, io non tanto, anzi, quasi per niente.

mercoledì 22 maggio 2019

Hotel Transylvania 3 (2018)

Tema e genere: Film d'animazione che come gli altri capitoli ripropone sempre con le stesse dinamiche il rapporto umano-mostro, cercando di proporre il solito messaggio che invita ad abbattere il muro razziale tra umani e "diversi", per promuovere l'uguaglianza e l'amore.
Trama: Dopo che la figlia ha trovato l'amore e una famiglia, adesso tocca a suo padre Dracula cercare di rifarsi una vita dopo centinaia di anni di vita sedentaria nell'Hotel. Per lo stesso motivo, la figlia Mavis organizza una grande vacanza estiva in crociera capitanata dall'umana Erika, di cui Dracula si innamora follemente. Ciò che non sa è che un acerrimo nemico è tornato a dargli la caccia.
Recensione: Trama semplice per non dire esilissima, sviluppo risibile più che comico, per Hotel Transylvania 3, film molto colorato e vivace ma poco riuscito. Il terzo episodio di Hotel Transylvania, dopo i primi due più fluidi e divertenti (qui la recensione del secondo), è infatti una delusione per un adulto pur non prevenuto verso il genere, o che anzi ami l'animazione non banale. Questo perché narrativamente parlando, Hotel Transylvania 3: Una vacanza mostruosa pone sul piatto una vicenda alquanto classica. Una vicenda decisamente prevedibile dall'inizio fino alla fine, che non regala mai colpi di scena davvero piacevoli o capaci di far sussultare lo spettatore. L'avventura si fa così seguire senza troppe pretese, riuscendo anche a intrattenere piacevolmente, peccato che alcune scene funzionino poco, talvolta fin troppo forzate o con espedienti non proprio eccellenti, che a tratti sembrano dare una sensazione di déjà vu. Dopotutto esattamente come nei capitoli precedenti ci troveremo nella ripetitiva situazione di assistere a diversi espedienti narrativi per sottoscrivere quanto il mondo moderno viva in una gabbia mentale preistorica. La società odierna riuscirà a superare queste barriere solo con la forza dell'amore, insomma, in modo incondizionato e pure sfrontato. E insomma questo terzo capitolo di Hotel Transylvania non propone niente di più (anzi, il concetto dell'uguaglianza tra mostri e umani è fin troppo ridondante), niente di nuovo allo spettatore: sicuramente riesce ad intrattenere e divertire, anche grazie alla continua aggiunta di personaggi già dai film precedenti, ma in più occasioni risulterà sempre di assistere ad una serie di gag e sketch tutti incollati tra di loro, che vengono sorretti da una trama banale e risaputa, senza offrire particolari twist narrativi. Infatti battute ben congegnate e capaci di far scappare più di qualche sorriso (la coppia di genitori lupi mannari con centinaia di cuccioli, che scappano e si nascondono dai figli per riposarsi, unica gag di livello) fanno seguito a momenti che tentano in tutti i modi di far divertire lo spettatore portando però al risultato opposto, quasi infastidendolo. Infastidendo soprattutto il pubblico di grandi (alcune scene sono raggelanti, vuoi perché mal strutturate, vuoi a causa di un voler portare eccessivamente per le lunghe una battuta), perché i più piccoli rideranno di gusto a tutte le trovate inserite nella pellicola. Il che non sarebbe un problema, ma non sono poche le pellicole rivelatesi capaci di conquistare grandi e piccini, cosa che Hotel Transylvania non riesce minimamente a fare. Ed è un peccato, perché il lavoro tecnico che è stato possibile visionare sa farsi indubbiamente valere. E tuttavia rimane questo e comunque un buon prodotto di intrattenimento, ma qualcosa in più indubbiamente si poteva fare, anche perché considerando il fatto che in teoria dovrebbe essere il film conclusivo di questa saga, la storia poteva essere molto più innovativa di così.

martedì 21 maggio 2019

The Big Sick - Il matrimonio si può evitare... l'amore no (2017)

Tema e genere: Commedia romantica che, basata su di una reale storia d'amore, segue le vicende di una coppia di etnie diverse che deve affrontare le loro differenze culturali.
Trama: Kumail, un comico nato in Pakistan, e la studentessa americana Emily si innamorano a dispetto delle diverse culture a cui appartengono e che spesso sono fonte di scontro. Quando Emily contrae una misteriosa malattia, Kumail dovrà far fronte alla crisi con i genitori di lei, confrontandosi anche con la propria famiglia e con i desideri del suo cuore.
Recensione: Sento sempre più spesso dire che i film che vengono candidati agli Oscar siano nella maggior parte dei casi film decisamente sopravvalutati, e in certi casi chi lo dice hanno ed hanno avuto ragione, come ho potuto anche personalmente notare (soprattutto ultimamente che ne vedo molti). Ora non che questo lo sia (questo film che è stato candidato per la migliore sceneggiatura originale agli Oscar del 2017), anche perché The Big Sick è una commedia (presentata al Sundance Film Festival 2017 dove ha raccolto critiche entusiastiche) fresca e divertente, però non è affatto un film indimenticabile, tale da rimaner impresso nella storia dell'Academy e del Cinema. Dopotutto di films sulle differenze razziali e difficoltà sorte in seguito ad esse se ne sono ideati moltissimi precedentemente, pertanto, l'argomento non risulta affatto nuovo. Vero che oscillando tra commedia e dramma, il film ha una sua originalità nel far evolvere la storia tutta o quasi nel rapporto tra Kumail con se stesso, la sua famiglia e la famiglia di Emily, vero che, forse la parte della sceneggiatura più originale, sebbene troppo dilatata nella durata, è proprio quella che tratta dello strano e originale rapporto che si viene a creare, durante la malattia di Emily, tra Kumail e i genitori di lei, un po' "spostati" e disturbati dal benessere americano e dalla ossessione del terrorismo di matrice islamica, ma The Big Sick rimane confinato nel suo alveo di genere, quello della commedia romantica con malattia annessa, a cui si aggiungono i riferimenti culturali esotici, che fanno tanto politically correct. Ma il problema è che questa originalità, questa sincerità, non fa né ridere né emozionare. Il film infatti è un film intimo, personale, un po' troppo chiuso in sé stesso. Non bastasse che il conflitto tra la famiglia pakistana e il protagonista venga raccontato in modo molto tradizionale. In tal senso la simpatia degli attori coinvolti evita cadute di tono, ma il film è complessivamente prevedibile, anche nella sua parte drammatica, oltre nella rappresentazione del loro incontro e dell'happy ending finale. Va bene che particolarmente interessante è il modo in cui la storia viene presentata sullo schermo, per l'intera durata del film aleggia un'ironia sottile ed agro-dolce che rende piacevole seguire la vicenda, anche quando quest'ultima precipita in un aspetto più drammatico, ma il film è (nonostante quest'ultimo aspetto) stranamente sottotono, e i caratteri, sia quelli dei protagonisti principali che quelli dei personaggi di contorno, sono poco definiti. E insomma a questa commedia, che prova a darsi un tono ricorrendo un po' a tematiche sociali (integrazione razziale, valori costitutivi di una famiglia), un po' a citazioni e riferimenti al cinema (grande e meno grande) di passato e presente, manca il ritmo, l'incisività, la verve che avevano film ben diversamente brillanti su temi analoghi. Comunque gli va dato merito alla pellicola (anche se la storia è del tutto vera) di aver proposto una storia diversa dal solito, appunto un'insolita storia romantica, una storia carina, simpatica ed originale, anche se purtroppo alquanto tiepida.

lunedì 20 maggio 2019

Ottimizzazione Blog

Ottimizzare, è questa la parola chiave. Ottimizzare il tempo, lo spazio e la lettura. Si perché, in attesa di alcune importanti migliorie già programmate e che saranno promulgate in occasione del compleanno del blog (il 22 luglio tutto sarà svelato), il blog cambia metodo, cambia la visione. Infatti, da domani e d'ora in poi, le recensioni (di qualsiasi tipologia) cambieranno faccia, saranno per davvero più brevi (ma non troppo), più compatte e più tecniche. Come una scheda tecnica, le recensioni saranno difatti più essenziali. Questo perché arrivati a questo punto, arrivati al momento in cui la blogosfera vive un periodo d'impasse, un cambiamento è funzionale. Non solo con il nuovo metodo il lettore potrà essere più coinvolto, non si si stancherà troppo nella lettura, perché è evidente che ultimamente e con i social network sempre più attivi con i loro commenti veloci e sbrigativi, leggere post abbondanti, nella maggior parte dei casi, sia diventato "problematico", ma avrà più selezionate informazioni per eventualmente scegliere di vedere o meno i film che proporrò. Un metodo che tuttavia farà comodo anche me, infatti perderò meno tempo, in media delle due/tre ore che impiego per scrivere una recensione risparmierò, ed ho risparmiato, giacché ho già in archivio parecchie recensioni, a conti fatti mezz'ora. Ma il tempo io risparmierò (tempo = meno stress), anche cambiando qualcos'altro, ovvero cercando meno immagini (da Google) ed evitando di comporre continuamente banner personalizzati. I peggiori e gli altri film del mese avranno infatti un solo banner da completare inserendo il mese in questione. Insomma, cercherò di ottimizzare al meglio i miei contenuti e rendere più fruibile e semplice il blog, anche visivamente. In tal senso dovreste aver visto dalla Home l'aggiustamento e l'inserimento di alcune pagine ed anche che la suddetta è più compatta, cioè non troppo lunga. Ho eliminato infatti alcuni gadget/immagini ed ho ridotto l'elenco di blog, visibili 25 dei 100 e più. Ma, se sarà stata la scelta giusta lo diranno i lettori (da domani potrete vedere e constatare), io però con questo nuovo metodo soffro di meno e mi trovo meglio, quindi problemi zero mi farò lo stesso.

venerdì 17 maggio 2019

L'isola dei cani (2018)

Il texano Wes Anderson alla fine degli anni '90 si è imposto al mondo con Rushmore come uno degli alfieri del cinema indipendente americano. Poi con il passare degli anni è diventato molto di più di un regista "indie", è diventato uno dei maggiori registi mondiali, arrivando ad ottenere importanti riconoscimenti e ampi consensi di critica e pubblico. Nel corso degli anni 2000 ha sfornato una serie di gioielli che hanno abituato il pubblico di tutto il mondo a una narrazione di simmetrie, colori pastello, musica vintage, personaggi borderline e grandi sentimenti. Con il suo stile particolare, estremamente riconoscibile, preciso fino ad essere maniacale si dimostra continuamente come uno degli autori contemporanei più coraggiosi e attenti alla forma. In tal senso, poiché chiunque conosca Anderson e la sua poetica sa benissimo che si troverà di fronte a delle scene curate al dettaglio, in cui la simmetria la fa da padrona e i dialoghi sono sempre brillanti, si ha sempre la paura di una costante ripetizione dei temi trattati, ma Wes Anderson, che ha alle spalle forti sostenitori come altrettanti detrattori (io dalla parte dei primi), riesce a reinventare con sapienza sempre la stessa storia, più o meno la stessa storia. Perché L'isola dei cani (Isle of Dogs), film del 2018 scritto, diretto e co-prodotto da Wes Anderson, film molto atteso (sicuramente da me) che ha vinto l'Orso d'argento per la regia al Festival di Berlino 2018 (di cui era anche film d'apertura), che arriva dopo il successo mondiale di critica e pubblico di Grand Budapest Hotel e che segna un coraggioso ritorno all'animazione in stop motion dopo Fantastic Mr. Fox, è comunque un film d'animazione d'autore ricco d'intelligenza e di inventiva che, con toni favolistici e metaforici, affronta temi assolutamente attuali: l'inquinamento, l'ipocrisia e l'avidità dei potenti che schiacciano i più deboli ed indifesi (i cani potrebbero essere una metafora degli immigrati, dei poveri o fate voi), il potere che distrugge con la violenza il dissenso, la televisione che obnubila le menti delle persone ecc. Il tutto narrato come fosse un cartone animato per bambini, in cui i protagonisti sono i cani, pur non essendolo, o meglio: molto adatto ai bambini, ma anche adatto agli adulti, perché ha una narrazione parecchio più complessa di quella di un normale film d'animazione.

giovedì 16 maggio 2019

Escobar - Il fascino del male (2017)

Il narcotrafficante colombiano Pablo Escobar viene spesso raccontato nel cinema e televisione recenti: dalle opere che ne fanno l'indiscusso protagonista, come la serie tv Narcos o il film Escobar di Andrea Di Stefano, a "cameo" significativi come Barry Seal con Tom Cruise. Ora ecco quest'altro film, film di Fernando León de Aranoa che debuttò fuori concorso alla Mostra del cinema di Venezia nel 2017. Un film che, basato sul memoriale "Loving Pablo, Hating Escobar", pubblicato nel 2007 dall'ex conduttrice televisiva Virginia Vallejo (quest'ultima è stata amante di Escobar nella realtà), si pone come obiettivo quello di mostrare la realtà dei fatti da diversi punti di vista. Diversi punti di vista (soprattutto uno, quello della stessa Virginia) per poter osservare la politica di vita di un personaggio nell'occhio del ciclone, vero e proprio simbolo di un'esistenza criminale incentrata sull'essere in assoluto i numeri uno, e lui numero uno lo è stato, in modo alquanto insolito e poco incline alle regole morali di una persona qualsiasi. Tali ambizioni vengono quindi descritte ora in questo film che doveva probabilmente essere il resoconto di una conflittuale storia d'amore all'ombra del sangue versato in quel regno criminale. Ma questa premessa viene fin da subito tradita dal regista, tanto che ad un certo punto, Escobar - Il fascino del male si discosta completamente dalla relazione avuta dai due per raccontare semplicemente le gesta del narcos più ricercato della storia, gesta ormai note. E purtroppo è per questo che il tentativo di raccontare la storia del patron colombiano sotto un nuovo punto di vista non riesce bene. Su questo personaggio si è detto veramente tutto (anche se la serie non l'ho ancora iniziata) e questa pellicola appunto non riesce a sviluppare l'unico spunto originale, la narrazione affidata all'amante di Pablo, e il rapporto tra i due che viene ridicolizzato a banale storiella di corna. L'operazione di raccontare per l'ennesima volta la figura di Pablo Escobar perde ancora più valore in quanto il film del regista spagnolo arriva per l'appunto dopo una lunga serie di film e serie tv sul trafficante di droga colombiana che meglio avevano svolto il loro lavoro (sul film basta leggere la mia recensione, sul buon lavoro della serie invece mi fido dei giudizi altrui).

mercoledì 15 maggio 2019

Cobra Kai (1a stagione)

Stiamo vivendo un periodo particolarmente denso di novità in termini di produzione e distribuzione televisiva. Dopo Netflix e Amazon Prime Video, con Disney ormai pronta a mettere giù i suoi carri armati e Apple che si dice stia investendo miliardi in produzioni originali, anche Youtube si è affacciato al mondo delle produzioni originali attraverso il suo nuovo "canale" Youtube Red. L'esordio è stato di quelli che fanno parlare, e hanno fatto parlare, e tanto. Karate Kid, un vero e proprio caposaldo per chiunque sia stato un ragazzino negli anni Ottanta, riportato ai giorni nostri. Una serie che, a differenza del tentativo di reboot di qualche tempo fa, prende ambientazioni, situazioni e protagonisti dei film originali e li riporta ai giorni nostri, mescolando abilmente (anche di più) le cose. Sì perché Cobra Kai, serie televisiva statunitense, creata da Jon Hurwitz, Hayden Schlossberg e Josh Heald, basata sulla serie di film The Karate Kid, creata da Robert Mark Kamen, sorprendentemente è una gran bella serie tv. Le aspettative erano basse, e invece stupisce alla grande. Diciamocelo, sono ormai anni che ci propinano sequel, reboot e prequel di film rimasti nell'immaginario popolare, fallendo molto spesso miseramente perché il problema di fondo è uno, secondo me: una storia appartiene ad un momento storico, a quell'epoca e basta. Appartiene al colpo di genio, ad un momento irripetibile che un autore, un regista o uno sceneggiatore hanno avuto e che non potrà mai essere eguagliato. In più l'offerta di film e serie è ormai quasi saturata da prodotti che puntano sulla nostalgia degli anni '80, che sono appunto l'ennesimo remake o reboot tutto fondato sull'hype, o che per far tifare per i "cattivi" prendono la via facile di ridurre i "buoni" a macchiette, e quindi era lecito essere curiosi ma anche tenere tutte le spie accese approcciandosi a Cobra Kai, serie seguito sui generis dei film originali di Karate Kid, di cui soprattutto il primo è uno dei miei film preferiti dell'infanzia. E dico "dell'infanzia" perché mi vergogno un po' a dire "di sempre" (ma di questo dirò dopo). Poi succede il miracolo e a rispondere ad un prodotto dimenticabile quale può essere The Karate Kid con Jackie Chan, arriva qualcosa che ha passione e rispetto per ciò che è stato. Cobra Kai è il risultato di questi due ingredienti. Prodotto anche da Ralph Macchio (il fu Daniel Larusso) e William Zabka (Johnny Lawrence) stessi, questa serie è infatti l'ideale e perfetto sequel della trilogia di Karate Kid (che per quanto citato, parodiato e richiamato, non era ancora stato protagonista di un vero e proprio ritorno) diretta dal compianto John G. Avildsen dall'84 all'89, conservandone tutte le caratteristiche ci hanno fatto amare Daniel Larusso, Sensei John Kreese e sopratutto il mitico maestro Miyagi.

martedì 14 maggio 2019

Papillon (2017)

Il remake di un importante classico della storia del cinema è sempre un argomento spigoloso. Spesso i rifacimenti riescono ad entusiasmare al pari degli "originali", contribuiscono ad arricchire un universo discorsivo già noto conferendogli sfumature e chiavi di lettura inedite, ripropongono grandi storie e grandi personaggi ancorandoli all'attualità. Ebbene, nulla di tutto ciò accade nel Papillon (del 2017) del danese Michael Noer, nuova versione dell'omonimo film cult (ma non solo, personalmente un piccolo capolavoro) di Franklin J. Schaffner del 1973, tuttavia il film, che ci racconta le avventure di Henri Charrière, della sua ingiusta prigionia nella colonia penale dell'Isola del Diavolo e di come sia riuscito ad architettare una delle fughe più emozionanti mai raccontate, è girato bene con un buon ritmo, avvincente, un buon prison movie che intrattiene e introduce lo spettatore in un contesto sporco, pericoloso, solitario e ansiogeno. E' insomma un remake sufficientemente valido che non fa esageratamente rimpiangere l'originale. Un remake forse non necessario ma che riesce sotto ogni fronte a livello immersivo, facendo "entrare" lo spettatore e facendolo identificare dentro il carcere dell'Isola del Diavolo. Carcere dove negli anni '30 finisce per un'ingiusta accusa e condannato all'ergastolo, il giovane ladro Henri Charrière soprannominato "Papillon". Spedito nella colonia penale sull'isola nella Guyana francese dovrà trascorre la sua intera pena ai lavori forzati. Qui conosce il milionario Louis Dega, un falsario che accetta di finanziare il piano di evasione progettato da Papillon a patto che lo protegga per tutta l'avventura, cosa non facile dato che gli altri internato sono disposti ad uccidere per qualche spicciolo. Tra i due nasce un sentimento di amicizia e complicità duraturo che li accompagnerà in tutto questo viaggio caratterizzato da rocambolesche fughe e pericoli di ogni genere.

lunedì 13 maggio 2019

L'insulto (2017)

La questione mediorientale, israeliani e palestinesi, palestinesi e libanesi, ebrei e musulmani, musulmani e cristiani, è questione complicata, delicatissima, annosa, sempre sul punto di riesplodere (come i recenti accadimenti dimostrano) che L'insulto, di Ziad Doueiri (che affronta come fece Nadine Labaki con E ora dove andiamo? la difficile divisione interna che sta attraversando il Libano) riesce a condensare e a rappresentare simbolicamente attraverso un normale episodio di banale quotidianità: Beirut, un muratore di origine palestinese deve sistemare una gronda di un terrazzo che sgocciola in strada. Il proprietario, un libanese cristiano, si oppone. Il muratore la aggiusta lo stesso, il proprietario prende la gronda a martellate, il muratore gli si rivolge dicendogli "sei un cane". Questo il la che farà da innesco ad una serie di eventi a catena di portata sempre più ampia (seguendo la falsariga di Una separazione) dove verranno messi in gioco antichi rancori e odi razziali, corsi e ricorsi storici, traumi infantili, personalismi, arrivismo e avidità, nazionalismi e patriottismi posticci. Non solo, perché la questione mediorientale ricostruita in chiave storica non è il solo obiettivo de L'insulto in quanto il film di Doueiri, perfettamente calato nel presente, vuole mettere in guardia dal pericolo dell'uso strumentale che si può fare della storia da parte della politica e dei mass media, dei rischi che si corrono acuendo i conflitti in nome di un'ideologia che non ha niente degli ideali che dovrebbero incarnarla ma che viene utilizzata in modo fazioso e propagandistico con l'unico scopo di mistificare la realtà per attrarre l'opinione pubblica da una parte piuttosto che da un'altra. Alla fine si smarrisce il buon senso che dovrebbe guidare le nostre scelte verso il bene comune all'interno di un calderone dove tutti hanno contemporaneamente ragione e torto e le soluzioni, anche le più semplici, sono destinate a galleggiare in eterno senza trovare compimento. Ciò che forse più sorprende del film di Doueiri, candidato 2018 all'Oscar per il Libano, è la sua capacità di raccontare una storia apparentemente così lontana eppure così vicina, così globale. La potenza evocativa del film è infatti universale.

venerdì 10 maggio 2019

Hostiles - Ostili (2017)

Si tende a ritenere il western come un genere ormai morto e sepolto, io invece non sono per nulla d'accordo. Il western non è affatto morto, è solo felicemente in pensione, pur consapevole di essere ancora in grado di donare qualcosa. Basti pensare ai titoli usciti negli ultimi anni, non solo in ambito cinematografico, per renderci conto che il genere, benché ormai minoritario, è ben lungi dal finire sottoterra. Questo qui però, grazie anche a una storia di integrazione che parla alle generazioni moderne, le ostilità che i protagonisti sono costretti ad affrontare lungo il cammino sono il segno di un film che in realtà tratta un tema attuale e molto sentito, Hostiles - Ostili (Hostiles), film del 2017 diretto da Scott Cooper, non è un western come tutti gli altri. Questo è un infatti un film diverso, almeno per quella che è l'idea comune di western. E' diverso da ogni Sentieri Selvaggi o Balla coi lupi, non ha niente a che fare con The Lone Ranger ovviamente, con nessun film di Leone, The Eightful Eight o con I Magnifici Sette. E' diverso perché alla base della storia non c'è l'azione con cavalli, fucili e frecce (anche se rende tuttavia onore ai grandi capolavori del genere), bensì il conflitto e la crescita interiore di un uomo, di un soldato, che sta vivendo personalmente il cambiamento di punto del vista nei confronti del conflitto americano-indiano. Un conflitto che nel 1892 stava cambiando pelle, in cui era difficile stabilire chi fosse nel torto fra le due parti, la brutalità e la violenza non erano risparmiate da nessuna fazione. Quelli che erano quindi giochi di potere fra lo stato americano e le tribù diventarono questioni personali, tra soldati americani e indiani. Non a caso il capitano Joseph Blocker ha passato la vita a combattere gli indiani, li considera selvaggi e crudeli e non si è mai fatto scrupoli ad usare contro di loro tutta la violenza che riteneva necessaria e che il Governo consentiva senza problemi. Per questo sembra la scorta più improbabile per il capo Falco Giallo, a cui, dopo anni di prigionia e a causa di una grave malattia, è stato concesso di andare a morire nella sua terra di origine. La situazione si complica ancora di più quando al gruppo si unisce Rosalie Quaid, una donna a cui un gruppo di indiani Comanche ha sterminato la famiglia. Donna che quindi diventerà una dei protagonisti di questo racconto di integrazione tra gli abitanti di uno stesso territorio ma dalle tradizioni differenti. Difatti il viaggio che dovranno compiere sarà più che altro metaforico, sarà un viaggio verso la tolleranza e il riconoscimento della parola "omicidio", un viaggio in cui non ci saranno vincitori ma solo vinti.

giovedì 9 maggio 2019

Ritorno al Bosco dei 100 Acri (2018)

Parto subito dicendo che nonostante io non sia un grande amante della serie di Winnie the Pooh ho apprezzato questo live action, un live action veramente ben realizzato e fedele all'atmosfera del lungometraggio animato originale, anche se forse un po' tedioso e fin troppo buonista perfino per gli standard del genere. In una Londra pre e post seconda guerra mondiale i personaggi reali "rendono" infatti perfettamente la grazia di cui si ammanta da anni una saga che oggi potrà sembrare anacronistica ma che riesce, nella sua semplicità e, a volte, banalità a piacere soprattutto ai più piccoli. Perché tra una scorpacciata di miele, il pessimismo cosmico dell'asino di pezza Ih-Oh (che perde continuamente la coda), le fughe della combriccola dai fantomatici Efelanti e Nottole, creati dalla fantasia più fervida dei paciosi personaggi, il regista Marc Foster crea un mondo magico, semplice e magnetico che grandi e piccoli vorrebbero condividere. Non bastasse che nonostante qualche caduta di tono nella sceneggiatura (che si può comunque perdonare poiché fedele allo stile infantile e sempliciotto dei personaggi della serie dell'orsacchiotto di peluche) risulti questa, una pellicola con buon ritmo e godibile anche per i più grandi. Una pellicola, Ritorno al Bosco dei 100 Acri, non male il titolo in italiano anche se quello originale, come capita praticamente sempre, risultava più appropriato (Christopher Robin), semplice ma efficace. A proposito di Lui (interpretato da Ewan McGregor), egli è diventato adulto e, nonostante la promessa fatta a Winnie The Pooh, ha dimenticato il Bosco dei 100 acri e i suoi simpatici abitanti. Ora è un grigio impiegato, responsabile del settore "efficientamento" della valigeria Winslow, tutto dedito al lavoro, per il quale trascura la famiglia composta dalla moglie e dalla figlioletta Madeleine. Un giorno Pooh ha bisogno del suo aiuto per ritrovare gli amici scomparsi e decide di cercarlo a Londra. Ma forse è Christopher Robin ad aver più bisogno del suo amico orsetto per riscoprire le cose importanti della vita.

mercoledì 8 maggio 2019

Tin Star (2a stagione)

Si potrebbe semplificare tutto con poche parole, è tornata Tin Star, è tornata la serie targata Sky, tornata con una seconda stagione, ma i problemi sono rimasti gli stessi della precedente stagione, anzi, sono pure di più. Se avete già letto la mia recensione riferita alla prima infatti (se non l'avete fatto la potete leggere qui), vi potreste rendervi conto di quanti e quali difetti ne hanno minato la resa finale, la resa finale di un prodotto che ha continuato anche in questa (inevitabile ma anche "era meglio di no") seconda stagione (ovviamente nuovamente trasmessa su Sky Atlantic il mese scorso e quello prima ancora) a soffrire degli stessi problemi, alcuni di essi addirittura accentuati da un percorso ancor peggiore, ancor più senza senso, banale e a tratti ridicolo. Eppure il finale della prima stagione aveva lasciato (diciamo bene) gli spettatori in sospeso con un cliffhanger di indubbio impatto: Anna che spara in direzione del padre Jim (Tim Roth) dopo che questi, contro la volontà della moglie Angela (più o meno), aveva (giustamente) ucciso sulle montagne innevate canadesi Whitey, di cui la ragazza si era innamorata nonostante il giovane fosse colpevole dell'omicidio del fratellino Petey (e questo fa già capire dell'elevata stupidità della giovane e della serie, che vagava senza un senso). L'episodio era stato il culmine di una serie tv che, dopo la promettente prima puntata di Tin Star in cui venivano introdotti contesto e protagonisti, con il passare del tempo aveva progressivamente perso coerenza e capacità di suscitare interesse ed empatia, tra personaggi delineati in maniera molto superficiale, sviluppi narrativi affrettati, dialoghi spesso retorici e sensazionalistici che conducevano ad interpretazioni sopra le righe. Il tutto condito da un goffo tentativo di fondo di ispirarsi al modello della tragedia greca, che finiva però per sfociare negli assai più modesti canoni della soap opera (di cui sopra, oltre a tanto altro nel mezzo che non vi sto a raccontare). Pur essendo discretamente realizzata dal punto di vista tecnico e avvalendosi del carisma di un Tim Roth che provava in tutti i modi a sopperire con il mestiere a evidenti lacune della sceneggiatura, Tin Star aveva tradito le buone premesse iniziali. Nonostante qualche colpo di scena piazzato al momento giusto, la serie britannica del 2017 si era rivelata una delusione.

martedì 7 maggio 2019

The Greatest Showman (2017)

Sapete bene della mia non predilezione per i film musical, eppure dopo il successo di La la land (film che ho apprezzato tanto), successo che sembra aver giustamente avviato, dato che di questi tempi il pubblico forse ha di nuovo voglia di leggerezza e di perdersi in un mondo più o meno lontano dalla realtà di tutti i giorni, un nuovo interesse a Hollywood verso un genere che un tempo aveva innegabilmente reso gloriosa la mecca del cinema, sono piacevolmente e nuovamente rimasto sorpreso da un film musical, un film musical del 2017 davvero "energizzante". E questo film è The Greatest Showman, uno di quei musical che fanno venire voglia di alzarsi ed applaudire: performance straordinarie e una colonna sonora magnetica. The Greatest Showman infatti, che ci porta via dai giorni nostri con una narrazione a metà strada tra favola e romanzo dickensiano, dove protagonisti sono il rutilante mondo del circo, i freaks, i fenomeni da baraccone, ma soprattutto la voglia di riscatto e le sfide che valgono il sogno di una vita, anche se perfetto non è certamente, anzi, è un film davvero bello che attira lo spettatore e lo coinvolge specie grazie alla musica. Le musiche in un musical sono spesso punto di forza del film, qui, sorprendentemente, pur essendo apprezzabili e di buona fattura (anche di più), vengono superate per coinvolgimento dal contesto in cui la storia si svolge. E questo è il vero punto di forza di quest'opera, eccessiva e vorticosa che ti fa superare le due ore di spettacolo in un lampo. Siamo nell'America nell'Ottocento e il giovane Phineas Taylor Barnum, figlio di un umile sarto, stringe una forte amicizia con Charity, appartenente alla ricca famiglia per cui il padre lavora. Tuttavia il loro legame viene ostacolato per ragioni di carattere sociale e le cose non si mettono meglio per il ragazzo quando rimane orfano di padre. Senza perdersi di coraggio, convinto che la fortuna risieda tutta nella buona volontà e intraprendenza dell'uomo, dopo vari espedienti per tirare avanti, l'ormai adulto Phineas (Hugh Jackman) fugge a New York con Charity (Michelle Williams), si sposa e trova un lavoro. Le cose non vanno sempre bene e infatti, perso il lavoro per la solita imprevedibilità della sorte, Phineas deve fronteggiare ancora una volta le avversità, senza darsi per vinto e con un'incrollabile fiducia nelle possibilità dell'uomo.

lunedì 6 maggio 2019

La prima notte del giudizio (2018)

Nel panorama cinematografico degli ultimi anni, il franchise The Purge ha attirato l'attenzione fin dal 2013, quando uscì il primo episodio di questa serie distopica e apocalittica, dove si immaginavano gli Stati Uniti d'America nelle mani di un regime ultraconservatore e reazionario denominato I Nuovi Padri Fondatori. Per loro decisione, viene istituita una giornata all'interno della quale per 12 ore viene sostanzialmente permesso ogni crimine, incoraggiando violenze e soprusi di ogni genere, al fine di creare un momento di sfogo e "purificazione". Il film era stato scritto e diretto da James DeMonaco, e aveva incontrato un successo di pubblico niente male per un b-movie costato solo 3 milioni ma capace di metterne dentro 90, mentre la critica (tra cui io) era ed è stata molto severa, definendo il tutto poco plausibile, incoerente e a tratti involontariamente ridicolo (anche se il problema era proprio il banale genere utilizzato appunto nel primo episodio). Tuttavia, i due episodi successivi, Anarchia ed Election Year (tutti e tre i capitoli li trovate qui), oltre a incrementare incassi e popolarità, hanno anche strappato qualche voto in più. Questa saga infatti, particolarmente mutevole, riuscì a rimanere sul pezzo reinventandosi da (classico) thriller home invasion qual era nella sua prima incarnazione con Ethan Hawke in (energico) action suburbano grazie ai muscoli di Frank Grillo nei due capitoli successivi. Cosicché tentando di tenere desto l'interesse ecco il prequel, La prima notte del giudizio (The First Purge), film del 2018 diretto da Gerard McMurray, un film pronto a spiegarci l'origine di questo controverso fenomeno socio politico, ovvero lo "sfogo", con l'obiettivo di farci capire come tutto è cominciato. Il film infatti, è ambientato nel 2014, a Staten Island, dove il neoeletto partito dei Nuovi Padri Fondatori decide di creare un esperimento sociale: portare il crimine a meno dell'1% creando all'interno di un'area circoscritta l'opportunità di commettere qualsiasi nefandezza per 12 ore, senza temere conseguenze o altro, se l'esperimento avrà successo (il fattore umano può contare parecchio, soprattutto quando alcune minoranze son già rabbiose di suo), l'idea è quella di applicare tale iter al resto del paese. Peccato che, di questa origine, di questo inizio, sinceramente se ne poteva fare a meno.

venerdì 3 maggio 2019

Ant-Man and the Wasp (2018)

Come di consueto ormai nell'universo Marvel, di cui questo è il ventesimo film del suo MCU, è necessario partire da un accenno alle puntate precedenti. Scott Lang, ladruncolo di mezza tacca diventato Ant-Man (nel primo sorprendente episodio a lui dedicato del 2015) grazie a una tuta che gli dona incredibili superpoteri "dimensionali", è stato arrestato per le sue azioni in Captain America: Civil War (quando si schierò con il "Capitano" nello scontro tra supereroi, infrangendo gli accordi di Sokovia). Bloccato agli arresti domiciliari e sorvegliato dalla polizia (guidata dal goffissimo agente Woo, Randall Park), viene richiamato in azione dal professor Hank Pym (ancora interpretato da Michael Douglas), e dalla figlia Hope, ora diventata the Wasp (con tanto di ali, che Scott/Ant-Man non ha) per cercare di recuperare Janet, la moglie di Pym (la new entry Michelle Pfeiffer), dispersa decenni prima nel mondo subatomico: da cui Scott è riuscito a tornare, senza contare che gli è pure apparsa in sogno Janet. I tre dovranno superare vari ostacoli, tra cui Ghost, una figura invisibile e misteriosa. Ero molto curioso di vedere Ant-Man and the Wasp, film del 2018 diretto da Peyton Reed (regista anche del primo capitolo), non solo perché il primo mi aveva conquistato, ma perché principalmente perché ero curioso (come tutti lo sono stati, del resto, almeno per quelli che l'hanno visto) di vedere in che modo avrebbero collegato il film ad Infinity War, visto solo poco tempo fa, e se ci fosse qualche elemento chiave per Avengers: Endgame (scorsa settimana al cinema), di questo però nessuna parola, tranquilli. La curiosità non è stata del tutto ripagata, dato che questo sequel, pur essendo un buonissimo film d'intrattenimento, non riesce ad essere "scoppiettante" quanto il suo predecessore per più motivi. La trama in diversi punti non è molto convincente e sembra che alcune situazioni vengano sbrogliate in maniera fin troppo semplice rispetto alla complessità delle materie trattate, senza contare qualche ingenuità che gli spettatori più attenti avranno potuto notare. Ciò non toglie che sia appunto una visione piacevole, leggera e, nel complesso, estremamente godibile. Come alla fine i film di super-eroi dovrebbero essere. E quindi qualche defaillance la si può accettare. Anche perché sinceramente pensare che questo sequel potesse superare l'originale era impensabile. Certo, ci si aspettava qualcosa in più, colpa forse delle aspettative elevatissime dopo il clamoroso diciannovesimo lungometraggio, ma tutto sommato va bene così, dopotutto il minimo per la Marvel è sufficiente ed in grado di superare senza difficoltà la rivale DC in qualsiasi lungometraggio uscito ultimamente, tranne Wonder Woman da una parte (pollice su) e Black Panther dall'altra (pollice giù).

giovedì 2 maggio 2019

Suburbicon (2017)

L'America e le sue contraddizioni (di ieri e di oggi) sono al centro dell'ultima fatica di George Clooney. Regista di un prodotto interessante e ben strutturato, capace di attirare l'attenzione grazie ad una regia brillante (e non solo). Un film, Suburbicon, film del 2017 diretto dall'attore Premio Oscar, difficile da poter inquadrare in un genere ben definito (diffidate da coloro i quali lo presentano come una commedia), risultato di una commistione di stili ed eventi volti, sì ad intrattenere, ma principalmente a denunciare e far riflettere. Il che non sarebbe un problema se non fosse che il messaggio finale del film, non che sia poco interessante o trito il tema trattato (il problema dell'odio razziale è oramai, quasi, una costante della produzione cinematografia hollywoodiana), ma sembra come se l'intera proiezione sia volta unicamente all'analisi di tale "denuncia" (che arriva dopo 104 minuti di una trama lineare e, sostanzialmente semplice, con incastri facili da comprendere e che impediscono di identificare il tutto come un vero e proprio giallo, ma che si trascina con una calma apparente, al messaggio finale di denuncia), senza dare particolare risalto a tutte le sequenze intermedie, utili solo ad arrivare alla risoluzione finale. La mano dei Coen si percepisce come fonte ispiratrice del progetto, sono loro infatti gli sceneggiatori della pellicola, ma manca nella sostanza di una trama che di originale ha davvero poco, a partire appunto dal messaggio moralistico che pervade il film, ma anche dalla classicità dello script dei fratelli. Con l'unico guizzo dell'amicizia silenziosa, fatta di gesti, dei due bambini in teoria su fronti opposti. Suburbicon propone difatti una critica all'ipocrisia generalizzata della società americana degli anni '50 (e non solo) che tende a celare pulsioni violente e oscure, e in cui la speranza di un mondo finalmente tollerante è affidata ai gesti di un bambino. Un bambino che vive in una strana cittadina americana costruita interamente a tavolino, a misura di una perfetta famiglia bianca americana.