martedì 31 luglio 2018

Gli altri film del mese (Luglio 2018)

In un mese in cui di significativo o importante (similmente di bello) non c'è stato niente di particolarmente interessante, infatti tutto nella norma nonostante l'arrivo del picco dell'estate, nonostante la visione di alcuni discreti film (alcuni di essi sono proprio qui in questo post) e nonostante i numeri (ed anni) raggiunti dal blog, finalmente una notizia formalmente definitiva che mi fa tirare un sospiro di sollievo dopo alcuni tira e molla con l'istituto di previdenza sociale, mio padre è ufficialmente in pensione. In pensione dopo 43 anni di lavoro, di cui 3 da giovanissimo in Lussemburgo, e 40 in Italia, un terzo da operaio/meccanico tra diverse ditte (anche famigliari come anche all'estero) e i rimanenti da dipendente di Poste Italiane (prima come operaio e poi come portalettere). E tuttavia per questo non ci saranno né feste né tante cerimonie (c'erano già state comunque quasi due anni fa), ma solo la soddisfazione di aver raggiunto l'agognata meta di un lavoratore che da quando aveva 16 anni non ha mai smesso di portare a casa la pagnotta. Perciò mese decisamente positivo si prospetta Agosto, mese in cui, nonostante una pausa che coinciderà con la settimana di Ferragosto (in cui tuttavia metterò fieno in cascina), continuerò imperterrito a vedere film, sperando siano come quelli di oggi che non quelli di ieri.

lunedì 30 luglio 2018

I peggiori film del mese (Luglio 2018)

In occasione del terzo anno di blog (esattamente una settimana fa, qui il post) il buon Moz mi augurava solo film belli, non che mi dispiacesse che si verificasse veramente dal quel giorno di vedere solo quei tipi di film, tutt'altro, ma purtroppo non solo "brutti" film avevo già visto, ma li ho anche visti dopo il mio bloggeranno. Dopotutto anche sforzandomi di vedere solo i migliori film in circolazione (e d'ora in poi dovrò forse sforzarmi anche di più) capiterà sempre di incappare in qualche film deludente, qualche prodotto mediocre o qualche pellicola al di sotto delle aspettative. Per cui ben vengano i film belli, tuttavia anche quelli brutti un motivo per esistere hanno altresì, quello di finire in questa abituale ormai rubrica. E quindi ecco i "prescelti" del mese.

Codice criminale (Dramma, Regno Unito 2016): Nonostante sia basato su un soggetto interessante, anche se non molto originale (uno spaccato di vita familiare, di una famiglia di criminali analfabeti e ignoranti, che pascola tra le campagne inglesi e si accampa in roulotte e il cui prepotente patriarca è convinto che il mondo sia piatto), il film di Adam Smith (Don't Think, Skins e Doctor Who) lascia un po' perplessi, forse anche più. Il film infatti, che si propone di descrivere l'impossibilità di sfuggire al proprio destino ma finisce soltanto per curarsi del folklore che gli sta intorno dimenticandosi delle motivazioni, che poggia sulle performance di Michael Fassbender e Brendan Gleeson, gira a vuoto, non diventa mai narrativamente accattivante. La vita senza regole della famiglia, gli scontri continui con la polizia, gli inseguimenti mozzafiato e il sistema che li rigetta sono alla fine difatti soverchiati da una sceneggiatura, seppur onesta, monotona e scontata. Se le psicologie dei personaggi sono discretamente descritte (anche se velleitario e privo di mordente è il rapporto padre-figlio), quello che tradisce sono le loro azioni: derubare auto per il gusto di guidarle e farsi beffe di una polizia impreparata, un padre-padrone che vuole mantenere il suo controllo sul clan (non senza qualche assurdità) e un finale che, invece di virare sul tragico, perde l'orientamento fino a sconfinare nel posticcio sono mosse che rendono evidenti i grossolani errori logici della pellicola. Una pellicola con un regia non certo efficace e ordinaria, una pellicola che non dice nulla e non va da nessuna parte, una pellicola in cui non si ha l'ardore e la voglia di immedesimarsi nel contesto e tantomeno in individui poco costruiti e isolati, una pellicola in cui le intenzioni (da cogliere qua e la) rimangono statuarie, crude e salomonicamente spente, una pellicola senza alcun motivo di interesse, nemmeno dal punto di vista socio-antropologico (superficiale e appena abbozzato qualsiasi tentativo di scandagliamento) ed emozionale. Si ha la sensazione infatti a fine visione di aver visto poco e raccontato non bene con incongruenze paesaggi-attori. Un vero peccato, perché il regista ha dalla sua le grandi interpretazioni di Fassbender e Gleeson (pur sprecando Sean Harris), dotate di quelle venature shakespeariane che avrebbero però richiesto uno script più attento e rigoroso. Così, Codice criminale (molto più efficace il titolo originale, Trespass Against Us) diventa un film onesto ma che sarà dimenticato in tutta fretta. Voto: 5+ [Qui più dettagli]

venerdì 27 luglio 2018

Manchester by the Sea (2016)

Con la stagione cinematografica 2016 (non discosta tanto anche quella successiva) ebbi già l'intuizione che poteva essere una di quelle da non dimenticare, basti solo vedere i film candidati agli Oscar 2017 per accorgersene, perché a parte alcune piccole delusioni, tanti sono i film che mi sono piaciuti tanto, e tra questi, tra i candidati e poi vincitori di almeno un premio, fa la sua comparsa, e meritatamente dopo averlo visto, anche il bellissimo Manchester by the Sea, film del 2016 scritto e diretto da Kenneth Lonergan. Il film infatti, un film semplice ma unico nel suo genere, che riesce a scavarsi una via di emozioni e sentimenti nella pelle degli spettatori, catturandoli al suo interno, convincendoli ed emozionandoli del dramma umano che si consuma sullo schermo, è una perla di rara fattura e sensibilità. Difatti questo racconto pieno di tensione che evita abilmente il mero sentimentalismo per concentrarsi su una assai penetrante intuizione emotiva e per analizzare profondamente le relazioni umane, riesce elegantemente a farsi largo tra prodotti simili. Poiché il regista affronta una realtà drammatica in maniera assolutamente originale e in alcuni momenti riesce abilmente a venarla di umorismo. Tanto che risulta quanto mai evidente l'intenzione di spazzare via qualunque scontato e semplicistico patetismo in favore di un approccio autentico e a tratti persino crudo. Non a caso il film di Kenneth Lonegarn (conosciuto più come sceneggiatore che regista, qui alla terza regia dopo gli abbastanza anonimi Conta su di me e Margaret, infatti ha scritto ottimi film come Gangs of New York di Martin Scorsese e i divertentissimi Terapia e Pallottole e Un Boss Sotto Stress) ci mette di fronte al senso di solitudine di un uomo sconfitto dalla vita attraverso un linguaggio filmico scarno, fatto di pochi e brevi dialoghi, intensi primi piani ed una fotografia che privilegia i colori freddi. Questo perché Manchester by the Sea (in cui è bello rivedere, anche solo per 5 minuti, attori cult come Matthew Broderick) non è la classica storia hollywoodiana di un eroico riscatto: è una storia che parla della reale inadeguatezza umana di fronte alle sfide insormontabili che a volte, in modo crudelmente improvviso e incomprensibile, la vita presenta. Piccoli uomini con piccole ambizioni e piccole risorse rispondono a queste sfide come possono.

giovedì 26 luglio 2018

Le altre serie tv (Giugno/Luglio 2018)

Dopo la deludente quarta stagione (qui la mia recensione) avevo ormai perso la speranza, ma abbastanza sorprendentemente (anche se il miglioramento è minimo) la quinta stagione di Arrow, la serie tv sull'arciere di smeraldo della DC (interpretato dal non più attore solo televisivo Stephen Amell), tornando ai suoi fasti originali, ovvero riportando finalmente l'attenzione sull'azione e sul vigilantismo, cosa che dopo la quasi ridicola introduzione di super esseri prima e Magia dopo senza una dovuta preparazione, ha rischiato di affossare tutto, e terminando finalmente la serie di inutili e noiosi flashback, riesce a farsi più apprezzare. Infatti fin dalla prima stagione di Arrow, una delle peculiarità che più ha diviso i fan è stata l'introduzione dei flashback. Certo, era davvero strano che un naufrago avesse imparato su un'isola deserta a tirare con l'arco, parlare Mandarino e Russo, ma i flashback occupavano, spesso, una parte preponderante delle puntate. Questo espediente portava spesso al rallentamento e alla dilatazione di molte situazioni e dinamiche, e alcuni episodi, che avrebbero potuto essere assolutamente positivi, venivano appiattiti sia dal punto di vista dell'interesse sia dal punto di vista della qualità. La quinta stagione, come le altre quattro, non ha fatto altro che confermare questo trend. L'ennesima sfilza di flashback è stata lentissima, pesante e noiosa all'inverosimile. Fortunatamente, dalla prossima stagione (si spera) non dovremmo più avere distrazioni e le puntate dovrebbero, finalmente, arrivare ad essere una unità unica, senza inutili parti ambientate nel passato. Si perché, a meno che gli autori non vogliano svelarci retroscena della prima stagione, il giro è completo, con i ricordi che si sincronizzano con ciò che è accaduto nel primo episodio della serie, i flashback sono finiti. Tuttavia, questa chiusura e il cliffhanger con cui si chiude questa stagione è però una lama a doppio taglio per gli sceneggiatori. Per quello visto infatti qualcosa dovrà per forza cambiare, altrimenti la sesta partirà già male (in tal senso il loro impegno creativo dovrà sicuramente essere ai massimi livelli per non peggiorare una situazione non così poi esaltante, dopotutto cliffhanger finale a parte, sembra che tutto il resto sia stato raccontato. Dove vorrà ancora andare la storia del vigilante verde?). Ma prima di ciò piccolo passo indietro a questa quinta stagione.

mercoledì 25 luglio 2018

Antichrist (2009)

Non mi aspettavo dopo aver visto Madre! (ma purtroppo non potevo più sottrarmi alla visione, dato che il suddetto fa parte delle mie promesse cinematografiche di quest'anno) di trovarmi nuovamente di fronte ad un film "strano" e difficile da commentare e giudicare (anche se si tratta di un'opera d'autore). Certo, avevo letto in giro qualcosa e in parte avevo già capito di cosa il film volesse parlare, ma lo stesso mi ha lasciato smarrito e anche un po' sconvolto. Antichrist infatti, film psicologico del 2009 scritto e diretto da Lars von Trier, che racconta il dramma di una coppia sconvolta dalla morte dell'unico figlio (durante un rapporto sessuale), di una coppia (storica del Medioevo lei, Charlotte Gainsbourg, psicoterapeuta lui, Willem Dafoe) che nel tentativo di superare il dolore e ricominciare a vivere si trasferiscono in una capanna in mezzo ai boschi, chiamata Eden (nomen omen), luogo di paure ancestrali che si rivelerà un inferno che farà affiorare ogni malvagità (giacché fra eventi inspiegabili, tragedie e rivelazioni le cose finiranno, stranamente, per precipitare), è un film davvero disturbante. Disturbante (non solo nel senso di visione) come può esserlo quella di sbirciare per un istante nel cervello di un malato di mente, nella rappresentazione davvero disturbante del male, che entra sottopelle, che si appiccica addosso e sporca lo spettatore. Qui siamo di fronte difatti a un'operazione cinematografica che, a tratti, stilisticamente, è sublime, per inquadrature, uso della macchina da presa, colori e suoni, con due attori magnifici, ma che rappresenta solo un delirio, gli incubi personali di un individuo che conferma se stesso soprattutto nella ricerca piuttosto gratuita dello stupore e dello scandalo (e in tal senso certamente non è un film per tutti e non può essere preso alla leggera). Antichrist insomma vuole essere la trasposizione di un malessere interiore del regista e la simbologia che regna per tutta la pellicola potrebbe anche essere interessante se tutto non fosse estremamente esagerato al limite pugnalando lo spettatore con scene macabre e, a volte, al limite del disgusto. Insomma, una sorta di autoanalisi che si trasforma in un delirio dove lo spettatore si ritrova (esattamente come nel film di Darren Aronofsky) impotente a guardare. Solo che, se in Madre! bastava un elemento per capire tutto (a patto di riconoscerlo) e per fargli assumere valore o senso, qui non c'è, date le metafore a mio avviso poco fruibili, un qualcosa che può disvelare accuratamente il suo recondito significato (e anche se ci fosse, e sicuramente c'è, il risultato non cambierebbe, mediocre è questo film, mediocre rimane).

martedì 24 luglio 2018

Loving Vincent (2017)

Mentirei se dicessi di aver già visto qualcosa di simile, perché certo, non è una novità assoluta fare un film di animazione nello stile del rotoscoping, ci pensò il maestro Akira Kurosawa in "Sogni" ispirato proprio alla vita di Van Gogh, parecchi anni fa, ma in Loving Vincent, film d'animazione britannico-polacco del 2017, diretto da Dorota Kobiela e Hugh Welchman, questa tecnica, questo insolito seppur non rivoluzionario stile, è applicata brillantemente (con esiti affascinanti, di certo non scontati) per narrare una storia dando realmente vita ai quadri di Van Gogh, più o meno famosi, offrendo così un grande piacere per gli occhi (e non solo, e anche a chi di arte si interessa poco come me, che tuttavia ha trovato bello ed interessante il documentario Raffaello: Il principe delle Arti), anche se dopo i primi minuti estasianti, poi, alla lunga, finito l'effetto "meraviglia", l'interesse (seppur rimanga per questo un buonissimo prodotto) scema un po', anche perché in verità l'effetto piacevole e particolare, dello schermo che si trasforma in un'immensa tela dove vigorose pennellate dalle ruggenti cromie compongono le varie scene, in cui colori e i continui tratti di pennello "vivacizzano" le immagini, essi possono a volte confondere la vista e risultare, alla lunga, stucchevoli. Tuttavia davvero incredibile e sorprendente è questo biopic anticonvenzionale, forse uno dei film più complessi della storia del cinema degli ultimi anni. Loving Vincent (l'espressione con cui Van Gogh terminava le numerose lettere all'amato Fratello Theo, lettere su cui regista e co-regista hanno preso ispirazione per il film, lettere che non a caso sono il motore della trama) è infatti stato girato con attori veri, quindi recitato, poi il montato delle riprese è stato dato ad una troupe di 125 artisti che ha dipinto a olio ognuna delle 65.000 inquadrature nello stile del pittore Vincent Van Gogh. E così ogni attore del cast, composto (tra gli altri) da Aidan TurnerHelen McCrorySaoirse RonanDouglas Booth e Jerome Flynn, è divenuto un vero e proprio modello per questi artisti, costituendo di fatto la base da cui partire per dipingere, in ogni singolo fotogramma, i protagonisti della pellicola tratti dalle tele più note. Un film che per questo, sembra ed è, un'infinita quanto splendida successione di capolavori, un susseguirsi di scene e personaggi che tutti, anche i meno appassionati di storia dell'arte, non possono fare a meno di riconoscere. Dando perciò vita ad un'esperienza visiva incredibile e sorprendente.

lunedì 23 luglio 2018

3 il numero perfetto

Nella blogosfera ci sono i veterani, quelli che hanno superato o hanno compiuto dieci anni di "attività" (e ne conosco molti), i professionisti, quelli che hanno raggiunto i cinque e hanno davvero parecchia esperienza (meno ovviamente dei veterani), gli esordienti al loro primo anno, e poi ci sono i principianti, la categoria più affollata, quella a cui appartengo da oggi anch'io, io che a tutti gli effetti non sono più un "bimbo sperduto", giacché ormai ho maturato l'esperienza giusta per affrontare senza troppi problemi questo "strano" mondo virtuale. Sì perché si manifestò esattamente tre anni fa il mio assoluto esordio nel mondo dei blog, ed oggi a tre anni di distanza mi sento finalmente integrato in esso, nel suo tessuto gravitazionale, anche grazie all'aiuto di tanti blogger, da cui ho preso altresì ispirazione per la nascita di questo mio spazio personale, quel PSW (Pietro Saba World) che dalla sua apertura mi ha permesso di sviscerare la mia passione per il cinema, la televisione (e quindi serie tv e quant'altro), la musica e tanto altro, compresi ricordi, pensieri ed opinioni personali. Tuttavia non sapendo come festeggiare questo importante momento, dopotutto 3 è il numero perfetto, giacché avevo pensato ad un sondaggio, ma un sondaggio su cosa proprio non sapevo, di bilanci, numeri e progetti futuri ho già dato ad inizio anno (qui, e comunque i numeri servono a poco, l'importante è che vita ci sia), ho deciso solo di aggiornarvi sui miei progetti, sulle mie promesse, le prossime visioni e su come tutto sta procedendo, tra piccoli rallentamenti, intoppi e quant'altro (intanto vi segnalo che da un mese e poco più il blog collabora a scopo di reciproca visibilità con il blog Vivi e scrivi, trovate il banner nella colonna a destra, blog di recensioni cinematografiche, letterarie e di serie televisive gestito dalla simpatica e cordiale Grazia). Per cominciare inizio dicendovi che dopo alcuni problemi di ricezione d'assenza di segnale (risolti dopo tre mesi), ho adesso finalmente la possibilità di vedere i "nuovi" canali Premium Mediaset direttamente da Sky, e quindi la mole di film aumenterà. Di positivo però c'è il fatto che potrei completare prima di quanto pensassi la mia lista di visione, e che ancora più vario sarà l'assortimento dei film che vedrò.

venerdì 20 luglio 2018

Labyrinth: Dove tutto è possibile (1986)

Nel 1986 avevo appena un anno, e il cinema non sapevo neanche cosa fosse, negli anni ho visto poi migliaia di film, ma non quest'opera, che ho scelto finalmente di vedere in occasione del Geekoni film festival organizzato tra alcuni amici blogger e finalizzato alla scoperta e/o riscoperta di film per ragazzi (la lista completa dei partecipanti la troverete a fine post con annessi i link di chi ha già partecipato), un'opera davvero strabiliante che seppur dimostra tutti i suoi anni, anche a causa di qualche momento di stanca, sa ancora stupire ed emozionare per buona parte della visione. Così tanto che se l'avessi visto da bambino o ragazzo probabilmente sarebbe diventato per me un cult, sarebbe divenuto un mio capolavoro personale (anche se in parte lo è, seppur non cinematograficamente parlando, comunque per molti). E allora me lo son visto, per la prima volta, a 33 anni suonati. Probabilmente non è l'età giusta per guardare un film, Labyrinth: Dove tutto è possibile (Labyrinth), film fantastico del 1986 diretto da Jim Henson (maggiormente conosciuto per essere l'inventore dei Muppets), che ha ben altro target di pubblico, ma allo stesso tempo alla mia età si vedono meglio i pregi e i difetti di un film che all'epoca avrà certamente entusiasmato, divertito ed emozionato milioni di bambini, ragazzi e probabilmente adulti. Cosa che in parte è successo anche a me, perché Labyrinth, prodotto da George Lucas e scritto da Terry Jones (uno dei fondatori dei Monthy Python), se da un punto di vista puramente visivo è un gioiellino, da un punto vista puramente cinematografico è davvero un bellissimo e fantastico film, dopotutto vedere questo film è come leggere una fiaba dei fratelli Grimm: un film dolce, semplice, ma che fa veramente sognare. Non a caso solo un bambinone mai cresciuto come Jim Henson (i suoi Muppets, tra show e film, sono ormai un cult dell'immaginario collettivo) poteva portare sul grande schermo un film che parla del difficile passaggio dall'adolescenza spensierata all'età adulta piena di responsabilità. Lo fa nel modo più consono, con leggerezza, attingendo a tutta la letteratura che tratta l'argomento, come Il Mago Di Oz e Alice Nel Paese Delle Meraviglie, e ambientandolo proprio nel mondo delle fantasie dei bambini, pieno di magia, pupazzi, creature fantastiche e orribili allo stesso tempo.

giovedì 19 luglio 2018

Thor: Ragnarok (2017)

Tra tutti i film dedicati ai supereroi Marvel che rientrano nell'universo espanso della suddetta casa cinematografia e fumettistica, quelli di Thor sono, per quanto mi riguarda i meno convincenti, anche se comunque sempre ben fatti, infondo si parla sempre della Marvel. E anche questo terzo capitolo, sebbene sia dal punto di vista visivo nettamente superiore ai primi due, risulta essere sotto tono sul piano narrativo rispetto alla maggior parte degli altri film appartenenti al MCU. Tuttavia è innegabile ormai constatare che i Marvel Studios sono sinonimo di garanzia di ottimo intrattenimento, e anche qui con Thor: Ragnarok, film del 2017 diretto da Taika Waititi, seppur la trama (dove la mitologia nordica si ammanta di scanzonata space opera mantenendo alla base la struttura classica del peplum, da Spartacus a Il Gladiatore, la saga archetipica del legittimo erede al trono ridotto in schiavitù, esiliato dalla madrepatria e costretto a combattere nell'arena mentre l'usurpatore governa con pugno di ferro), oltre ad essere alquanto banale e per alcuni aspetti superficiale, non aggiunga niente di nuovo all'interno dal panorama supereroistico, in particolar modo in quello Marvel (giacché il suo sviluppo risulta ormai quasi canonico e quindi anche prevedibile), l'obbiettivo è raggiunto. Anche se, per quanto il film riesca ad intrattenere e divertire non poco, grazie agli incredibili effetti speciali e alla grande componente artistica che contraddistingue un minimo questo Thor: Ragnarok, manca quella profondità e genialità in più che la Marvel era sempre riuscita a trovare, perché dopo che la controparte DC ha saputo mostrare i muscoli con Wonder Woman, questa mancanza di idee rischia di far sembrare il loro film fin troppo simili l'uno dall'altro e per questo abbastanza dimenticabili se presi singolarmente, e ciò lo dico da grande fan, della suddetta casa produttrice, che negli ultimi loro film ha notato un po' di pigrizia da parte loro di realizzare qualcosa di nuovo e veramente emozionante. Tant'è che qui si va ad imitare, per alcuni aspetti, un precedente loro successo, ovvero Guardiani della Galassia, impossibile infatti non notare la grande somiglianza tra i due film, soprattutto per la nostalgia influenza degli anni '80, qui sottoforma di colori accesi e tipici di quegli anni, inoltre sono presenti anche vari riferimenti ad essi. Però se in GOTG questa influenza è giustificata e contestualizzata è per questo più che godibile, in questo caso è praticamente infondata e quindi, a parere mio un po' fuori luogo.

mercoledì 18 luglio 2018

Il Miracolo (1a stagione)

In una società in cui siamo biologicamente spinti a dare una spiegazione a qualsiasi cosa, come potremmo reagire al cospetto di un miracolo? Un evento così leggendario, che solo chi ha una fede ferrea è disposto ad accettare, travolge e innesca una serie di eventi destinati a cambiare la vita di tutti. E Niccolò Ammaniti, esordiente regista nel film "Io non ho paura", torna sullo schermo con una serie televisiva in cui analizza proprio le varie reazioni che alcune persone, differenti per ceto sociale, religione e professione, innescano nel momento in cui entrano in contatto con qualcosa che non possono comprendere. Toccherà a loro decidere in quale modo affrontare un evento simile. Il Miracolo infatti, serie televisiva italiana di genere drammatico trasmessa dall'8 maggio 2018 su Sky Atlantic, co-prodotta dalla stessa Sky, che si struttura su due narrazioni apparentemente disgiunte, ma che saranno poi destinare ad incontrarsi: il prima e il dopo del miracolo, e in dove i paesaggi romani, i luoghi selvaggi e aridi della Calabria e le distese pianeggianti dell'Emilia Romagna fanno da sfondo alle vicende dei protagonisti, ma soprattutto fortemente aderente alla realtà politica e sociale presente (basti pensare alla questione dell'uscita dall'euro) che parte appunto da una domanda semplice eppure profonda "come cambierebbero le vite di chi entra a contatto con un vero e proprio miracolo?", che parte proprio con l'incipit del ritrovamento di una statuetta della Madonna che piange sangue, ci racconta di come questo evento inspiegabile può sconvolgere l'esistenza, di quali ripercussioni avrà sulle vite di tutte le persone che ci entreranno in contatto, di una serie di personaggi interessanti, atipici (e non del mondo intero, non di un evento ultraterreno). La serie difatti, come si intravede fin da subito, non vuole e non è la storia di un evento soprannaturale che travalica l'umana comprensione violando le leggi della natura per obbedire solo a quelle dell'onnipotenza divina, non a caso la statua della vergine che piange compare non spesso e lo stratagemma del congelarla è solo un intelligente escamotage per suggerire allo spettatore che quel sangue che si accumula in maniera sovrabbondante è solo la scintilla che doveva accendere la fiamma di una serie il cui fuoco si sarebbe alimentato di ben altro. Giacché tenere nascosto il miracolo in nome di una discutibile ragion di stato ha permesso alla serie di concentrarsi non sull'isteria collettiva che avrebbe colto il mondo di fronte ad una tale rivelazione, ma piuttosto sui pochi personaggi che ne sono venuti a conoscenza. Ed Il Miracolo è appunto la loro storia.

martedì 17 luglio 2018

Vi presento Toni Erdmann (2016)

Spesso tendiamo a prendere troppo sul serio la nostra vita, perdendo di vista il lato più bello dell'esistenza: il bisogno di emozioni, leggerezza, di prendersi del tempo per pensare a se stessi e reinventarsi per trovare quella sensazione di cui tutti sono in cerca, la felicità. Come ad esempio emerge dal complicato ma tenero rapporto di una giovane donna manager, dedita solo al successo e alla carriera, con l'eccentrico padre in Vi presento Toni Erdmann (Toni Erdmann), film del 2016 diretto da Maren Ade. Quest'ultimo infatti fa di tutto per farle tornare il senso dell'umorismo e la leggerezza della vita, e recuperare altresì il tempo perduto nel legame affettivo con la figlia. Come? Giocandosi l'unica carta che gli rimane a disposizione, lo sberleffo, impersonando e quindi assumendo l'identità del proprio alter ego Toni Erdmann. Peccato che il finale lasciato alla libera interpretazione, non spiega se padre e figlia abbiano finalmente allacciato un rapporto oppure no. Peccato anche che, il messaggio simpatico e carino del bisogno di prendersi meno sul serio rinunciando talvolta al conformismo, non porti da nessuna parte. Peccato altresì che il film, disseminato di scene dell'assurdo alquanto inutili e sconclusionate, non riesca a coinvolgere appieno nell'intento critico alla disumanizzazione dei rapporti di lavoro all'interno delle multinazionali. Peccato soprattutto che il grottesco padre non sia mai divertente ma solo inutilmente imbarazzante. Non dimenticando che il film, proprio ridere o sorridere tanto non fa e forse non vorrebbe, perché il suddetto, è tutto fumo e niente arrosto. Si ride, è vero, ma le situazioni che lasciano spazio alla comicità sono parecchio diluite all'interno delle due ore e mezza del film, il quale alla fine risulta maggiormente incentrato sugli sguardi e sul non detto. Ma questo accade perché dopotutto non vi è molto da dire: l'ambiente di lavoro di Ines, dedito al maschilismo e alla freddezza dei rapporti umani, non viene mai realmente approfondito, come del resto era nelle intenzioni della stessa regista. Regista che avrebbe forse dovuto girare una pellicola drammatica, perché l'intento del regista di dare largo spazio anche alla commedia, non sempre funziona come previsto, ed è parecchio deludente.

lunedì 16 luglio 2018

Split (2016)

Dopo The Visit, con il quale aveva impressionato milioni di telespettatori, compreso me, lasciandogli però l'amaro in bocca sul finale (amaro che tornerà prepotentemente anche qui), M. Night Shyamalan, torna a raccontare una storia dai tratti inquietanti, soffermandosi questa volta sul lato psicologico dei personaggi più che sulla vicenda in sé. Spesso, infatti, alcune scelte sono dettate da fatti precedenti, accaduti nel proprio passato, che difficilmente si dimenticano. Ed è anche su questo tema che il regista gioca in Split, film del 2016 diretto dal regista di origini indiane, la vita ci pone davanti a delle situazione che segnano nel profondo l'animo di chi le vive, portando a volte a cambiamenti radicali o a malattie psicologiche che prendono il sopravvento. Non a caso il film, affronta il tema della personalità multipla, un evergreen del genere horror-thriller, matrice di spunti e idee per racconti suggestivi. Così Shyamalan dà vita a un maniaco che rapisce e imprigiona in uno scantinato tre ragazzine: Claire, Marcia e Casey. Le giovani si accorgeranno presto di combattere non uno, bensì 23 rapitori differenti, racchiusi in un unico individuo. Il suo nome è Kevin "Wendell" Crumb ma in lui si dimena un intero condominio di categorie umane: dallo stilista omosessuale Barry, al timido ma educato Dennis, al bambino capriccioso Hedwig, fino alla signora Patricia. Tutti interpretati virtuosamente da James McAvoy, che riesce in scioltezza a coordinare una molteplicità di posture e atteggiamenti. Nel mucchio però, serpeggia una pericolosa 24esima personalità, che gode di un appellativo poco rassicurante: "La Bestia". Riusciranno le ragazze a uscire vive dalla cattività? Mentre la polizia brancola nel buio, la loro unica speranza è riposta in un'anziana psicanalista dalla quale Kevin è in cura e che comincia a temere per gli atteggiamenti del paziente. Ma quando se ne accorge che qualcosa non va, è troppo tardi, e la lotta per non finire nelle sue grinfie diverrà sempre più pericolosa e complicata.

venerdì 13 luglio 2018

Madre! (2017)

Com'è difficile parlare di questo film, francamente sono spiazzato, su di un piano emotivo l'ho trovato molto disturbante, non vedevo l'ora che finisse, su di un piano più cerebrale, si può giudicare come un'opera molto ambiziosa, che guarda molto in alto, anche se proprio quest'aspirazione, non sembra corrispondere al risultato ottenuto, un risultato tuttavia discreto. Di certo è innegabile che dopo aver assistito a Madre!, film drammatico, horror grottesco o thriller non si sa del 2017, si può tranquillamente affermare che quella concepita da Darren Aronofsky è un'opera come se ne vedono poche (un'opera incredibilmente sopra le righe che non assomiglia a niente altro), che non assomiglia a nulla di quanto realizzato dal regista in precedenza e che probabilmente lo stesso non sarà più in grado di replicare. Darren Aronofsky infatti, che dopo alcuni film tutto sommato quasi convenzionali, regista già affermatissimo e autore di pellicole importanti caratterizzate da un'insolita e caratteristica vena visionaria, che qui non rinuncia allo stile che lo ha reso celebre per questa sua ultima fatica, anzi, Mother! spinge la sua ricerca espressiva ancora più in là (forse questa volta a scapito della narrazione, che soffre di un'eccessiva frammentarietà e ridondanza), si rituffa in un film (un'opera interessantissima, di evidente impostazione psicanalitica arricchita da elementi horror, cui peraltro non manca neanche un sottile, e malato, sense of humour e su cui aleggia un'atmosfera da teatro dell'assurdo) aberrante e stravagante. Perché anche se egli ci aveva già abituati all'esplorazione delle paure e dei desideri inconfessabili che si insinuano nell'animo umano grazie a pellicole come Requiem for a Dream e Il Cigno Nero, con Madre! il regista amplifica la rappresentazione del malessere del singolo individuo e la estende a personalissimo e visionario intreccio di inquietudini e paranoie sul destino del mondo e dell'umanità. Il risultato è quindi un quadro scioccante, a tratti indecifrabile e disturbante, parrebbe sulla follia del nostro tempo, sull'insostenibilità della nostra condizione di esseri umani schiacciati dalle prospettive che gravano sul pianeta e dalle aspettative di chi ruota attorno a noi, e forse anche sulla forza dirompente dell'amore, quello che ci rende vulnerabili, quello che ci terrorizza a morte, ma è difficile capirlo con esattezza.

giovedì 12 luglio 2018

Legion (2a stagione)

E' stata una delle sorprese più gradite della scorsa stagione televisiva grazie alla sua qualità e alla sua originalità nell'approcciarsi al genere supereroistico, ora Legion (di cui seconda stagione si è conclusa un mese fa ma finita di vedere solo pochi giorni fa), la serie più iconoclasta appunto del panorama supereroistico, torna a sorprendere per follia e inventiva in una seconda stagione che non delude (giacché dopo gli stravolgimenti di una prima stagione dal corso discontinuo, caotico e completamente folle, era davvero un'incognita il futuro di Legion, uno dei prodotti più originali e innovativi dell'attuale panorama seriale) le aspettative, anche se personalmente, e alla fine, l'ho trovata tuttavia meno "originale", paradossalmente più prevedibile nonostante la sua clamorosa imprevedibilità, troppo riflessiva, e quindi poco dinamica, rispetto all'incredibile ed eccezionale prima stagione (qui la mia recensione). Ma è innegabile però che questa seconda stagione, riesca comunque, non solo a raggiungere lo stesso livello qualitativo del precedente percorso ma anche quasi a superarlo. E in tal senso tuttavia c'era d'aspettarselo, perché certo, pronosticare che la creatura nata dalla mente di Noah Hawley potesse tornare alla ribalta superando addirittura se stessa (tanto nei contenuti quanto in una messa in scena sempre più lisergica e surreale), difficilmente lo si sarebbe potuto prevedere, ma dopo la prima stagione questo show, scollegato sia dal Marvel Cinematic Universe che dalla linea narrativa dei film cinematografici sugli X-Men, che convinse critica e parecchio pubblico, era chiaro che potesse sorprendere nuovamente (fortunatamente in positivo), d'altronde il protagonista della storia, ovvero David Haller, alias Legione (un mutante che nella sua storia editoriale non ha mai avuto una testata a lui dedicata, al massimo è stato protagonista di qualche miniserie, ma non può essere di certo considerato un personaggio tra i più rilevanti dei fumetti) grazie alle sue particolari caratteristiche era perfetto (soprattutto vedendo lo splendido risultato ottenuto nel precedente blocco di puntate) per la storia che Noah Hawley (creatore anche della serie tv Fargo, che conto prima o poi di recuperare) voleva raccontare. Proprio perché egli, rincarando la sua personale dose di stranezze e bizzarrie ci catapulta (giacché invece di adagiarsi sugli allori, pare alzare l'asticella del rappresentabile) ancora una volta, in un vortice sempre più profondo e disturbante, incredibile e complesso (e tuttavia comunque non perfetto). Un vortice che però non può che confermare questo uno dei prodotti più anomali e inventivi della serialità televisiva.

mercoledì 11 luglio 2018

The Devil's Candy (2015)

Ho letto in giro commenti e giudizi entusiasti, ma dopo aver visto The Devil's Candy, film del 2015 scritto e diretto da Sean Byrne, la mia impressione è che si tratti di un film, un horror, sicuramente sufficiente, minimamente innovativo ma parecchio deludente per come era stato presentato. Ovvero una grandissima pellicola, una piccola rivoluzione, una delle più belle sorprese dello scorso anno, invece, seppur questo The devil's candy è sicuramente un opera godibilissima e parecchio interessante, un ibrido assai preciso tra suggestioni culturali "alte" e "basse", un ibrido di due sottogeneri dell'horror, lo slasher con il pazzo assassino che uccide e squarta vittime e che perseguita una famiglia e il film di possessioni demoniache, dove a perseguitare una famiglia è il demonio, esso è però un'opera confusa e per niente spaventosa, con un finale anche troppo benevole. Perché certo, è realizzato con una certa cura (con uno stile pulito, rigoroso ed essenziale, fotografia e montaggio di livello) e Sean Byrne (alla sua seconda prova da regista dopo The Loved Ones, film che tuttavia non ho visto) non manca di estro visivo alla regia, una marcia in più è sicuramente data dalla colonna sonora metal (sempre che piaccia, e a me sinceramente non tanto) che unita all'arte dark presente nel film lo rende un prodotto che vive di luce propria nonostante soggetto e sceneggiatura siano derivativi da molti thriller-horror, perché certo, c'è tensione, c'è atmosfera e ci sono delle buone prove attoriali, il panico della famiglia, specie della figlia, traspira sino allo spettatore e Pruitt Taylor Vince come villain fa la sua figura, vi è una certa crudeltà, anche se alla fine visivamente non si mostra chissà quanta violenza, ma purtroppo la sceneggiatura è un poco superficiale o forse criptica per quanto riguarda certi argomenti (e penso alla società d'arte per cui lavora il protagonista) ed il finale banale oltre che "caciarone" per quanto concerne la sequenza dell'incendio.

martedì 10 luglio 2018

[Tag] Conosciamoci un po' meglio!

Come dovreste forse aver capito, a me piacciono le domande, non so, forse perché è più "facile" in modo diretto e senza preamboli rispondere e farvi così conoscere qualcosa in più su di me, ma non contento di aver risposto quest'anno a già tantissime (nel precedente anche tante), prima nel Liebster Award, poi addirittura nelle 100 domande che nessuno farebbe, e infine in altri tre Tag, in Le cose che mi piaccionoLe cose che NON mi piacciono e La prima volta non si scorda mai (non dimenticando quello sui viaggi e quella delle estati "pop"), eccomi nuovamente (e in modo del tutto autonomo) partecipare all'ennesimo Tag, che non sarà di certo l'ultimo, quello a cui ha partecipato Silvia e poi Riccardo, per l'appunto intitolato Conosciamoci un po' meglio. E quindi ecco ancora qualcosa su di me di cui spero non sappiate già (giacché per casualità ad alcune delle 20 domande a qualcuno ho già risposto in altri post), ma in ogni caso partiamo dalle regole, che ovviamente hanno subito un ribaltamento importante, perché 1: seguire il blog che ti ha nominato, non mi hanno nominato ma seguo comunque entrambi i blog; 2: rispondere alle sue 10 domande, è quello che farò; 3: nominare a tua volta altri 10 blogger e formulare altre 10 domande (che possono essere su VITA PRIVATA, VIAGGI, CINEMA, MUSICA, SERIE TV, LIBRI e CIBO) per i blogger nominati, come sopra, e quindi eviterò di formulare domande; 4: informare i blogger della nomination, come prima, tuttavia ho già informato i due blog che avrei risposto alle loro domande; 5: taggare il blog che ti ha nominato nelle risposte, il link che rimanda ad entrambi i blog li trovate nelle rispettive immagini dei loro blog. Ebbene, puntualizzato il tutto, si parte.

lunedì 9 luglio 2018

20th Century Women (2016)

Partiamo subito con un appunto importante, il titolo inglese era probabilmente più adeguato e sicuramente più originale (non a caso è quello che ho preferito mettere) di quello scelto dalla distribuzione italiana, ovvero Le donne della mia vita, giacché il film 20th Century Women, film del 2016 scritto e diretto da Mike Mills, seppur è un racconto di formazione adolescenziale (dove le "sue" donne forti e indipendenti lo aiuteranno a crescere in una delle fasi più difficili dell'essere umano ma anche il racconto di una madre e di un figlio, del cambiamento che sta alla base della giovinezza), è soprattutto il racconto di tre donne, di tre età diverse, di tre concezioni della femminilità e dell'essere donna negli anni settanta, un periodo di forti cambiamenti. Un racconto in tal senso però innocuo (senza moralismi), semplice (il film infatti non ha una vera trama, che è come dire la vita stessa) e alquanto originale (insolito e interessante è il modo di raccontare). Giacché questo film di formazione di un quindicenne con madre single di 55 anni che ritiene utile coinvolgere nella sua crescita e maturazioni alcuni personaggi conviventi nella sua casa, tutti ben tratteggiati anche nella loro storia personale e rapportati al periodo storico (a cavallo tra gli anni '70 e '80, che delinea l'inizio di un cambiamento sociologico molto forte che si otterrà solo negli anni '80), è presentato in un modo piuttosto lontano dagli schemi tradizionali di oggi, ricordando in tal senso il periodo, colorato e bizzarro, degli anni '70. La pellicola infatti, una storia nostalgica, ma senza piagnistei, anzi piena di brio, di una singolare maternità, di una famiglia allargata ante litteram, e quindi essenzialmente di una lunga serie di scene aneddotiche, dove il regista mostra le passioni e paure semi sepolte di questi personaggi interessanti (e interpretati egregiamente), che hanno una vita e un passato profondo e complicato, di cui veniamo man mano a conoscenza, che altresì ci porta all'interno di un mondo affascinante e profondo, dove varie storie si intrecciano in una grande casa americana, cela spesso (e sorprendentemente) un sottile senso dell'umorismo che rende tutto molto divertente.

venerdì 6 luglio 2018

Bleed - Più forte del destino (2016)

È curioso come il cinema sportivo sia quasi esclusivamente rappresentato da storie che raccontano il mondo della boxe. Dopo il successo mondiale del capolavoro Rocky (1976), hanno cominciato a proliferare film incentrati sul mondo della pugilistica e ispirati a storie più o meno vere. Da Toro Scatenato (1980) ad Alì (2001), Million Dollar Baby (2004) e Hurricane (1999), fino ad arrivare ai più recenti The Fighter (2010) e Southpaw: L'ultima sfida (2015), non dimenticando Creed: Nato per combattere, sempre nel 2015, tutti film che raccontano la boxe come metafora della vita e della difficoltà di farsi strada in un mondo competitivo e incentrato sul mito dell'immagine. Un filone fiorente e appassionate a cui ora (personalmente s'intende), si aggiunge Bleed: Più forte del destino, film del 2016 diretto da Ben Younger, regista di 1 km da Wall Strett, e prodotto da Martin Scorsese. Un film per questo, l'ennesima storia di caduta e resurrezione, tipica della boxe, "nobile arte" e sport appunto più cinematografico di sempre, che ha forse la "colpa" di arrivare da buon ultimo in questo sterminato (ho citato solo una parte dei film che formano un vero e proprio sottogenere) elenco, racconta infatti eventi che, sia per il fatto di essere tratti da una storia vera sia per il fatto di seguire uno "schema prestabilito" (che rientra nei canoni di tali film), si intuiscono subito dove vanno a parare, ma colpisce per il realismo, adottato dal regista, con cui vengono narrati gli incontri di boxe, dove per fortuna sono evitati gli eccessi, mostrando invece lo sport per quello che è. Uno sport di uomini duri ma soprattutto tenaci, come il protagonista, un uomo caparbio e deciso, che ha letteralmente cambiato il corso della propria vita, quasi come un eroe, anche se nella vita reale, costui Vinny Paz, non è stato un eroe, anzi si è presentato agli onori della cronaca anche per alcuni deplorevoli episodi di violenza domestica. Il film però non guarda all'aspetto negativo di Paz, pur non esaltandolo mai nemmeno come un eroe. Paz è un uomo e come tale dimostra pregi e difetti, ma un qualche cosa di eroico la possiede: quella grande forza di volontà, mista anche una dose di sana incoscienza, che l'ha reso un esempio per chi, come lui, potrebbe veder sfumare in un attimo i propri sogni e le ambizioni. E Bleed: Più forte del destino, che dedica alla sua rinascita il racconto di quello che è considerato uno dei più incredibili ritorni nella storia dello sport, comunica con efficacia questo concetto.

giovedì 5 luglio 2018

Billions (3a stagione)

Se c'è una serie di cui praticamente quasi nessuno (a parte me) ha parlato è Billions, se c'è una serie che praticamente quasi nessuno (a parte me) ha visto è Billions, se c'è una serie che meriterebbe certamente più attenzione (a parte quella che ho dato io anche nelle stagioni precedenti) è Billions, se c'è una serie che ha mantenuto alto il livello e ad ogni stagione ha migliorato sempre più (per ulteriori rimandi leggere la recensione della prima qui e della seconda qui), quella serie è Billions, la serie della Showtime infatti, andata in onda dal 13 aprile su Sky Atlantic e conclusasi settimane fa, anche in questa terza stagione (che riconferma la qualità di una serie che purtroppo come detto viene seguita fin troppo poco) sorprende gli spettatori raccontando (nuovamente) delle storie tremendamente attuali, usando i personaggi come specchio della società. Una società quella Americana che sta cadendo (nuovamente) sotto la stessa immagine che si è creata, quella di liberatrice e ispiratrice di giustizia e libertà. Qui i soldi e la politica contano e Billions ce lo fa vedere nel modo più crudo possibile con innocenti che finiscono (nuovamente) nel fuoco incrociato. Non a caso forse, lo scoglio principale da superare in questa serie non è solo quel senso di ripetizione continuo dei suoi schemi di base che potrebbe stancare il pubblico considerando anche la difficoltà di seguire le dinamiche finanziarie e certi termini ostici usati, ma anche perché incentrare lo show sul mondo dell'alta finanza e sottigliezze giudiziarie poteva essere per forza di cose un'idea folle, malsana e destinata ad affondare, fin troppo complessa da digerire per lo spettatore avulso da nozioni di economia. Eppure anche questa stagione ha trasformato il suo potenziale tallone d'Achille in un punto di forza. Questo perché la trama, i personaggi e lo stesso andamento di Billions sono studiati, calcolati e scritti così minuziosamente da rendere comprensibile il suo universo mutevole e incerto, senza che ciò comporti una semplificazione eccessiva del complesso mondo che la serie ritrae. Rimane sempre un telefilm imperniato sulla sua originale complessità e ricercatezza, stilistica e non, ma costantemente decifrabile con un piccolo sforzo, che spalanca (nuovamente) le porte ad uno dei migliori drama/thriller in circolazione, anche grazie ad un solido, eccezionale e bravissimo cast, che in questa terza può contare nelle sue fila del grande John Malkovich, un perfetto boss mafioso russo.

mercoledì 4 luglio 2018

A United Kingdom: L'amore che ha cambiato la storia (2016)

I politici sono pedine e la politica e il gioco che li muove in giochi di potere che si intrecciano con altre derive come lo sfruttamento del territorio e leggi razziali che tendono a dividere e annullare la democrazia. Tutti sono manovrabili, tutti hanno un prezzo. Fortunatamente ci sono persone che si ribellano a queste ingiustizie e lottano, non senza aspre conseguenze, per la libertà, l'uguaglianza e il rispetto dei popoli. E A United Kingdom: L'amore che ha cambiato la storia (A United Kingdom), film del 2016 diretto da Amma Asante, racconta la (reale e molto interessante) storia di una di queste persone che hanno lottato, e vinto, per i propri diritti e quelli di una intera nazione. E' infatti una storia vera (dopotutto il carattere biografico è molto riconoscibile nel corso del film che ci mostra una serie di avvenimenti che si estendono su un periodo di alcuni anni) quella che la regista mette in scena, raccontando le vicende di Seretse Khama (che non solo diventerà re, ma che sarà anche il primo presidente eletto del Botswana) e di sua moglie Ruth, che al marito e alla popolazione africana consacrerà la sua vita intera. Non a caso il film intreccia vicende politiche a questioni sentimentali, in una cornice forse troppo melò e patinata che rischia di lasciare perplesso lo spettatore (giacché è proprio l'immagine a disturbare l'armonia d'insieme e a prevalere troppo, creando un'allure sofisticata che non era necessaria, perché la storia era già molto importante, forte e ben diretta di suo), spettatore che tuttavia si ritroverà coinvolto in una vicenda appassionante, perché non solo essa tocca argomenti e tematiche sociali di grande impatto, ovvero il razzismo e il colonialismo, ma perché appunto il tema e il cuore della storia (se non ci si fa travolgere dal sentimentalismo in verità un po' troppo strappalacrime) hanno comunque il loro fascino. Una vicenda che in tal senso, può ricordare per certi versi The Help, dove persone dalla pelle bianca e persone dalla pelle nere s'incontrano (si scontrano anche), si confrontano e avviano il percorso verso un cambiamento. D'altronde è il cambiamento a spingere questa coppia interrazziale a non farsi sopraffare dai pregiudizi sociali e politici.

martedì 3 luglio 2018

Knight of Cups (2015)

Ho apprezzato, seppur non tantissimo, Terrence Malick nei suoi quattro film prima del suddetto, ma questo Knight of Cups, film del 2015 scritto e diretto dal regista statunitense, l'ho trovato molto difficile da portare a termine. Egli punta sempre in alto, e il più delle volte ci riesce bene e con discreti risultati, ma stavolta gli è sfuggita di mano la situazione. La linea è quella di The Tree of Life e To the Wonder, ma portata all'estremo in una sfida allo spettatore in cui la bellezza di certe immagini della natura solo a tratti compensa la fatica di aderire a un percorso esistenziale enigmatico, dove la voice over commenta ma non chiarisce. Se infatti in To the Wonder, il viaggio tormentato nei meandri della psiche del protagonista Ben Affleck, risultava tutto sommato efficace e abbastanza convincente, qui finisce per essere una stancante sequela di sequenze quasi tutte uguali in cui l'originalità e il fascino del mistero delle pellicole di Malick lasciano spazio ad una spiacevole sensazione di noia e di già visto/percepito. Se infatti in The Tree of Life, la ricostruzione di una vicenda umana si incastrava alla perfezione con quel flusso stordente visivo capace di evocare il conflitto tra umanesimo e spiritualità, qui questo raccordo appare molto più sfilacciato, talvolta pretestuoso, e la voce over ostentata e solenne che predica lungo tutto il film crea un maggiore distacco verso l'immagine che non una riflessione di completamento. Tanto che, peggio che in altre occasioni, la parte più difficile diventa tentare di estrapolare una trama comprensibile ai più. Nel film difatti, si susseguono confusamente le relazioni più o meno durature del protagonista, i personaggi entrano ed escono dalla scena secondo una logica non sempre comprensibile e di tanto in tanto il flusso di parole e immagini è illuminato sì da momenti di sfolgorante bellezza, ma di cui si fa fatica a capirne il senso. Tra la sinossi del film e il suo effettivo risultato c'è infatti una discrepanza enorme, perché impegnato com'è a raccontarci ancora una volta di un maschio bianco in crisi esistenziale che cerca la terra promessa nelle proprie amanti senza trovare risposta, Malick conversa più con se stesso che con lo spettatore.

lunedì 2 luglio 2018

Power Rangers (2017)

Ci tengo fin da subito a precisare che faccio parte di quella categoria di persone che da bambino era leggermente fissato con i Power Rangers essendo io un 1985, la primissima serie dedicata a loro, quella che è durata dal 1993 al 1995, quelle nuove uscite successivamente non le ho mai viste se non a sprazzi, ormai ero un po' troppo grandicello. Dunque è questa un'altra semplice e misera operazione nostalgia? Sì, ma non del tutto, non solo perché chi non ha mai sentito parlare di questi supereroi grazie a questo film li amerà, soprattutto grazie ai ragazzi protagonisti, simpatici e stravaganti, interpretati da attori poco conosciuti ma decisamente funzionali, ma perché chi appunto li ha visti, sarà forse rimasto come me piacevolmente sorpreso da un riadattamento "reboot" davvero piacevole nel contenuto e nella forma. Perché certo, ci si aspettava in tal senso una pellicola trash (non dimentichiamoci com'era la serie tv), e invece no, non del tutto almeno. Perché questo Power Rangers, film del 2017 diretto da Dean Israelite, si rivela essere un film fedele al materiale originale (mantenendone tuttavia lo spirito trash e volutamente sopra le righe) ma riuscendo comunque nell'impresa di essere più profondo del previsto, prendendosi il più possibile sul serio, pur lasciando spazio ad una velata ironia che è tipica di certe produzioni. Il film del regista sudafricano infatti, restando fedele al suo target di riferimento e a quello contemporaneo, offre una rilettura onesta e godibile della celebre serie tv, con l'occhio rivolto all'adolescenza. Egli difatti confeziona un film perfetto per i teenager ricco di effetti speciali, riflessioni sull'adolescenza e qualche momento horror. Via quindi quelle atmosfere fantastiche e cartoonesche che caratterizzavano il serial (la vena scanzonata a cui eravamo abituati non c'è più), per far posto ad un approccio più concreto e realistico che il cinema di oggi, e di un certo tipo, predilige. Un approccio, nonostante la trama ricalchi grossomodo le orme della serie tv, completamente nuovo.