L'estate sta finendo, da quello che dicono le previsioni a giorni dovrebbe piovere e quindi il caldo dovrebbe cessare, perciò è ora di fare un resoconto di questa estate, e di questo Agosto appena trascorso e conclusasi fisicamente non eccezionalmente. Un po' come non eccezionale è stata la mia estate, periodo che ho passato (purtroppo le mie possibilità fisiche sono limitate) senza fare niente, come tutte le altre stagioni e gli altri giorni, ormai quello che faccio meglio è vedere la televisione, scrivere e giocare al computer, ma sono contento così, anche perché mi piace e molto. Quindi nessuna vacanza "reale", ma tante visioni, tanti caratteri e parecchie sparatorie, che come sempre regalano alti e bassi, i film deludono le aspettative (ma non è oggi il caso), a volte di scrivere non c'è voglia e bloccarsi per giorni nello sconfiggere un "boss" può capitare. L'unica vera consolazione è aver ritrovato il gelato nel menù, ed è un peccato che stia per finire. Comunque il campionato di calcio è cominciato, i sorteggi ci sono stati, e non vedo l'ora di assistere ad alcune partite, a settembre ricominciano le grandi visioni su Sky, e non vedo l'ora di vedere alcuni film che mi mancano, perciò alcune interessanti cose ci saranno dalla prossima settimana, cose che impegneranno le mie giornate, le mie "sedentarie" giornate, adorate statiche giornate, perché a me la routine piace, l'estate porta scompiglio e ne ha portato un po', ma ora è (fortunatamente o sfortunatamente dipende dai casi) finita. Infine una nota, quattro di questi sei film sono andati in onda in chiaro a fine mese scorso, ma solo ora ho avuto lo spazio per poterli inserire, perciò scusate il ritardo, comunque buona lettura.
venerdì 30 agosto 2019
giovedì 29 agosto 2019
I peggiori film del mese (Agosto 2019)
Ho sempre sopportato il caldo, ma ammetto che quest'anno è stata più dura del solito, sarà che per quanto si tenti di mascherarlo il riscaldamento globale è tra noi (e peggiorerà purtroppo), sarà che non è più come una volta, ma si è fatto sentire e sta non a caso lasciando gli strascichi. In quest'ultima settimana infatti, colpa di chi o cosa non so, il raffreddore mi ha colpito e mi ha indebolito. E quindi via ad un botto di farmaci, che si spera facciano il prima possibile effetto, perché essere malato in estate è strano. E così in fase di guarigione eccomi oggi a presentarvi le note dolenti del mese, anche se già alcune ho postato.
Operation Avalanche (Thriller, USA, 2016)
Tema e genere: L'ennesimo film (in questo caso thriller spionistico) su una delle teorie complottiste più diffuse, lo sbarco sulla Luna.
Trama: Nel 1967 quattro agenti sotto copertura della Cia vengono inviati alla Nasa per essere assunti dalla troupe di un documentario. Quello che scopriranno porterà a una delle più grandi (presunte) cospirazioni della storia americana. La paranoia prenderà il sopravvento e i problemi saranno tanti.
Recensione: Si è celebrato lo scorso mese l'anniversario dello sbarco sulla Luna, evento entrato nell'immaginario comune e indimenticabile per chi ai tempi poté assistere in diretta alle fasi cruciali dello sbarco, con le leggendarie parole di Neil Armstrong diventate un vero e proprio tormentone. Eppure tra le varie teorie del complotto ve ne è una assai diffusa che vorrebbe l'allunaggio frutto di riprese girate in studio, con il nome di Stanley Kubrick più volte tirato in ballo quale effettivo regista del finto filmato spaziale. Operazione Avalanche (come parecchi altri lavori, Moonwalkers per esempio, lì tuttavia c'era azione e si rideva) si ispira proprio a questa ipotesi, anche se ne offre una versione inedita e con un finale che smentisce da solo qualsiasi teoria del complotto lunare sul nascere, e questa è certamente una nota positiva. Il problema è che il resto, anche per colpa della formula scelta, sia ben poca cosa. La formula scelta è infatti quella del mockumentary, con riprese spesso "rubate" di nascosto ai due personaggi principali: una scelta, seppur necessaria dal punto di vista della logica narrativa per accompagnare i protagonisti in questo intrigo mystery in cui la tensione cresce progressivamente fino all'intenso finale, poco verosimile in diverse situazioni, difetto questo che lo accomuna a tanti esponenti del genere. Lo stile con camera a mano può effettivamente risultare fastidioso in più occasioni, con un senso di mal di mare questa volta nemmeno giustificato da dinamiche horror di sorta. Operazione Avalanche si pone difatti come thriller ante litteram con filtri e immagini che strizzano l'occhio alle vecchie cineprese anni '60. Una decisione senza dubbio coraggiosa per essere più fedeli possibili al determinato periodo storico, spesso però le sgranature o i colori spenti rischiano di affievolire e rendere poco chiari alcuni passaggi fondamentali ai fini degli eventi. Eventi di stampo puramente spionistici oltretutto abbastanza modesti, che a parte nel finale, non riescono a fare troppa presa e convincere interamente, facendo così risultare questo film interessante, anche originale, un film mediocre, leggermente inutile ormai (basta con questa teoria) e pletorico.
Regia/Sceneggiatura/Aspetto tecnico/Cast: Il regista, produttore e sceneggiatore Matt Johnson, compare nei panni di se stesso come protagonista insieme al collega Owen Williams e le loro performance non "caricate" garantiscono una certa verosimiglianza alla messa in scena, che include anche sequenze girate in una sede della NASA e vari filmati di repertorio dell'epoca che contestualizzano l'atmosfera di spasmodica attesa di quel primo, iconico passo. Tuttavia non basta, oltretutto il gioco spionistico è modesto, troppo affidato a una tecnica semi-documentaristica troppo abusata e stancante. Poco, francamente, inquadrature inutili, spesso pletoriche, con un aggravio di situazioni inutili che non aggiungono assolutamente nulla di quanto si sa e si dovrebbe in seguito vedere/apprendere. Si poteva fare decisamente meglio.
Commento Finale: Presentato al Sundance Film Festival, Operazione Avalanche prende spunto da una delle più famose teorie cospirazioniste secondo la quale l'allunaggio del 1969 sarebbe stato realizzato ad arte sulla Terra, tramite le moderne tecniche cinematografiche. Qui la figura di Stanley Kubrick (voluto dai complottisti come effettivo regista del fake-film), pur comparente per brevi secondi, non è determinante ai fini degli eventi e il finale riconsegna la corretta versione dei fatti. I novanta minuti di visione sono pregni di una buona dose di tensione, soprattutto nel rocambolesco finale, ma lo stile "mockumentary d'epoca" risulta alla lunga frastornante e rischia di rendere non sempre chiarissimo quanto accade in scena. Per un titolo che, pur avendo discreti spunti d'interesse, non pare drasticamente coraggioso e fuori dagli schemi come le premesse iniziali potevano far presagire.
Consigliato: Si lascia guardare per tutta la sua durata, ma è consigliabile solo agli appassionati del tema.
Voto: 5
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mercoledì 28 agosto 2019
Le altre serie tv (Luglio/Agosto 2019)
Tema e genere: Con una grafica completamente nuova, torna una delle serie Disney più amate degli anni '90, DuckTales riparte da zero, con una nuova storyline ma con i protagonisti di sempre, svecchiati e resi attuali dalle sapienti mani dei disegnatori (quasi tutti italiani).
Trama: Con giusto una spruzzata di trama orizzontale, a farla da padrone sono soprattutto storie auto-conclusive, dove il divertimento non manca mai.
Recensione: Per le persone cui la spensierata infanzia è coincisa con il periodo a cavallo tra gli anni '80 e '90, DuckTales è sinonimo di pomeriggi indimenticabili all'insegna di genuino intrattenimento, risate a non finire, avventure fantastiche e, adesso, tenera nostalgia. Perché in fondo la serie Disney era magia pura: quelle storie confinate per anni nella carta di incalcolabili numeri di Topolino prendevano vita, anche portando in dote personaggi e racconti nuovi di zecca, quelle voci fino a quel momento soltanto immaginate trovavano una impensabile realizzazione sullo schermo. Era un sogno poter seguire il grande Paperon de' Paperoni nelle sue mirabolanti ed esotiche imprese, accompagnato dai fidi nipoti, sempre pronti a lanciarsi all'insperata ricerca di un nuovo tesoro mentre la Banda Bassotti, Amelia o il rivale Cuordipietra Famedoro tentavano inutilmente di contrastarlo. E dopo tanto (troppo) tempo si è deciso di dare nuovamente fiducia a Paperino e soci, e un vero e proprio reboot di DuckTales è arrivato per dimostrare al mondo che quel modo di intrattenere, semplice e adatto a tutti, non è sparito o diventato all'improvviso fuori moda. La vita a Paperopoli è ancora un gran sballo. Tornare nella città dei paperi più famosi al mondo dà esattamente le stesse sensazioni di quei pomeriggi all'insegna della tranquillità: ogni cosa è al suo posto, Paperino rimane inevitabilmente il solito irascibile imbranato, Paperon de' Paperoni è ancora lo scorbutico miliardario tirchio e Qui, Quo e Qua hanno sempre una voglia insaziabile di avventure, seppur ciascuno per ragioni diverse. Anche la marea di (amatissimi) personaggi di supporto fa il suo ritorno: da Jet McQuack, con il suo irrefrenabile desiderio di schiantarsi contro qualunque cosa con qualunque mezzo di trasporto, alla dolce ma preparatissima e combattiva Gaia, non manca nessuno all'appello. Com'era prevedibile, il concept è rimasto piuttosto tradizionale, visto che le ventidue (anzi 23 da 20 minuti ciascuna) puntate che compongono la prima stagione sono storie auto-conclusive con giusto una spruzzata di trama orizzontale. Ne basta una manciata per rendersi conto della straordinaria varietà e freschezza delle situazioni proposte, dall'umorismo diversificato che i personaggi portano in scena, della semplicità giocosa che fuoriesce da ogni scena in un'esplosione di fantasia e creatività senza limiti. Da laboratori enigmatici in fondo al mare a covi di pirati nei cieli, invenzioni bizzarre e mondi mistici, DuckTales è davvero una continua gioia sorprendente, mai banale, mai fiacca, grazie anche a un comparto artistico squisito (non si fanno attendere alcune rielaborazioni di personaggi secondari, molto ben riuscite). Il character design inizialmente lasciava dubbiosi, ma dopo poco tempo il dubbio si è completamente dissipato: l'animazione scorre sempre in modo estremamente piacevole, espressiva e perfettamente contestualizzata nell'andamento della trama. Una trama che si fa più adulta con addirittura morti e lacrime, ciascuno dei nemici di Paperone rappresenta un pericolo proporzionato al suo essere, così la Banda Bassotti diventa quello che è sempre stata semplicemente una banda di ladri mentre Magica De Spell (Amelia) si trasforma nella vera minaccia, un restyling che colpisce, con un crescendo fino al paperoso finale di stagione (un finale sorprendente, uno dei misteri più grandi della storia dei paperi sta per essere risolto, tramite una di quelle storie che mai nessun autore in 80 anni ha mai avuto il coraggio, o la licenza, di parlare). In particolare il personaggio della fattucchiera, legato a quella di Lena, che convince riguardo la crescita emotiva della serie. Una serie che a più di 30 anni dall'esordio della serie originale, appare non solo rinnovata, ma anche al passo con i tempi, compie il salto generazionale di cui aveva bisogno e propone un'avventura molto più attuale, più avvincente e anche più fantasy.
Trama: Con giusto una spruzzata di trama orizzontale, a farla da padrone sono soprattutto storie auto-conclusive, dove il divertimento non manca mai.
Recensione: Per le persone cui la spensierata infanzia è coincisa con il periodo a cavallo tra gli anni '80 e '90, DuckTales è sinonimo di pomeriggi indimenticabili all'insegna di genuino intrattenimento, risate a non finire, avventure fantastiche e, adesso, tenera nostalgia. Perché in fondo la serie Disney era magia pura: quelle storie confinate per anni nella carta di incalcolabili numeri di Topolino prendevano vita, anche portando in dote personaggi e racconti nuovi di zecca, quelle voci fino a quel momento soltanto immaginate trovavano una impensabile realizzazione sullo schermo. Era un sogno poter seguire il grande Paperon de' Paperoni nelle sue mirabolanti ed esotiche imprese, accompagnato dai fidi nipoti, sempre pronti a lanciarsi all'insperata ricerca di un nuovo tesoro mentre la Banda Bassotti, Amelia o il rivale Cuordipietra Famedoro tentavano inutilmente di contrastarlo. E dopo tanto (troppo) tempo si è deciso di dare nuovamente fiducia a Paperino e soci, e un vero e proprio reboot di DuckTales è arrivato per dimostrare al mondo che quel modo di intrattenere, semplice e adatto a tutti, non è sparito o diventato all'improvviso fuori moda. La vita a Paperopoli è ancora un gran sballo. Tornare nella città dei paperi più famosi al mondo dà esattamente le stesse sensazioni di quei pomeriggi all'insegna della tranquillità: ogni cosa è al suo posto, Paperino rimane inevitabilmente il solito irascibile imbranato, Paperon de' Paperoni è ancora lo scorbutico miliardario tirchio e Qui, Quo e Qua hanno sempre una voglia insaziabile di avventure, seppur ciascuno per ragioni diverse. Anche la marea di (amatissimi) personaggi di supporto fa il suo ritorno: da Jet McQuack, con il suo irrefrenabile desiderio di schiantarsi contro qualunque cosa con qualunque mezzo di trasporto, alla dolce ma preparatissima e combattiva Gaia, non manca nessuno all'appello. Com'era prevedibile, il concept è rimasto piuttosto tradizionale, visto che le ventidue (anzi 23 da 20 minuti ciascuna) puntate che compongono la prima stagione sono storie auto-conclusive con giusto una spruzzata di trama orizzontale. Ne basta una manciata per rendersi conto della straordinaria varietà e freschezza delle situazioni proposte, dall'umorismo diversificato che i personaggi portano in scena, della semplicità giocosa che fuoriesce da ogni scena in un'esplosione di fantasia e creatività senza limiti. Da laboratori enigmatici in fondo al mare a covi di pirati nei cieli, invenzioni bizzarre e mondi mistici, DuckTales è davvero una continua gioia sorprendente, mai banale, mai fiacca, grazie anche a un comparto artistico squisito (non si fanno attendere alcune rielaborazioni di personaggi secondari, molto ben riuscite). Il character design inizialmente lasciava dubbiosi, ma dopo poco tempo il dubbio si è completamente dissipato: l'animazione scorre sempre in modo estremamente piacevole, espressiva e perfettamente contestualizzata nell'andamento della trama. Una trama che si fa più adulta con addirittura morti e lacrime, ciascuno dei nemici di Paperone rappresenta un pericolo proporzionato al suo essere, così la Banda Bassotti diventa quello che è sempre stata semplicemente una banda di ladri mentre Magica De Spell (Amelia) si trasforma nella vera minaccia, un restyling che colpisce, con un crescendo fino al paperoso finale di stagione (un finale sorprendente, uno dei misteri più grandi della storia dei paperi sta per essere risolto, tramite una di quelle storie che mai nessun autore in 80 anni ha mai avuto il coraggio, o la licenza, di parlare). In particolare il personaggio della fattucchiera, legato a quella di Lena, che convince riguardo la crescita emotiva della serie. Una serie che a più di 30 anni dall'esordio della serie originale, appare non solo rinnovata, ma anche al passo con i tempi, compie il salto generazionale di cui aveva bisogno e propone un'avventura molto più attuale, più avvincente e anche più fantasy.
martedì 27 agosto 2019
Piccoli brividi 2 - I fantasmi di Halloween (2018)
Tema e genere: Secondo capitolo della saga di film tratta dai libri horror per ragazzi di R. L. Stine.
Trama: Il giorno di Halloween due ragazzi scoprono un libro chiuso, lo aprono e appare loro un pupazzo da ventriloquo parlante. Sarà l'inizio di molti guai.
Recensione: Dopo il primo riuscitissimo capitolo (qui), mi aspettavo davvero molto da questo specie di sequel, specie perché la connessione con la pellicola precedente è molto flebile, rasentando l'inutilità ai fini della trama, tanto da sembrare quasi un spin-off (e in verità lo è, perché ambientato in un periodo preciso, Halloween). Purtroppo, però, devo ammettere che le mie attese sono state deluse per un buon 50%. Vuoi per l'assenza dei protagonisti "originali", vuoi perché la brillante e coinvolgente sceneggiatura del primo film qui lascia spazio a un tranquillo teen movie che sguazza nella comfort zone dei cliché. Un teen movie in cui, come detto, non compaiono i protagonisti del primo film, con la sola eccezione di una fugace comparsata di Jack Black, qui relegato ad un numero di battute inferiore a quello di Arnold Schwarzenegger nel primo Terminator. I tre nuovi protagonisti, però, hanno un volto ben noto: Sam è interpretato da Caleel Harris, nel cast di Castle Rock e nella nuova serie Netflix When They See Us, Sonny ha invece il volto di Jeremy Ray Taylor, il Ben del terrificante IT di Andrés Muschietti, mentre Sarah vede in scena Madison Iseman, che proprio con Jack Black ha interpretato il riuscito sequel di Jumanji. I tre giovani attori funzionano molto bene assieme sullo schermo: anche se non sono aiutati da dialoghi particolarmente brillanti, è comunque un piacere vederli muoversi in un'interpretazione mai sopra le righe. Apprezzabile anche la resa degli effetti speciali e degli effetti visivi e belli i riferimenti alla cultura nerd, sparsi ovunque e sempre gustosissimi: da Street Fighter a Rocket League. Non male neanche la regia firmata da Ari Sandel (che può vantare nel suo palmarès un Oscar come miglior corto del 2005), egli infatti fa il compitino giusto, seguendo l'azione senza particolari voli pindarici e regalando qualche piccolo (davvero) brivido sparso qui e là. Ma c'è un ma. La cosa che davvero non va è la sceneggiatura. Siamo infatti davanti ad un teen movie annacquato, con dinamiche già viste, colpi di scena telefonati e soluzioni trite e ritrite. I bulli di quartiere sono decisamente spuntati, molto lontani dai terribili ragazzi selvaggi di IT o di Forrest Gump, il plot amoroso di Sarah si risolve in una manciata di minuti con tutto il "cucuzzaro": speranza, delusione, ripresa, lo stesso Slappy, i cui poteri sono diventati addirittura magici, alla fin fine è poco più che un fantoccio facilmente gestibile ad aggirabile. In nessun momento del film c'è sensazione di pathos, di ansia o tensione per i protagonisti: c'è qualche piccolo Jumpscare, ma niente che possa davvero impressionare, neanche un pubblico di ragazzini, per cui, de facto, il film è pensato. Tutto si svolge in modo decisamente lineare: da azione nasce azione, contro azione, e risoluzione. Chi dovrebbe non credere ai propri occhi, ci crede dopo due minuti, chi doveva mietere vittime, non le miete, chi doveva terrorizzare fa prevalentemente divertire, anzi, talvolta mancano direttamente dei pezzi, come se intere sequenze fossero state tagliate senza preoccuparsi troppo che la resa finale resti zoppicante. Il "terribile" aiutante alla Igor di Frankenstein Junior, sembra la brutta copia di Zio Tibia ma non spaventa per niente. Il diabolico piano di Slappy viene sventato senza nemmeno versare una goccia di sudore e, a ben pensarci, con il libro originale in mano Sarah avrebbe potuto chiudere la partita a metà del film.
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lunedì 26 agosto 2019
[Cinema] Takashi Miike Filmography (Sukiyaki Western Django, Ichi the Killer, As the Gods Will, Yakuza Apocalypse)
Credo già di aver di lui parlato in occasione della recensione del suo interessante e bel live action Yattaman: Il film, del perché Takashi Miike è diverso da qualsiasi altro regista, del suo stile unico e controverso, del perché sia considerato uno dei registi più "folli" del cinema orientale, ed anche uno dei più eclettici, prolifici ed originali di sempre (ha al suo attivo, dal suo debutto nel 1991, oltre 100 tra film ed episodi televisivi di dorama, praticamente fiction), ma ripetersi non è sbagliato, se si parla appunto di questo incredibile ed ambiguo (in senso buono) regista. Un regista noto per i suoi film estremamente violenti e inquietanti, pregni di sequenze splatter e di bizzarre perversioni sessuali. Tuttavia Miike non è solo gore, splatter e perversioni, è anche un grandissimo regista e sceneggiatore dallo stile appunto inconfondibile. Perché dietro la forma violenta e disturbante delle sue opere, si nascondono tematiche profonde e ricorrenti: i rapporti familiari, l'amicizia, l'amore, la fedeltà al proprio gruppo (spesso si tratta di gruppi criminali), la solitudine e l'isolamento. Però analizzare, seppur superficialmente, tutti questi aspetti è impresa ardua e che lascio volentieri ad altri più coraggiosi e più esperti di me. Io mi limito solo a vedere ed a "gustarmi" il suo cinema. E infatti non potevo fare a meno di lui, dei suoi film, anche se consapevole che la mia conoscenza si basa su un campione limitato, avendo visto una percentuale minima della filmografia totale di Miike (stare al passo è quasi impossibile), anche quest'anno. Difatti, approfittando delle mie ormai consuete (anche se questo è solo il secondo anno) Promesse Cinematografiche, eccomi ora e adesso a presentare un pezzettino della sua (prolifica) filmografia che ho visto recentemente. Quattro pellicole che trasudano il suo cinema da tutti i pori, quattro film di cui alcune scene è impossibile dimenticare.
venerdì 23 agosto 2019
Searching (2018)
Tema e genere: Thriller innovativo che segue la storia di un padre alla ricerca di sua figlia, usando esclusivamente il punto di vista di smartphone e computer.
Trama: Un uomo da poco rimasto vedovo è scosso dalla sparizione della figlia. In parallelo alle indagini, lui stesso cerca indizi utili a rintracciarla tra password, messaggi, siti web e profili social.
Recensione: Non un semplice filone ma un vero e proprio nuovo genere cinematografico, quello degli screen life movies è un fenomeno che sta prendendo piede negli ultimi anni grazie soprattutto alla figura del regista kazako Timur Bekmambetov, che magari non ci sa esattamente fare quando si tratta di dirigere un film (a lui si devono opere mediocri come Wanted, La leggenda del cacciatore di vampiri e il più brutto di tutti, il remake di Ben-Hur) ma se c'è da farsi venire nuove idee e andare a produrle, bisogna rendergli atto che ha il fiuto per gli affari. A lui si deve quello schizofrenico b-movie girato interamente in prima persona che è Hardcore! di Ilya Naishuller ma anche l'antesignano di questo Searching, vale a dire l'horror Unfriended (che a me tuttavia non convinse). Se avete visto questi film sapete già di cosa sto parlando: l'idea è quella di una narrazione continua in cui l'inquadratura corrisponde sempre al monitor di un computer, con lo spettatore che assiste in diretta all'apertura di finestre web e chiamate face-time fra i vari personaggi. L'idea è semplice ma efficace, soprattutto quando svolta bene come fanno Aneesh Chaganty (regista americano di origina indiana qui al suo esordio dietro la macchina da presa) e John Cho (anche Debra Messing contribuisce però all'efficacia del tutto) in questo piccolo, piccolissimo thriller che sfrutta questo linguaggio per raccontare una storia da giallo che appassiona davvero. Perché se all'apparenza è questa una tecnica forse un po' difficile e "fredda", in verità non lo è, poiché superato il primo impatto, prevale la narrazione, semplice e lineare, che si concede qualche colpo di scena ma che è sempre capace di creare un filo conduttore solido e coerente, che guida lo spettatore fino al fine. Infatti, nonostante il doppio filtro dello schermo dentro lo schermo, è impossibile non fare il tifo per la famiglia Kim. Difatti si empatizza con loro fin da subito, fin dalle primissime scene, che ci raccontano in pochi minuti la nascita e l'evoluzione di una famiglia stroncata da un lutto prematuro: una sequenza asciutta ma ricca di sentimento, che ricorda vagamente l'ormai iconica sequenza d'apertura di Up. Ed è così che il nostro cuore è con il padre David quando, ancora segnato dalla morte della moglie, realizza con dolore che Margot, la sua unica figlia, è scomparsa nel nulla. Cercando affannosamente indizi tra i messaggi privati e i profili social di Margot, David si trova a fare i conti con un'ulteriore amara verità, ovvero che non conosce per nulla sua figlia. Naturalmente non vi dirò come andrà a finire (soprattutto a chi non ha ancora avuto l'occasione di vederlo) ma vi assicuro che la vicenda riuscirà ad appassionarvi. L'anima b-movie che trasuda questa operazione commerciale priva di regia (o con una regia che è presunta tale, mettiamola così) mette in risalto le indubbie qualità narrative di Aneesh Chaganty, che rinuncia in toto al valore cinematografico ed estetico della sua opera per puntare tutte le sue fiches sul bisogno primordiale del racconto, sul piacere del racconto, sulla potenza del mistero e sulla voglia che lo spettatore avrà di svelarlo. Non solo: nel corso dei cento minuti del film la sceneggiatura avvincente dello stesso regista ci coinvolgerà al punto da farci affezionare ai personaggi, alle loro vicende passate e ai loro destini, e nel farlo riuscirà anche a farci riflettere sull'accanimento e la sete che i media e internet hanno nei confronti di determinati fatti di cronaca nera. Il regista Aneesh Chaganty si è proposto insomma di realizzare un film che permettesse di comprendere quanto la tecnologia sia penetrata nella vita quotidiana di ognuno, con scene girate principalmente in soggettiva, e ci riesce, anche perché pur non essendo un film "di denuncia", Searching mette in guardia lo spettatore dai pericoli della Grande Rete, dove l'inganno è praticamente dietro l'angolo.
giovedì 22 agosto 2019
[Games] Assassin's Creed: Unity
Genere: Ottavo capitolo della serie action/adventure Ubisoft, una delle serie di videogiochi più conosciute al mondo.
Trama: Nella Parigi ai tempi della Rivoluzione Francese, continua l'interminabile lotta tra Templari ed Assassini, questa volta ad opporsi ai primi un giovane ragazzo che, in cerca della verità (sulla morte del padre), si ritroverà ad essere reclutato nelle file dell'organizzazione per fare giustizia.
Recensione: Sembra passata un'eternità, ma sono passati solo quattro mesi da quando la cattedrale di Notre-Dame andò parzialmente a fuoco. In quei giorni tanti messaggi di solidarietà, e tante promesse di donazioni. Alcune infrante, alcune proprio no, anzi, solo pochi giorni dopo la società francese/canadese Ubisoft, non solo donò 500 mila euro alla città di Parigi, ma rese disponibile (per un periodo di tempo) gratuitamente su PC Assassin's Creed: Unity, in modo tale da permettere a tutti di godere del bellissimo monumento, anche solo virtualmente. Il gioco infatti, che prontamente scaricai, ambientato proprio a Parigi, permetteva al giocatore di entrare dentro e scalarla (cosa che ovviamente ho fatto, ed è stato bello). E così che ho recuperato il capitolo successivo di Black Flag (a cui ho giocato per la prima volta solo l'anno scorso), anche se tecnicamente il sequel diretto è Assassin's Creed: Rogue (com'è ovvio sarà il prossimo capitolo su cui mettere le mani) che, seppur uscito in contemporanea con Unity nel novembre del 2014, fu reso disponibile per PC, al contrario di questo che oggi recensisco, solo l'anno dopo. Un capitolo questo, l'ottavo (il settimo ex-aequo) che, dopo tanti episodi "fotocopia", doveva cambiare finalmente rotta. Infatti, la speranza che fosse finalmente arrivato il momento di una vera svolta c'era. C'era, perché la serie di Assassin's Creed aveva cominciato a scricchiolare già da qualche tempo, troppo ancorata ai suoi stilemi e poco coraggiosa. Assassin's Creed IV: Black Flag, allontanandosi un po' dal solito schema, era difatti ciò che ci voleva per spezzare la monotonia ormai quasi sfibrante. La sorpresa fu che il gioco, preso a sé stante, si dimostrò decisamente divertente e appassionante, ben più del controverso Assassin's Creed III. Con Assassin's Creed: Unity, Ubisoft abbandona i mari (che ritroverò comunque in Assassin's Creed: Rogue) e riporta le gesta degli assassini alle origini, confezionando così un'avventura classica, che sarà riuscito però a dare nuova (anzi, vecchia) linfa al franchise? La formula funziona ancora? Ebbene secondo il mio modesto parere sì, ma con riserva, anzi, con più riserve, perché in parte delude. Ma andiamo con ordine. Come tutti dovreste aver capito, Assassin's Creed: Unity è ambientato nella Parigi di fine 1700, ai tempi della Rivoluzione francese. Un periodo storico interessantissimo, ricco di materiale pronto per essere sfruttato. E invece Assassin's Creed: Unity lascia la Storia sullo sfondo, concentrandosi sulle sempre più noiose scaramucce tra Templari e Assassini. Non che in questo ci sia qualcosa di male, in fondo la secolare guerra tra le due fazioni è alla base della saga, ma purtroppo più si va avanti e meno sembra che questo conflitto abbia qualcosa di concreto da dire. Il plot è noioso e ben poco entusiasmante. È il solito pretesto per portare il giocatore da qualche parte nella storia. A essere sinceri, la trama (altalenante nella qualità e guidata dal desiderio di vendetta di Arno) di Unity non è riuscita a coinvolgermi in praticamente alcun modo. È trascurabile e poco importante.
mercoledì 21 agosto 2019
7 sconosciuti a El Royale (2018)
Tema e genere: Film corale dall'impronta decisamente pulp, un thriller drammatico di Tarantiniana memoria.
Trama: Sette sconosciuti, ognuno con un segreto da seppellire, si incontrano al El Royale, un fatiscente hotel dall'oscuro passato sul lago Lahoe. Nel corso di una fatidica notte, tutti avranno un'ultima occasione di redenzione prima che tutto vada all'inferno.
Recensione: All'El Royale si può scegliere di soggiornare in California o in Nevada, dato che il motel, un tempo rifugio di gente dello spettacolo, mafiosi, politici e ricconi, si trova esattamente a metà tra i due stati e una linea rossa segna il confine nel bel mezzo della hall di ingresso. È il 1969 e qui si ritrova una strana serie di personaggi, tutti con qualche segreto, come del resto il luogo che li ospita. Un venditore di aspirapolvere dalla curiosità sospetta, un prete con problemi di memoria (un memorabile Jeff Bridges), una corista di colore in cerca del successo da solista, una hippy dai modi bruschi che si trascina dietro un sacco dal contenuto poco chiaro e un fucile. Ad accoglierli solo un giovane concierge che combatte i suoi incubi in modi poco ortodossi e che di sicuro sa più di quello che dice. A loro, più avanti, si unirà il carismatico leader di una setta (Chris Hemsworth, davvero inquietante e convincente anche lontano dai suoi ruoli di supereroi). La trama del film di Drew Goddard (un amante degli esercizi di stile e delle citazioni, come aveva già dimostrato in Quella casa nel bosco) è un complesso gioco di incastri di destino tra personaggi tutti in cerca di qualcosa e disposti a tutto per ottenerlo. L'approccio metanarrativo e sofisticato del regista, del resto, sfrutta tutti gli espedienti stilistici a disposizione (voce narrante, suddivisione in capitoli, scene che si ripetono da punti di vista differenti) per mantenere un registro che appare più ironico che drammatico a dispetto della violenza e degli orrori che ben presto iniziano a susseguirsi. L'anno in cui la vicenda si svolge (a parte un breve prologo) è il 1969 e il regista sfrutta a piene mani gli spunti della cronaca: dalle sette assassine nello stile di Charles Manson, alle cospirazioni politiche, dalle tensioni razziali e tra i sessi alla criminalità organizzata. Il tutto mescolato in un crescendo di colpi di scena, rivelazioni e morti a sorpresa dal tono sempre più truculento. Raccontare nel dettaglio la storia significherebbe prima di tutto disinnescare il gioco di intelligenza che resta alla fine il maggior pregio del film, un po' latitante invece sul piano del coinvolgimento emotivo, a dispetto del gran cast che schiera e le situazioni estreme che le backstory rivelano poco alla volta. Il film ricorda a tratti (anche nel florilegio verbale) la filmografia di Quentin Tarantino, senza mai raggiungere analoga brillantezza e forza dirompente, forse perché resta sempre il sospetto che anche i temi più sociali e politici siano più che altro un pretesto. Ciò non toglie che, una volta partito il jukebox (e la colonna sonora, complice la professione di cantante di una dei protagonisti, è davvero fenomenale), non si smetta mai di ballare, fino all'escalation finale, una resa dei conti che sfiora il patetico senza affogarci dentro e regala qualche momento di emozione vera.
martedì 20 agosto 2019
Notte Horror 2019: Cimitero vivente (1989)
Tema e genere: Horror tratto dal romanzo Pet Sematary, di Stephen King, che racconta una storia d'amore ma soprattutto morte.
Trama: La famiglia Creed si trasferisce in una piccola cittadina del Maine che sorge vicino ad un antico cimitero indiano in grado di far tornare in vita i morti. Un tragico incidente costringerà il Dott. Louis a seppellire un membro della famiglia e sarà l'inizio della sua discesa negli inferi.
Recensione: Esistono film di genere non perfetti, con difetti evidenti, ma che riescono comunque a ritagliarsi un posto nell'alveo dei cult non troppo trascurabili. In questo gruppo rientra Cimitero vivente, film del 1989, diretto da Mary Lambert e celebre adattamento del romanzo di Stephen King Pet Sematary pubblicato nel 1983. Gli adolescenti degli anni '90, amanti del brivido, con probabilità avranno visto per la prima volta questo titolo nella celebre rubrica Notti Horror di Italia 1 (e questo è uno dei motivi del perché ho scelto questo film per partecipare alla sesta edizione della Notte Horror, la quarta mia personale), i neofiti magari l'hanno recuperato in seguito, ma tutti avranno notato come, nonostante una sceneggiatura a volte lacunare e un ventaglio di interpretazioni caricate, Cimitero vivente sia un piccolo gioiellino che racconta al meglio quel che il cinema horror realizzava a fine anni '80. Tanto che in pieno revival '80 era più o meno scontato che ciò avrebbe suscitato anche 30 anni dopo, l'interesse di Hollywood nel rifarlo. Infatti, mesi fa è uscito il remake, perciò valeva forse la pena (ri)dare uno sguardo al film "originale", e così ho fatto (questo l'altro motivo del perché ho scelto questo film per la rassegna cinematografica tra blogger). Uscito nel 1989, il film appare come una produzione minore se paragonato ad altre incarnazioni (successive o precedenti) su celluloide dei lavori di King. Opere imprescindibili come Carrie - Lo sguardo di Satana di Brian De Palma, It (la miniserie) diretta da Tommy Lee Wallace e ovviamente Shining di Stanley Kubrick. A Cimitero vivente non è legato alcun grosso nome hollywoodiano: la regista Mary Lambert aveva alle spalle solo una lunga gavetta di video musicali (perlopiù di Madonna) e il nome più altisonante che appariva nel cast era quello di Fred Gwynne, che negli anni '60 era parecchio attivo soprattutto in tv. Ma contro ogni previsione Cimitero vivente è un film che riesce a terrorizzare oggi come allora, soprattutto per l'argomento che tratta, ovvero la difficoltà dell'essere umano di accettare la morte di un suo caro. I Creed sono la tipica famiglia medio borghese americana degli anni '80. Si trasferiscono in uno sperduto paesino di provincia (ovviamente nel Maine, dove sennò) dove le loro vite subiscono improvvisi traumi. Quando il gatto Churchill muore, il capo famiglia e il vicino di casa lo seppelliscono in un vecchio cimitero indiano in grado di riportare i defunti di nuovo in vita. In effetti la bestiola tornerà ancora a vivere, ma pervasa da un'anima corrotta e malvagia. Eppure ciò non frenerà il protagonista nell'affrontare lo stesso percorso quando a morire sarà qualcun altro. È tutta questione di essenza: gli stacchi di montaggio irruenti, la presentazione didascalica della famiglia medio-borghese americana, i momenti stereotipati non influiscono sull'atmosfera malsana e angosciante che si respira in Cimitero vivente. Complice di questa atmosfera l'argomento universale dell'accettazione del lutto, inserito in contesto sovrannaturale che si mischia lievemente anche con la storia dei nativi americani.
Recensione: Esistono film di genere non perfetti, con difetti evidenti, ma che riescono comunque a ritagliarsi un posto nell'alveo dei cult non troppo trascurabili. In questo gruppo rientra Cimitero vivente, film del 1989, diretto da Mary Lambert e celebre adattamento del romanzo di Stephen King Pet Sematary pubblicato nel 1983. Gli adolescenti degli anni '90, amanti del brivido, con probabilità avranno visto per la prima volta questo titolo nella celebre rubrica Notti Horror di Italia 1 (e questo è uno dei motivi del perché ho scelto questo film per partecipare alla sesta edizione della Notte Horror, la quarta mia personale), i neofiti magari l'hanno recuperato in seguito, ma tutti avranno notato come, nonostante una sceneggiatura a volte lacunare e un ventaglio di interpretazioni caricate, Cimitero vivente sia un piccolo gioiellino che racconta al meglio quel che il cinema horror realizzava a fine anni '80. Tanto che in pieno revival '80 era più o meno scontato che ciò avrebbe suscitato anche 30 anni dopo, l'interesse di Hollywood nel rifarlo. Infatti, mesi fa è uscito il remake, perciò valeva forse la pena (ri)dare uno sguardo al film "originale", e così ho fatto (questo l'altro motivo del perché ho scelto questo film per la rassegna cinematografica tra blogger). Uscito nel 1989, il film appare come una produzione minore se paragonato ad altre incarnazioni (successive o precedenti) su celluloide dei lavori di King. Opere imprescindibili come Carrie - Lo sguardo di Satana di Brian De Palma, It (la miniserie) diretta da Tommy Lee Wallace e ovviamente Shining di Stanley Kubrick. A Cimitero vivente non è legato alcun grosso nome hollywoodiano: la regista Mary Lambert aveva alle spalle solo una lunga gavetta di video musicali (perlopiù di Madonna) e il nome più altisonante che appariva nel cast era quello di Fred Gwynne, che negli anni '60 era parecchio attivo soprattutto in tv. Ma contro ogni previsione Cimitero vivente è un film che riesce a terrorizzare oggi come allora, soprattutto per l'argomento che tratta, ovvero la difficoltà dell'essere umano di accettare la morte di un suo caro. I Creed sono la tipica famiglia medio borghese americana degli anni '80. Si trasferiscono in uno sperduto paesino di provincia (ovviamente nel Maine, dove sennò) dove le loro vite subiscono improvvisi traumi. Quando il gatto Churchill muore, il capo famiglia e il vicino di casa lo seppelliscono in un vecchio cimitero indiano in grado di riportare i defunti di nuovo in vita. In effetti la bestiola tornerà ancora a vivere, ma pervasa da un'anima corrotta e malvagia. Eppure ciò non frenerà il protagonista nell'affrontare lo stesso percorso quando a morire sarà qualcun altro. È tutta questione di essenza: gli stacchi di montaggio irruenti, la presentazione didascalica della famiglia medio-borghese americana, i momenti stereotipati non influiscono sull'atmosfera malsana e angosciante che si respira in Cimitero vivente. Complice di questa atmosfera l'argomento universale dell'accettazione del lutto, inserito in contesto sovrannaturale che si mischia lievemente anche con la storia dei nativi americani.
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lunedì 19 agosto 2019
Napoli velata (2017)
Tema e genere: Thriller drammatico con venature noir dai toni melodrammatici, un'opera che vive tutta in quel limbo in cui realtà, sogno e ricordo si incrociano fino quasi a confondersi.
Trama: Una notte di passione, una scomparsa misteriosa: chi è l'uomo di cui Adriana si è innamorata in modo così repentino e travolgente?
Recensione: Napoli velata, l'ultimo film di Ferzan Ozpetek, uscito pochi mesi dopo Rosso Istanbul (che non ho visto), è un giallo molto sui generis, ambientato in una Napoli epicentro di magie e superstizioni paganeggianti, amori e odi. C'è molta carne al fuoco, tanti personaggi (e attori noti: ma tra tutti si distingue solo Peppe Barra, parecchio sprecati vari interpreti tra cui una grande attrice come Lina Sastri), colpi di scena e ambienti attraenti o inquietanti. Ne si può rimanere affascinati o intontiti, oppure vagamente irritati per le tante false piste e le numerose "citazioni" che sfociano nel modello da cui non ci si riesce a distanziare: alcune soluzioni, che vorrebbero stupire, lasciano perplessi in quanto utilizzate fin troppo spesso (ma evito di dare dettagli per non rovinare la sorpresa), flashback rivelatori compresi. Ne risulta un giallo-melò come sempre molto ambizioso (e pieno di simboli da decifrare) ma, come altrettanto spesso avviene al regista turco ormai italianizzato, anche al di sotto delle promesse. La passione iniziale, al netto di una chimica tra la pur brava Giovanna Mezzogiorno e l'emergente Alessandro Borghi che rimane solo sulla carta, lascia il passo a una città appunto magica e superstiziosa (con tanto di santona che sembra uscire da un film di parodia) che dovrebbe almeno ribollire di umori, e che invece ha il suo riflesso in una curiosa freddezza di stili e ambienti, spesso bui, come gli interni (case, musei, negozi) pieni di mobili, oggetti da antiquario, arredi d'arte e così via. L'occhio degli esteti ne è a tratti appagato, anche l'orecchio per una colonna sonora inconsueta, ma l'aggancio a una narrazione più che farraginosa richiede una notevole forza di volontà. Il giallo non si addice agli autori, questo si sa, ma forse Ferzan Ozpetek, ottimo regista per stile e anche dalla buona direzione degli attori, dovrebbe curare maggiormente le proprie sceneggiature (e magari scegliersi co-sceneggiatori più rigorosi e "aggiornati"), perché è vero che le storie indefinite e sospese possono intrigare, ma fino a un certo punto. A tirar troppo la corda, e continuando a sfornare film eleganti ma inerti come Napoli velata (e a tratti noiosi), il rischio è disperdere il capitale di stima guadagnatosi con i primi film. E suggerire il sospetto che, comunque, il proprio percorso abbia già dato le sue prove più interessanti. E' un bel film, intendiamoci: non si esce troppo delusi dalla visione (se non per un finale che si sarà costretti a non capire mai, se non sventolandosi con le piume di struzzo di una "magicalità" non ben definita), però Ferzan Ozpetek esagera nella sua autoreferenzialità, ed alla fine quello che rimane è un film dal potenziale inespresso alquanto insoddisfacente nel suo complesso, che nonostante i pregi tecnici non convince appieno.
venerdì 9 agosto 2019
La mia compilation Anni '70
Dopo la compilation dello scorso anno inerente ai mitici anni '80 (qui), eccone un'altra, come avevo preannunciato, inerente questa volta al decennio precedente, un decennio davvero incredibile. Rock e pop, funk e punk, un decennio controverso, costellato da nomi che sono entrati nella Storia della Musica. Gli anni '70, infatti, sono stati un decennio particolarmente variegato dal punto di vista musicale. Vecchi generi andavano via via scomparendo, anche se regalavano di tanto in tanto dei colpi di coda interessanti. Nuovi sound, d'altra parte, si affacciavano all'orizzonte, a volte anche in maniera prorompente. Senza contare che poi, sul finire del decennio, la disco music e il punk avrebbero di nuovo cambiato tutto, facendo sembrare improvvisamente vecchi i maestri che erano emersi appena qualche anno prima, sullo slancio di Woodstock, del progressive o dell'hard rock. La faccenda poi si complica ulteriormente se ci si sposta da casa nostra al resto del mondo. Nelle nostre classifiche c'erano ancora mostri sacri del decennio precedente, altrove, la lotta era invece tra il soul e il rock, tra l'impegno e il disimpegno, tra il punk e la disco. È proprio per questo che gli anni '70 sono così interessanti e meritano di essere riscoperti, perché vi sono convissute senza particolari problemi anime tra loro diversissime e anche opposte. Nella difficoltà di uno scenario del genere, ho comunque cercato di raggruppare un po' di canzoni, le più rappresentative della scena italiana e internazionale dell'epoca, ovviamente basandomi sulle mie preferenze, e il risultato è questo, una compilation (che conterrà categoricamente solo le canzoni uscite tra il 1970 e il 1979) particolarmente corposa (ascoltabile tramite un'unica raccolta video), che riassume il meglio del meglio, personalmente parlando, della scena musicale dell'epoca, con artisti quali (non dimenticando gli italiani Alan Sorrenti, Umberto Tozzi, Rino Gaetano e Lucio Dalla, ma anche alcuni altri) David Bowie (che aprirà il "concerto"), Bee Gees, Abba, Led Zeppelin, Boney M, Donna Summer, Deep Purple, AC/DC, Barry White, Queen, Pink Floyd, John Lennon (più tantissimi altri) e Bob Dylan (che invece lo chiuderà). Insomma davvero tanta roba, un piccolo (grande) regalo praticamente, che io vi faccio per congedarmi al meglio in vista della consueta pausa estiva, una settimana per ricaricare, e poi ripartire senza più soste (forse). Quindi non vi resta che scartarlo ed alzare il volume, buon ascolto e a presto.
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giovedì 8 agosto 2019
L'uomo che uccise Don Chisciotte (2018)
Trama: Un cinico regista pubblicitario si imbatte in un vecchio attore impazzito che si crede Don Chisciotte e si ritrova immerso in diverse avventure.
Recensione: Dopo 25 anni di produzione a dir poco travagliata, finalmente è uscita l'interpretazione in chiave comica e, come sempre, grottesca del mitico regista Terry Gilliam, ex componente dello storico gruppo Monty Python nonché regista del cult "Brazil" e altri grandi film, della celeberrima storia di Don Quixote. La domanda che sorge spontanea, date la lunga attesa, la storia che lo ha reso cult già prima che uscisse e le numerose speculazioni che lo hanno accompagnato nel corso degli anni, è non solo se il film meritava di essere finito, e la risposta è sempre sì perché ogni film bello o brutto che possa essere merita di essere visto da un pubblico, ma se tutta questa difficile e complessa lavorazione ha influito negativamente sul profitto finito. Purtroppo la risposta è anch'essa un sì. Perché purtroppo, L'uomo che uccise Don Chisciotte è essenzialmente questo: un tentativo quasi eroico, ma al tempo stesso alquanto confusionario, raffazzonato, quasi strampalato, esattamente come le imprese del protagonista del libro di Cervantes. Lo scorrere del tempo influisce su ogni cosa, e nemmeno il più sincero dei film è esente da questa legge inflessibile. Eppure il film ha un inizio perfetto, un inizio che cattura subito l'attenzione dello spettatore catapultandolo immediatamente nella storia e abituandolo già dai primi minuti al timbro costantemente in bilico tra il comico e il grottesco con il quale praticamente ogni film di Terry Gilliam viene da lui caratterizzato, purtroppo però più il tempo passa, più la storia prosegue e più il film si perde in sé stesso in un nodo sempre più stretto ed irreparabile di strade imboccate e strade abbandonate in quanto al proseguimento della trama. La difficoltosa produzione ha difatti portato a degli enormi problemi nella scrittura e soprattutto nella narrazione all'interno dell'intera pellicola che appare confusa, confusionaria e indecisa su quale genere appartenere finendo per staccare da genere a genere in maniera fastidiosamente netta: drammatico poi comico poi parodistico, ma mai riuscendo né a far prediligere uno di questi genere né ad amalgamare i vari generi che sceglie di seguire. Fa confusione anche con le varie sotto-trame che vanno ad incatenarsi in maniera forzata e poco chiara finendo per far perdere nella confusione totale anche la trama principale che infatti finisce per risultare quasi assente, o meglio raccontata in maniera da farla sembrare tale, proprio perché imbocca troppe strade senza accorgersi di aver lasciato quella precedente senza averla prima conclusa o collegata. Il film si conclude con un finale altrettanto confuso e assolutamente mal contestualizzato che lascia lo spettatore alla fine della visione con più domande che risposte, tanto dispiacere e un pizzico di frustrazione. Un vero peccato perché la regia del punto di vista visivo riesce in diversi tratti a stupire con varie inquadrature e scene suggestive, tecnicamente impeccabili ed inventive, anche la fotografia, con i suoi splendidi colori e la sua luce ben calibrata, e la colonna sonora irriverente ci provano a rendere il tutto più piacevole ed in parte ci riescono, viste anche le ottime interpretazioni, ma la confusione la fa da padrone. Tanto che, ancor più che in altri film di Terry Gilliam, risulta qui abbastanza difficile definire con precisione di che cosa parli la pellicola. Sarebbe fin troppo facile, e forse anche riduttivo, parlare di un semplice adattamento dell'omonimo romanzo. Più in linea con la poetica di Gilliam, è corretto ravvisare in L'uomo che uccise Don Chisciotte una personalissima rielaborazione emotiva, un pretesto per parlare d'altro.
mercoledì 7 agosto 2019
Billions (4a stagione)
Tema e genere: Quarta stagione della serie sul mondo della finanza di produzione Showtime con protagonisti Damian Lewis e Paul Giamatti.
Trama: La storia riprende precisamente da dove si era interrotta, ovvero il momento più buio dei due protagonisti: Chuck è stato sconfitto dal suo rivale, il procuratore generale Jock Jeffcoat (un biblico Clancy Brown), e ha perso il suo lavoro e importanza politica, mentre Bobby è costretto ad affrontare il tradimento di Taylor (Asia Kate Dillon), fuggito trionfante dalla Axe Capital e nuovo CEO di un suo fondo speculativo. Nasce allora una sorta di perversa alleanza tra i vecchi rivali, pronti a darsi sostegno reciproco pur di placare la loro sete di vendetta. Da questa premessa la trama si biforca in due estesi archi narrativi, che all'occasione si intersecano, e che daranno vita ad una lotta senza esclusioni di colpi dei due per fermarli e riprendersi la propria posizione.
Recensione: Arrivato alla quarta stagione e con una quinta già assicurata, Billions non ha bisogno di presentazioni (ormai non più), se ti siedi su una poltrona, accendi Sky (metti su Sky Atlantic) e scegli di vedere Billions sai già cosa ti aspetta (l'hai già visto nelle precedenti stagioni, qui la recensione della terza). Sei pronto a una lotta esagerata a colpi di inganni, sotterfugi, corruzione, una sfida costante a dimostrare la superiorità sull'altro su un nemico da identificare di volta in volta. Un po' come la politica italiana in cui c'è sempre la gara a chi la spara più grossa, a chi attacca un nemico diverso per difendere le proprie mancanze e mantenere il potere. Cadenzata dal ritmo incessante della parola, Billions è infatti una serie ricca di movimento pur non essendo un action, ricca di suspense pur non essendo un thriller, è un drama potente e elitario, una serie non destinata a tutti a cui non interessa parlare a tutti, a cui non interessa far capire tutto e a tutti del suo mondo "complicato". Anche perché non è importante capire ogni parola finanziaria, ogni risvolto tecnico che viene elencato nella serie, tanto il senso è abbastanza chiaro: fregare (termine più gentile possibile ma si capisce quello più "giusto") il proprio nemico. Ma attenzione non ci sono nemici fissi, tutto cambia alla velocità della luce nel mondo di Billions. Una serie esagerata, piena di frasi e scene ad effetto, sopra le righe ma proprio questa sua esagerazione che la rende quasi un "fantasy finanziario" come se rappresentasse un mondo che non esiste, è proprio la sua forza. Una serie che continua a mostrarci il lato peggiore di quello che viene definito l'1%, quella parte della popolazione ricca e potente che controlla il mondo e passa il tempo giocando tra loro, sfidandosi costantemente, ignorando il restante 99% spesso più un fastidio per loro. Ma andiamo con ordine. Dopo essersi combattuti Bobby e Chuck capiscono che è arrivato il momento di unire le forze, che non sono l'uno il nemico dell'altro ma che il nemico è fuori e spesso se lo sono coltivato in casa. Taylor erano i pupilli di Bobby (il personaggio è di genere non binario quindi non ha un'identificazione di genere) ma si rivelano il suo peggior nemico, Brian era il delfino di Chuck, l'ha pugnalato in nome della giustizia ma la sete di potere sconfigge la presunzione di onestà. Li sconfiggeranno? Presumibilmente, ma non ne siamo sicuri. La quarta stagione (che è comunque il perfetto proseguimento del racconto iniziato 4 anni fa) elimina definitivamente il personaggio dell'ex moglie di Bobby (e i relativi figli) diventati inutili nell'economia globale della serie, e trova al suo personaggio una compagna più simile a lui con cui può non solo avere una relazione ma anche sfidarla negli affari. In parallelo il rapporto tra Chuck e Wendy si complica e la loro intima relazione dalle venature sadomaso avrà una svolta completamente inaspettata, evolvendosi da semplice elemento di colore a componente psicologica importante dei personaggi e soprattutto per Chuck, capiremo meglio quanto la ricerca del dolore sia fondamentale per il suo successo.
martedì 6 agosto 2019
Halloween (2018)
Tema e genere: Slasher thriller/horror, sequel diretto di Halloween - La notte delle streghe del 1978.
Trama: Quarant'anni dopo la strage di Halloween, la sopravvissuta Laurie Strode è ancora perseguitata dal ricordo di Michael Myers. Intanto, Michael sta per essere trasferito in un altro manicomio.
Recensione: A 40 anni esatti (ora 41) dall'uscita del primo, indimenticato Halloween (1978) del Maestro John Carpenter, David Gordon Green dirige un sequel che sceglie sapientemente (e genialmente) di ignorare gli altri nove capitoli (tra sequel, remake e reboot) della saga realizzati nel frattempo. Una buona premessa: se il film originale ha difatti retto bene alla prova del tempo ed è ancora oggi considerato un pilastro, non si può dire altrettanto degli episodi successivi, dimenticabili quando non proprio evitabili (anche se ne avrò visti al massimo due). Undicesimo film della saga, Halloween infatti (che riparte dall'essenziale: Laurie e Michael, la vittima e il carnefice) rinnega la quasi totalità delle dieci pellicole che l'hanno preceduto, prendendo per buoni solo gli eventi accaduti nel primo film firmato da John Carpenter, e fa centro. Perché con questo nuovo Halloween, David Gordon Green rispetta la regola non scritta per un sequel di successo, ovvero un giusto mix fra innovazione e richiami all'originale. Fin dai titoli di testa, ripresi da quelli del film di Carpenter sia nell'indimenticabile accompagnamento sonoro sia con il font, veniamo infatti coinvolti in quella che è sostanzialmente una versione riammodernata dell'originale, dal quale diverge in pochi ma basilari punti. Siamo di nuovo nella famigerata notte delle streghe, in cui avviene nuovamente un'altra fuga dall'ospedale psichiatrico, che dà inevitabilmente vita a un'altra mattanza di giovani locali, coinvolti nelle più disparate attività ricreative, e di chiunque si metta sulla strada del feroce Michael Myers. Attenzione però, perché se queste premesse potrebbero fare pensare a un prodotto puramente derivativo, privo di qualsiasi spunto originale e volto a replicare pedissequamente i punti di forza del cult del 1978, non è così. L'Halloween del 2018 è infatti un film tutto sommato godibile, che rende onore alla pietra miliare del cinema di cui porta il nome, pur senza avvicinarsi neanche alla sua grandezza. L'intuizione migliore del regista è certamente la scelta di creare una sorta di filo invisibile che collega Michael Myers alla sua mancata vittima Laurie Strode, influenzandone ogni loro comportamento e azione e facendoli attrarre come due magneti di poli opposti. Il tema portante del film è l'ossessione, sopita per 40 anni e pronta a riaccendersi nel caso di Myers e tormento per quando riguarda Laurie, capace di costruire una vera e propria panic room all'interno della propria abitazione, per proteggersi da qualsiasi attacco esterno. La dolce e determinata Laurie dell'Halloween del 1978 è ormai solo un pallido ricordo, che ha lasciato posto a una donna sola e rancorosa, incapace di tenere legati a se i propri affetti e incline a una violenza che, seppur in chiave difensiva, la rende non così lontana dalla ferocia del suo aguzzino di 40 anni prima. Le ossessioni di Laurie e Myers sono contagiose, e portano ad allargare il conflitto a persone di passaggio e soprattutto a figlia e nipote della prima. Inevitabile quindi, visto anche il periodo, un finale all'insegna del girl power, in cui 3 generazioni si riuniscono per fronteggiare la personificazione stessa del Male. Rispetto all'originale, questo Halloween è decisamente più esplicito, e replica solo in sporadici momenti il gusto per il dettaglio nell'inquadratura di John Carpenter (uno dei quali è una piacevole apparizione di Laurie in puro stile Myers).
lunedì 5 agosto 2019
Keyhole (2011)
Trama: Il gangster Ulysses Pick (Jason Patric) torna a casa dopo una lunga assenza, trascinando con sé il corpo di una ragazza adolescente e un uomo legato e imbavagliato. La sua banda lo aspetta all'interno dell'abitazione ma, nonostante gli attriti sempre più evidenti tra i vari membri del gruppo, Ulysess ha in mente soltanto una cosa: raggiungere sua moglie (Isabella Rossellini), chiusa nella sua camera da letto al piano superiore. L'impresa è però più ardua del previsto e ogni angolo della casa nasconde imprevisti che riportano al misterioso passato della famiglia.
Recensione: Peggio non poteva cominciare la mia Promessa, quella cinematografica s'intende, perché mai mi sarei aspettato di vedere un film così brutto. Un film che per come si presentava, un'opera decisamente suggestiva, si è rivelata essere invece questa un'occasione in larga parte sprecata. È questa la sensazione di fronte a Keyhole, film che, lontanissimo dalla classica idea di cinema, non fa altro che snervare lo spettatore, per essere precisi ha snervato me. Il regista opta infatti per una struttura narrativa fortemente psicanalitica (forse troppo), in cui il protagonista (e lo spettatore stesso) è chiamato a compiere un complesso viaggio (mentale?) per raggiungere la stanza della propria amata, ma ogni angolo della casa nasconde un nuovo imprevisto. Lo spettatore segue però con affanno l'arrancare tra ricordi e (forse) sogni. Gli enigmi si accumulano fomentando un senso di impotenza e inquietudine, quest'ultima accresciuta dall'assillante e tetro tappeto sonoro, ma soprattutto un senso di stanchezza latente. Perché va bene che il regista canadese Guy Maddin (finora mai incontrato, e per fortuna ora direi) abbia una certa visione, da quello che so è pure tra i più apprezzati registi per le atmosfere oniriche dei suoi lavori, che abbia l'assoluta libertà di mostrare come meglio crede questi suoi "materiali" magmatici, resta ed è però questo, un film complesso e di difficile lettura, eccessivamente criptico e chiuso in un'autoreferenzialità "poetica" che difficilmente si lascia sciogliere. La casa che fa da sfondo alle vicende della famiglia Pick somiglia alla dimora infestata dai (primi) fantasmi di American Horror Story, ma i riferimenti linguistici sono ben altri, con un protagonista che si chiama Ulysses, interpretato da Jason Patric e un enigmatico io narrante che porta il nome di Calypso, non si impiega molto tempo a pensare all'Odissea di Omero come cardine attorno cui far ruotare il lungometraggio. A differenza del poema epico, però, qui non c'è il mare a rendere periglioso il viaggio dell'eroe, ma i piani e i differenti ambienti della sua grande casa, dove "approda" dopo una non meglio precisata assenza. La moglie Hyacinth (Isabella Rossellini) quasi un'ombra la sua presenza, vive rinchiusa in camera da letto, affiancata dal vecchio padre nudo (perché non si sa, almeno una tunica poi...) e in catene, struggendosi per la morte dei figli e per la lontananza del suo adorato figlio Manners. Ma soprattutto, a differenza di quel poema, la poesia e la potenza narrativa si perde. Infatti (come detto) la sceneggiatura si fa eccessivamente ambigua e macchinosa: il coinvolgimento iniziale è alto ma, col passare dei minuti (anche per via di un'ermeticità ricusante), il respiro inizia a cessare e si finisce col fiato corto. Le forti suggestioni visive di stampo vintage (affascinanti ma comunque fini a se stessi), in questo caso non bastano a nascondere i limiti di un copione irrisolto e incapace di mantenersi coerente fino in fondo. Peccato, per la pellicola stessa e per me, che forse non avrei dovuto vedere questo film, un film elegante da un certo punto di vista, ma furbo, astruso e masochistico dall'altra.
venerdì 2 agosto 2019
Venom (2018)
Tema e genere: Adattamento cinematografico dei fumetti Marvel, creati da David Michelinie e Todd McFarlane, con protagonista Venom, uno dei principali antagonisti dell'Uomo Ragno.
Trama: Un giornalista coraggioso pesta i piedi a un ambiguo miliardario. Ma aver perso il lavoro e la ragazza non è niente, in confronto a quello che gli capiterà quando qualcosa o qualcuno si impossesserà di lui.
Recensione: Venom è un film che già per natura si presenta con le sue contraddizioni: un film tratto dall'universo Marvel che non è targato Marvel. Come è possibile? Ebbene sì, è quello che è stato fatto in questo prodotto, creando un senso di straniamento e di aspettativa notevole. Purtroppo, la maggior parte di esse sono state disilluse. Venom è un film infatti (quasi) fallimentare su (quasi) tutta la linea, senza troppi giri di parole. Il problema non deriva neanche dall'essere un film fuori dal canone ufficiale di Marvel Studios, che grazie a un accordo Sony riesce a sfruttare ancora i diritti cinematografici di alcuni personaggi dell'universo di Spider-Man, e neanche dalla totale indipendenza da Spidey (anche se esso non ha giovato al film), la questione, al contrario, è sempre connessa a fatti e situazioni intorno alla stessa produzione della pellicola. Una pellicola in cui l'intreccio non riesce a coinvolgere lo spettatore, a trasportarlo nella narrazione e alcuni eventi risultano incomprensibili. Il Venom di questo film francamente è qualcosa che non mi aspettavo: è irriverente, simpatico e con una coscienza. Il suo carattere è mediato dalla personalità di Eddie, un ragazzone buono e desideroso di fare sempre la cosa giusta, ma chi conosce a grandi linee il simbionte sa che di base ha un animo violento e a volte capace di corrompere anche i più buoni. Qui invece Venom arriva ad essere rappresentato come una specie di migliore amico, quello che ti salva dai pericoli, che ti aiuta a parlare con la ragazza che ami, che ascolta le tue paranoie e ti dà consigli. Insomma, lascia abbastanza perplessi, soprattutto dal momento che il cinecomic non è della perbenista Disney, ma di Sony, che magari avrebbe potuto osare di più. Venom è un film troncato a metà, e lo dimostra il disastroso montaggio che cerca di regalare una continuità narrativa a una storia tagliata in più punti. Facile, dunque, pensare che siano state tagliate proprio le scene più cruente, sanguinolente e splatter, a fronte di ciò che ci era stato venduto al primo trailer: Venom, uno degli antieroi più affascinanti del pantheon Marvel, doveva avere una cornice oscura, violenta, quasi a replicare il successo vietato ai minori di Deadpool. Il Venom che a noi è arrivato è invece un progetto a cui è stata divelta la vera anima, senza contare i tanti altri problemi che si stringono intorno al peccato "originale" dell'opera. Non si assisteva a un miscasting del genere da tanto tempo. Tom Hardy rimane bravissimo, esattamente come Michelle Williams, ma non sono mai nei loro personaggi, sembrano quasi delle comparse che passano di lì in quel momento, recitando al minimo delle loro forze, quasi a portare a casa la scena solo per obblighi contrattuali. Il peggiore è proprio Tom Hardy, poco credibile come report d'assalto, assolutamente fuori luogo nei battibecchi con il simbionte Venom, peraltro abbastanza ridicoli per tutta la loro durata. A questo dobbiamo aggiungere una storia praticamente telefonata, senza mordente, che relega la qualità finale alla stregua di un episodio pilota di un serial tv, nemmeno di una major (come Netflix, per dire, che non è nemmeno irreprensibile) ma di una qualunque rete generalista. Insomma i problemi di Venom sono chiari e sono anche troppi. Ma si possono sintetizzare così: una regia anonima se non addirittura assente, e uno script che spreca tutte le sue potenzialità. Quando qualcosa funziona in Venom, funziona sempre a metà.
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giovedì 1 agosto 2019
Geekoni Film Festival: Un maggiolino tutto matto (1968)
Trama: Jim Douglas è un pilota ormai a fine carriera, che nelle ultime apparizioni ha distrutto le sue auto in gara. Con l'inseparabile amico Tennessee si reca quindi dal concessionario di lusso di Peter Thorndyke, uscendone però con un maggiolino bianco un po' particolare.
Recensione: E' notizia fresca che la Volkswagen abbia terminato la produzione del Maggiolino, probabilmente l'automobile più famosa al mondo, e in tal senso Herbie ha contribuito in maniera significativa (ma non poi decisiva) a perpetuarne il mito. Un mito che continuerà comunque e sempre a vivere appunto grazie alla pellicola Un maggiolino tutto matto del 1968, interpretata dal compianto Dean Jones, che ci ha lasciati quasi quattro anni fa ed a cui ho anche dedicato un post all'epoca della sua triste dipartita (qui), e prodotta dalla Disney che guarda caso ha fatto epoca per aver imposto qui da noi il termine "maggiolino" a indicare l'auto più venduta probabilmente di sempre (facendolo così entrare nell'immaginario collettivo). E pensare che son passati 51 anni dall'uscita di The Love Bug, classico film stile Disney (ovvero caratterizzato dalla leggerezza dei toni e dal ritmo scatenato) diretto da Robert Stevenson e primo episodio di una fortunatissima saga, anche se tre seguiti ed un remake tutti inferiori al primo capitolo, quest'ultimo soprattutto leggermente deludente e non all'altezza delle aspettative. Eppure ancora oggi a più di cinquant'anni dalla sua uscita, Un maggiolino tutto matto è il classico film per ragazzi (non a caso l'ho scelto per partecipare alla seconda edizione, qui la prima, del Geekoni Film Festival, la rassegna cinematografica dedicata appunto ai film per ragazzi più belli e preferiti di sempre) dove tutto funziona. Va da sé che la visione del film porti ondate di piacevoli ricordi, ma è innegabile non dare ad Herbie (che se si arrabbia son guai) quello che è di Herbie (la "prima" automobile capace di sentimenti umani), dopotutto la comicità slapstick con una live car è, per l'epoca, un vero colpo di genio. Film leggero e divertente, per tutti dunque, ed originale, è stato infatti questo film a lanciare l'idea di una macchina dotata vita propria. Tema ripreso più tardi poi da altri film molto più inquietanti quali La Macchina Nera e Christine - La Macchina Infernale. Comunque, questo simpatico maggiolino che si guida da solo e (come detto) può anche arrabbiarsi e combinarne di tutti i colori a chi gli sta antipatico strappa sicuramente molte risate ad un pubblico senza troppe pretese. Il film ci propone poi ottime inquadrature, soprattutto nelle sequenze delle gare e splendidi modelli di auto presentati. Sicuramente sono stati impiegati grandi mezzi per questo film, per non parlare delle auto che avranno distrutto per la sua realizzazione. Gli attori sono rodati per film di questo genere, Dean Jones a parte (che diamo per assodato) pensiamo al solo David Tomlinson che compare in capisaldi come Mary Poppins e Pomi d'ottone e manici di scopa. Tutto questo rende Un maggiolino tutto matto (diventato col tempo una sorta di classico, un evergreen che non invecchia mai) un film sicuramente apprezzabile anche oggi, ad oltre mezzo secolo dalla sua uscita. Infatti, potrei stare a vedere questo film per giorni e giorni senza accusare il benché minimo segno di stanchezza. Un po' come quando ero piccolo, quando i film del ciclo di Herbie passavano spesso e volentieri per i palinsesti televisivi e non come semplici riempitivi, in un'epoca in cui i film venivano trasmessi sulle tv con una frequenza molto maggiore. E non ne perdevo uno, ogni volta che li trasmettevano ero pronto a rivederli per l'ennesima volta. E anche adesso che lo vedo con una certa maturità non è cambiato nulla, è sempre divertente. Perché questo bellissimo film per tutte le stagioni ha una storia semplice, ha corse divertenti tra sabotaggi, stranezze e finali di corsa strampalati (simili alle Wacky Races, serie a cartoni che si affacciava in tv proprio lo stesso anno), e ha il lieto fine (d'altri tempi) assicurato. Non un capolavoro, anzi, ma sicuramente godibile, il film infatti scorre senza intoppi, regalando al pubblico divertimento e tanto altro (anche perché così tanto scemo il film non è, alcuni temi non sono per niente "leggeri"), e ben fatto, anche se sono evidenti errori tecnici di montaggio e qualche altro particolare che fa vedere i suoi anni. Però tutto è perdonabile visto il target (anche se è per tutti ma proprio tutti) e visto la natura di questa pellicola, una pellicola che fa bene al cuore ed alla testa.
Recensione: E' notizia fresca che la Volkswagen abbia terminato la produzione del Maggiolino, probabilmente l'automobile più famosa al mondo, e in tal senso Herbie ha contribuito in maniera significativa (ma non poi decisiva) a perpetuarne il mito. Un mito che continuerà comunque e sempre a vivere appunto grazie alla pellicola Un maggiolino tutto matto del 1968, interpretata dal compianto Dean Jones, che ci ha lasciati quasi quattro anni fa ed a cui ho anche dedicato un post all'epoca della sua triste dipartita (qui), e prodotta dalla Disney che guarda caso ha fatto epoca per aver imposto qui da noi il termine "maggiolino" a indicare l'auto più venduta probabilmente di sempre (facendolo così entrare nell'immaginario collettivo). E pensare che son passati 51 anni dall'uscita di The Love Bug, classico film stile Disney (ovvero caratterizzato dalla leggerezza dei toni e dal ritmo scatenato) diretto da Robert Stevenson e primo episodio di una fortunatissima saga, anche se tre seguiti ed un remake tutti inferiori al primo capitolo, quest'ultimo soprattutto leggermente deludente e non all'altezza delle aspettative. Eppure ancora oggi a più di cinquant'anni dalla sua uscita, Un maggiolino tutto matto è il classico film per ragazzi (non a caso l'ho scelto per partecipare alla seconda edizione, qui la prima, del Geekoni Film Festival, la rassegna cinematografica dedicata appunto ai film per ragazzi più belli e preferiti di sempre) dove tutto funziona. Va da sé che la visione del film porti ondate di piacevoli ricordi, ma è innegabile non dare ad Herbie (che se si arrabbia son guai) quello che è di Herbie (la "prima" automobile capace di sentimenti umani), dopotutto la comicità slapstick con una live car è, per l'epoca, un vero colpo di genio. Film leggero e divertente, per tutti dunque, ed originale, è stato infatti questo film a lanciare l'idea di una macchina dotata vita propria. Tema ripreso più tardi poi da altri film molto più inquietanti quali La Macchina Nera e Christine - La Macchina Infernale. Comunque, questo simpatico maggiolino che si guida da solo e (come detto) può anche arrabbiarsi e combinarne di tutti i colori a chi gli sta antipatico strappa sicuramente molte risate ad un pubblico senza troppe pretese. Il film ci propone poi ottime inquadrature, soprattutto nelle sequenze delle gare e splendidi modelli di auto presentati. Sicuramente sono stati impiegati grandi mezzi per questo film, per non parlare delle auto che avranno distrutto per la sua realizzazione. Gli attori sono rodati per film di questo genere, Dean Jones a parte (che diamo per assodato) pensiamo al solo David Tomlinson che compare in capisaldi come Mary Poppins e Pomi d'ottone e manici di scopa. Tutto questo rende Un maggiolino tutto matto (diventato col tempo una sorta di classico, un evergreen che non invecchia mai) un film sicuramente apprezzabile anche oggi, ad oltre mezzo secolo dalla sua uscita. Infatti, potrei stare a vedere questo film per giorni e giorni senza accusare il benché minimo segno di stanchezza. Un po' come quando ero piccolo, quando i film del ciclo di Herbie passavano spesso e volentieri per i palinsesti televisivi e non come semplici riempitivi, in un'epoca in cui i film venivano trasmessi sulle tv con una frequenza molto maggiore. E non ne perdevo uno, ogni volta che li trasmettevano ero pronto a rivederli per l'ennesima volta. E anche adesso che lo vedo con una certa maturità non è cambiato nulla, è sempre divertente. Perché questo bellissimo film per tutte le stagioni ha una storia semplice, ha corse divertenti tra sabotaggi, stranezze e finali di corsa strampalati (simili alle Wacky Races, serie a cartoni che si affacciava in tv proprio lo stesso anno), e ha il lieto fine (d'altri tempi) assicurato. Non un capolavoro, anzi, ma sicuramente godibile, il film infatti scorre senza intoppi, regalando al pubblico divertimento e tanto altro (anche perché così tanto scemo il film non è, alcuni temi non sono per niente "leggeri"), e ben fatto, anche se sono evidenti errori tecnici di montaggio e qualche altro particolare che fa vedere i suoi anni. Però tutto è perdonabile visto il target (anche se è per tutti ma proprio tutti) e visto la natura di questa pellicola, una pellicola che fa bene al cuore ed alla testa.
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