Premettendo che sono stato sempre convinto che Lance Armstrong si dopasse, ho visto con qualche perplessità The Program, film biografico del 2015 diretto da Stephen Frears sulla vita di questo famoso ciclista, perché la sua incredibile storia è una ferita ancora tanto aperta e tanto dolorosa per chi ha vissuto quei momenti, momenti che hanno per sempre macchiato uno sport così nobile come il ciclismo. La sua vicenda infatti è stata forse quella che più ha sconvolto gli appassionati di ciclismo e dello sport in generale. Perciò non era facile per il regista anche solo immaginare di fare un film del genere, in più raccontare storie vere è diventato sempre più difficile, non solo perché spesso si conosce il finale, fatto che altera in qualche modo la percezione della trama, ma perché essere imparziale è arduo compito. Ma mai come in questo caso nonostante la natura (sconcertante) della storia (che quasi tutti conoscono) e la bravura del regista inglese, il risultato è più che soddisfacente, il regista difatti riesce nel compito a lui assegnato, quello di ripercorrere le tappe della vita del ciclista statunitense Lance Armstrong, dai successi sportivi alla lotta contro il cancro, fino all'ammissione di doping, in modo discreto e senza eccessi. Stephen Frears infatti, partendo dal libro-verità del giornalista sportivo David Walsh 'Seven Deadly Sins', porta in scena le gesta (truccate) del campione texano, e lo fa con grande maestria da un punto di vista tecnico (con inquadrature e soprattutto effetti sonori che rispecchiano bene le corse in bici e con la rappresentazione di un personaggio talmente "vittima" del suo ego che, nella sua abitazione, è sempre solo) e soprattutto senza cadere nella trappola dei film sportivi tipo, quelli che si risolvono cioè nel rimontaggio di materiale di gara già esistente. Gira invece ad hoc poche ma eccellenti scene, talmente accattivanti da far quasi venir voglia di prendere la bici ed andare a scalare qualunque vetta. Sceglie poi con gran cura una colonna sonora decisamente azzeccata, e ciliegina sulla torta, punta il grosso delle sue fiches su Ben Foster (visto recentemente in Lone Survivor), attore che probabilmente non offriva le migliori garanzie e che invece si rivela per l'occasione capace non solo di interpretare ma addirittura di trasformarsi in Lance Armstrong (la somiglianza dell'attore è davvero sorprendente, soprattutto nel pedalare e nei caratteri somatici) grazie a un lavoro lungo e intenso da vero perfezionista dell'arte attoriale. In ogni caso, gli appassionati di ciclismo non si aspettino grandi emozioni sportive, impervie salite o volate storiche, poiché solo piccoli flash amarcord introducono la pellicola di Frears basata sul marciume legato al doping e sull'inchiesta di un bravo giornalista che mantiene la schiena dritta e non si fa piegare da nessuno.
The Program, questo insolito biopic-investigativo tratto proprio dal libro di David Walsh, cronista del Sunday Times che già nel 2004 aveva scritto "L.A. Confidential, i segreti di Lance Armstrong", a metà strada tra il racconto di un'inchiesta e la denuncia di un mondo davvero finito allo sbando, letteralmente avvelenato da una scienza amorale e pure mortale, è comunque un esperimento interessante, un film anche accattivante. L'avvincente film di Stephen Frears infatti ricostruisce quella torbida storia a partire dal resoconto che ne fece Walsh, convinto (come me) fin dalle primissime vittorie dell'americano che quel posto sul podio fosse stato conquistato con il doping, in modo eccellente, come l'abilità di Armstrong, che fu, purtroppo, esemplare, seppe rivendersi benissimo la vicenda del cancro ai testicoli che lo colpì dopo che era diventato il più giovane vincitore di vincitore di tappa di tutti i tempi e diede vita a una fondazione benefica per la lotta contro i tumori che non poté che ingraziargli le simpatie del popolo americano, incapace di capire che in questo come in molti altri sport da quando sono entrati gli sponsor e le televisioni il giro di denaro è esorbitante e le competizioni sono spesso taroccate. Comunque questa specie di indagine (che portò alla fine alla revoca dei 7 titoli) riassunta bene nel film, partì dalle nefandezze (ahimè) di un medico italiano, Michele Ferrari (pare volesse a suo tempo bloccare l'uscita del film, non riuscendoci per fortuna) indicato come l'artefice del "programma" (da qui il titolo) poi definito come la "più complessa e duratura macchina da doping mai vista nello sport professionistico". Armstrong, giovane americano dal fisico non avvezzo alle lunghe tappe del Tour de France, che voleva emergere dall'anonimato, si affidò difatti a Ferrari e costruì i suoi successi artefatti. Anche se dietro al "caso Armstrong" ci sono montagne di responsabilità che chissà se verranno mai alla luce. Ma quello che fa più male, è che questa storia sconcertante, drammaticamente vera, appassionante e coinvolgente anche per chi non ha mai seguito il ciclismo, viene condita da bugie sconvolgenti raccontate da lui con una tale nonchalance da lasciare nello spettatore (e per chi le ha viste già nella realtà) un'amara sensazione di sconfitta.
Il regista Frears (già straordinario in Philomena e The Queen) però ha il merito di intavolare una pellicola che magari agli appassionati non racconta nulla di nuovo ma che ai profani spiega chiaramente chi era Armstrong e quale potere avesse assunto all'interno del mondo del ciclismo che gli permetteva di fare brutte frequentazioni. Ecco allora che oltre al lato sportivo ciò che più interessa al regista è il lato umano di un uomo che anche davanti allo specchio mentiva a se stesso dicendo a più riprese di non essere mai stato trovato positivo a un controllo antidoping (frase che ripeterà ossessivamente fino all'intervista con Oprah). Certo Armstrong era il frutto di un albero marcio che posava le sue radici in uno sport messo a dura prova dall'intervento di doping e dottori, ma non ha scusanti. Il regista inglese comunque ricostruisce la vicenda con rigore filologico e stile assai classico, mostrando in filigrana il contrasto tra il modello culturale della vecchia Europa e il rude pragmatismo americano e restituendo un ritratto del protagonista come di un essere bieco, opportunista, capace di vendere sottobanco le biciclette da corsa dei suoi compagni di squadra per pagarsi l'epo e incline a ogni genere di minaccia agli avversari decisi a spifferare le porcherie del doping alla stampa. A far scricchiolare la colossale impalcatura mendace del ciclista americano contribuirono tanto la voglia di vendetta di Floyd Landis, il sodale beota impregnato di farlocchi principi religiosi, quanto un assicuratore la cui società avrebbe dovuto versare ad Armstrong quattrini a palate a ogni vincita del tour. Ma ciò che più di ogni altra cosa contribuì a scoperchiare il vaso di Pandora fu l'implacabile voglia di successo di Armstrong, sicché il suo ritorno alle corse, nel 2008, portò tutto alla ribalta. Insomma un buon film su una vicenda che deve ancora vedere tutte le sue conclusioni. Una vicenda che in ogni caso come in quasi tutti i biopic, è carente di sorprese, lo spettatore sa già come andrà a finire. Ma non per questo la sceneggiatura è meno incline al cinema di altre biografie. Il merito del regista è proprio quello di tenere incollato allo schermo praticamente tutti, anche a chi non ha mai seguito una sola tappa del Tour. La pellicola scorre con un buon climax e senza occhio all'orologio grazie al sapiente montaggio (anche sonoro) e all'ottima performance di Ben Foster, che riesce ad apparire coerente nel rappresentare il difficile personaggio che ha l'onere di interpretare. Nella seconda parte tuttavia emergono leggeri cali di tensione, si sarebbe potuto sfruttare di più il talento di Dustin Hoffman, ridotto a una piccola apparizione. Infine il finale risulta un po' troppo sbrigativo, quasi a voler lasciare un lieve spazio di redenzione per il finto campione-eroe, ossessionato dal successo e prigioniero del suo ego. La sua maschera cadrà giù solo dopo una fredda confessione in tv. Da lì tornerà a scalare un'ultima lunga e difficile salita, quella della vita. In definitiva quindi film consigliato, soprattutto a chi non prende tutto come sembra, a chi non piace il lieto fine e soprattutto a chi è appassionato di ciclismo, uno sport passionale, e chi lo sporca deve essere punito. Voto: 6,5
Non mi spaventano le opere di cui già si conosce, per ovvi motivi, il finale.
RispondiEliminaDipende da come le racconti. A me il ciclismo non attira, probabilmente non vedrò mai questo film (non mi interessa nemmeno la storia di Armstrong). Il fatto che ci sia un libro e poi un film... mi fa pensare che quasi quasi la vicenda del doping sia stata una mossa commerciale XD
Moz-
Non spaventano certamente però non colpisce tanto sapere già, ma come dici tu dipende, soprattutto dipende se come me ho visto Pantani accusato ingiustamente e lui niente, ecco perché la soddisfazione è stata doppia e il film (e finale) piaciuto tanto ;)
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