martedì 3 luglio 2018

Knight of Cups (2015)

Ho apprezzato, seppur non tantissimo, Terrence Malick nei suoi quattro film prima del suddetto, ma questo Knight of Cups, film del 2015 scritto e diretto dal regista statunitense, l'ho trovato molto difficile da portare a termine. Egli punta sempre in alto, e il più delle volte ci riesce bene e con discreti risultati, ma stavolta gli è sfuggita di mano la situazione. La linea è quella di The Tree of Life e To the Wonder, ma portata all'estremo in una sfida allo spettatore in cui la bellezza di certe immagini della natura solo a tratti compensa la fatica di aderire a un percorso esistenziale enigmatico, dove la voice over commenta ma non chiarisce. Se infatti in To the Wonder, il viaggio tormentato nei meandri della psiche del protagonista Ben Affleck, risultava tutto sommato efficace e abbastanza convincente, qui finisce per essere una stancante sequela di sequenze quasi tutte uguali in cui l'originalità e il fascino del mistero delle pellicole di Malick lasciano spazio ad una spiacevole sensazione di noia e di già visto/percepito. Se infatti in The Tree of Life, la ricostruzione di una vicenda umana si incastrava alla perfezione con quel flusso stordente visivo capace di evocare il conflitto tra umanesimo e spiritualità, qui questo raccordo appare molto più sfilacciato, talvolta pretestuoso, e la voce over ostentata e solenne che predica lungo tutto il film crea un maggiore distacco verso l'immagine che non una riflessione di completamento. Tanto che, peggio che in altre occasioni, la parte più difficile diventa tentare di estrapolare una trama comprensibile ai più. Nel film difatti, si susseguono confusamente le relazioni più o meno durature del protagonista, i personaggi entrano ed escono dalla scena secondo una logica non sempre comprensibile e di tanto in tanto il flusso di parole e immagini è illuminato sì da momenti di sfolgorante bellezza, ma di cui si fa fatica a capirne il senso. Tra la sinossi del film e il suo effettivo risultato c'è infatti una discrepanza enorme, perché impegnato com'è a raccontarci ancora una volta di un maschio bianco in crisi esistenziale che cerca la terra promessa nelle proprie amanti senza trovare risposta, Malick conversa più con se stesso che con lo spettatore.
Spettatore che solo dalle immagini che scorrono sullo schermo può in parte capire di cosa parla il film, ovvero di uno sceneggiatore di Hollywood in piena crisi di coscienza: donnaiolo, apatico, circondato dal lusso (che però non lo attrae) e con problemi in famiglia. E il fante di coppe che dà il titolo al film, il pellegrino (lo straniero in terra straniera, come si definisce) è un Christian Bale (comunque perfetto per le sue innate capacità mono-espressive che si ritrova) che rivive i momenti più significativi della sua vita, suddivisa in capitoli, con ogni capitolo che si concentra sulla relazione del personaggio principale con un'altra persona. Suo fratello, le sue molte donne, i suoi amici, suo padre, tutti sono accostati a delle particolari carte del mazzo dei tarocchi, come a dirci che la lussuosa vita del protagonista è finzione, è solo apparenza, è un tarocco. E la più-o-meno-velata-critica alla Hollywood contemporanea è anche interessante, ma sarebbe stata ancora più interessante se inserita all'interno di un plot ben organizzato e strutturato. Perché certo, più che accenni di trama e narrazione, qui vanno cercati temi e suggestioni, ma come è solito vedere nei suoi film, anche in questo caso, si nota un protagonista silenzioso (in realtà un cavaliere la cui vita è esplosa in centinaia di piccoli, talvolta insignificanti frammenti, porti a uno a uno allo spettatore che dovrà tentare, con notevole difficoltà, di farli collimare in un'immagine che abbia un qualche senso), che esprime la sua sofferenza interiore attraverso il volto sullo schermo e attraverso i propri pensieri, fuori campo, un film perciò molto oscuro, molto cupo, che però non fa altro che mostrarci ora l'ennesima conquista del personaggio di Bale, ora il lusso di un nuovo hotel, un bel tramonto, o il deserto, oppure le onde dell'oceano, e avanti così, per un'ora e cinquantotto minuti.
E così, nella sua moltitudine variegata di personaggi e incontri, il film si dilunga, lentamente ed inesorabilmente, ad una propria conclusione, a cui però difficilmente si riesce a trovare una giustificazione, poiché il film risulta fin troppo frammentato e scollegato. Si ha insomma come l'impressione che l'approccio del regista sia eccessivamente distaccato, affinché lo spettatore riesca ad addentrarsi veramente nella vita del protagonista, si ha l'impressione insomma che è sempre la stessa storia, che in verità, più di quello che hai già visto nei suoi film, qui non potevi trovare. Imparata la lezione si rimane quindi impassibili di fronte allo sguardo perso e apatico di un Christian Bale che vaga tra le strade di una Los Angeles desertica assorto nei suoi tormenti. E si rimane impassibili di fronte ad un iracondo Wes Bentley o ad un'inutile comparsa di Antonio Banderas e Jason Clarke, come del resto di fronte alla miriade di bellissime ragazze che Malick fotografa e inquadra alla perfezione esaltandone le perfette curve e facendole camminare scalze e recitare allo stesso insopportabile modo per tutto il film. Imparata la lezione si rimane perciò impassibili di fronte allo stesso film riproposto per l'ennesima volta, di fronte a qualcosa che ci ricorda tutto quello che precedentemente abbiamo visto, sentito e assimilato ma che al posto di sorprenderci ci tedia. Ad abbagliare è forse solo il viso triste e sciupato di una sempre brava Cate Blanchett o la sprecata interpretazione di Natalie Portman. Malick non abbandona la sua forma perfetta, il tecnicismo strabiliante, la fotografia del mostruoso Emmanuel Lubezki e la riflessiva meditazione che solo un regista come lui è in grado di inserire in ogni inquadratura. Ad inficiarne però è la sostanza che, nonostante l'interessante spunto di partenza, viene sporcata da una messa in scena che non dà giustizia ad un'opera dai nobili contenuti (come tutta l'opera malickiana) e che risulta una copia della copia della copia di sé stessa.
Knight of Cups è quindi un film riuscito a metà (e forse anche meno), l'estetica perfetta e strabiliante non è questa volta riuscita ad entrare nell'animo del devoto spettatore che, aspettandosi sempre il meglio dal maestro, è rimasto impassibile e profondamente annoiato. Fosse durato massimo 90 minuti l'avrei forse anche promosso (il senso di straniamento che si vuole inculcare allo spettatore non è infatti direttamente proporzionale alla durata della pellicola, qui sarebbero bastati i primi 15 minuti..) ma due ore zeppe di silenzi, paesaggi e meditazioni varie sono un bello scoglio da superare anche per il fan più accanito. Sicuramente l'idea di questo personaggio in balia degli eccessi di Hollywood (simile a quelle comunque personalmente anonimi de La grande bellezza, che almeno ironicamente intratteneva), della vuotezza interiore è apprezzabile, ma è il modo in cui Malick lo racconta che è pretenzioso e di una noia allucinante, con le molteplici voci fuori campo che dopo un po' diventano veramente fastidiose. Quel che rimane quindi, non è solo un plotone di attori più o meno cult (a quelli già citati si aggiungono Teresa PalmerJoe ManganielloNick OffermanImogen PootsBrian DennehyIsabel LucasFreida PintoDane DeHaanJoel Kinnaman) che mai riescono a smettere di essere se stessi in favore del personaggio (essi che, lasciati in piena libertà di improvvisazione non sono mai in grado di trasmettere un sentimento di autenticità), vestiti di capi glamour di studiatissima semplicità e calati in interni ed esterni dal design di grido intenti chiaramente a dare una performance che loro ritengono essere Arte, con la A maiuscola (ovvero, detto in parole povere, attori che si sfiorano, camminano, guardano con sguardo vuoto l'orizzonte e dicono frasi altisonanti, in quella che sembra un'involontaria derisione del teatro di sperimentazione), ma anche una serie di incredibili immagini, a cui però sfortunatamente, non si riesce ad accompagnare alcun valido significato nello sviluppo della storia del protagonista.
In un certo senso, la vita di Rick sembra un po' rispecchiare il recente Malick e il suo essere regista, molto bella a vedersi, ma nella sostanza, povera di contenuti. Un regista per questo (seppur ancor talentuoso, geniale e visionario) che sembra essersi definitivamente ridotto a preoccupante parodia di se stesso, cosa di cui bisogna prendere tristemente atto. Perché se prima si poteva nutrire ancora qualche flebile dubbio, questo Knight of Cups segna con forza il definitivo punto d'involuzione e di non ritorno della carriera di Malick (anche se mai dire mai, niente è impossibile), che continua a cercare la poesia nei movimenti di macchina, negli elementi della natura e nei corpi fluttuanti delle sue spaesate e molto poco convinte star (il fante di coppe di Bale è né più né meno il Penn di The Tree of Life), ma che non arriva mai all'essenza delle cose diventando invece ridicolo e sfiancante tanto quanto la sua patina di misticismo spiccio e banalità New Age. Gli ambiziosi e sterminati temi di Malick sono ormai sempre gli stessi: il panteismo, l'esplorazione degli angoli più reconditi dell'anima, il fascino e la vuotezza della città luccicante e tentatrice (nella fattispecie l'illusorietà di Los Angeles e il kitsch di Las Vegas), la sfibrante e sermoneggiante voice-over, la riflessione sulla fede che traina le nostre vite, l'incanto dinnanzi alle meraviglie e alla grazia del creato, il rapporto dell'uomo con l'Arte che è la rappresentazione più concreta e tangibile di Dio in terra, la contrapposizione fra la natura incontaminata e gli enormi grattacieli le cui altezze vertiginose sono invece il punto più alto per arrivare a Dio finora toccato dall'uomo, il legame fra fratelli e la sofferenza che li lega e il rapporto sempre turbolento e angosciante con i padri e in generale con il nucleo familiare. Tutto questo, però, resta come sempre in superficie. Non basta difatti avere l'eccezionale fotografia del solito Emmanuel Lubezki per fare un grande film, tutt'altro, è solo bastato per farne un film seppur suggestivo, anonimo, noioso, prolisso, vacuo e perdibile. Voto: 4

3 commenti:

  1. Non a caso quando l'ho visto ero in un momento buono, ma purtroppo non è bastato ;)

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  2. Vedrò se riesco a recuperarlo...tutto sommato mi interessa...Però, come dite voi, dovrò essere nel momento giusto...

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    1. Eh sì, perché si sa che il suo cinema è abbastanza "complesso" e quindi il rischio di rimaner scottati è elevato ;)

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