Vi parlavo ieri di quella piccola (per non dire smisurata) delusione accaduta questo mese, che tuttavia non mi ha precluso un passaggio di vacanza tranquillo. Infatti a fare da contraltare a quel fatto sportivo che ormai tutto il mondo sa (che in ogni caso è stato attutito dalla vittoria di un trofeo dalla portata storica difficilmente replicabile), il fatto che è arrivata la Pasqua, anzi, sono arrivate le uova di cioccolato. Quest'anno ben 4, tutte diverse una dall'altra, purtroppo però di regali all'interno tutti ugualmente mediocri, due portachiavi e due collane, quest'ultime poi con fili davvero orrendi. Cioè non che mi aspettassi chissà cosa, però qualcosa di più originale era meglio trovare, ma mi sono dovuto accontentare, e comunque la cioccolata è stata una ricompensa gradita. Di altro di interessante non è invece successo niente, a parte in ambito cinematografico, che ha riservato alcune sorprese, alcune sono qui, altre invece ne saprete presto. Comunque prima di lasciare spazio alle recensioni, se ve lo stavate chiedendo, il nuovo banner del blog, che rimarrà lì fino a metà luglio o giù di lì, è presa da un'immagine dalla sorprendente e bella serie tv Kidding, quella con Jim Carrey, che nell'immagine tuttavia non è presente, ma è un dettaglio di poco conto.
Ci siamo. Probabilmente siamo arrivati al termine di questo meraviglioso viaggio sulle vette alpine iniziato nell'ormai lontano 2013 con il primo e bellissimo Belle & Sebastien diretto da Nicolas Vanier e proseguito, due anni dopo, con l'altrettanto riuscito Belle & Sebastien – L'avventura continua firmato da Christian Duguay (tutti compreso quest'ultimo, tratti dai romanzi di Cécile Aubry). Sebastien (un sempre efficace Félix Bossuet) è diventato un ragazzino di 12 anni e Belle è sempre al suo fianco. Sono arrivati anche tre splendidi cuccioli che Sebastien accudisce con cura. Il ragazzo una sera a casa del nonno ascolta una conversazione tra Pierre, suo padre, ed Angelina, da poco sposi. Scopre così che hanno intenzione di trasferirsi in Canada. Sebastien è triste e non vuole lasciare il nonno che invece lo sprona a scoprire il mondo. La situazione si complica con l'arrivo di un presunto proprietario di Belle che vuole portargliela via, ma Sebastien è testardo e farà di tutto per non separarsi dalla sua migliore amica a quattro zampe. Con un finale che sancisce l'avvenuta maturazione e crescita di Sebastien, Belle & Sebastien – Amici per sempre si apre al mondo reale, mettendo da parte la favola e dando la dovuta importanza ad una sorta di morale, una riflessione sulla progressività della vita e sui suoi eventi che determinano, volente o nolente, dei cambiamenti importanti. Belle e Sebastien – Amici per sempre infatti, che come un grande racconto di formazione si evolve sulle dinamiche familiari e sentimentali dei protagonisti, anche se per farlo diventa (soprattutto nella seconda metà) eccessivamente ripetitivo e palesemente ridondante, ha una struttura narrativa spontanea con una più accesa attenzione all'aspetto intimistico dei protagonisti. Viene recuperata la dimensione più intima e meno epica della storia senza accentuare troppo i momenti contemplativi. In questo terzo film si aggiunge un personaggio nuovo quello del cattivo Joseph, interpretato dallo stesso regista del film, Clovis Cornillac (visto in Asterix alle Olimpiadi, Lucky Luke e la più grande fuga dei Dalton), qui al suo debutto dietro la mdp. L'uomo arriva al villaggio sostenendo di essere il vero padrone di Belle. Un personaggio volutamente caratterizzato dall'assenza di sfumature, un cattivo incapace di dimostrare umanità o empatia, una sorta di personificazione del male assoluto. Rispetto ai due precedenti capitoli, questo è più maturo pur confermando la presenza degli elementi tipici della storia: emozione, umorismo, tenerezza, lo spettacolo della natura e delle montagne (a tal proposito ambientazione spettacolare con paesaggi di bellissime montagne completamente innovate, praticamente tutto il film si svolge in ambiente innevati abbondantemente, quindi una lode alla fotografia di livello), e la nostalgia per un'epoca che non c'è più. Tematiche come la crescita, l'abbandono, la giustizia e la legge, due cose spesso incompatibili e inversamente proporzionali, fanno riflettere i più piccoli, preparandoli già alle ingiustizie dell'universo che vengono però superate grazie ai legami forti, con il nonno (ancora e benissimo interpretato da Tchéky Kairo), con Belle e i suoi nuovi deliziosi cuccioli, con le amicizie. Questo film del 2017 insomma ha la cura di non lasciare nulla al caso, di essere piacevolmente sentimentale, pur rinunciando alla verosimiglianza, privilegiando i fattori infantili per raccontare come vivere ed accettare la crescita di ognuno di noi. Un film che risulta scorrevole e senza lentezze. Per un pubblico certamente giovane può sicuramente risultare interessante e lasciare anche qualche spunto di riflessione. Per quello più adulto e più emancipato, il film purtroppo si contraddice in alcuni punti e, forse, a volte l'intelligenza di Belle può risultare esagerata e fonte di derisione. Nonostante ciò, Belle e Sebastien: Amici per sempre resta una buona pellicola sul passaggio dall'età dell'infanzia a quella della responsabilità. Una pellicola ben riuscita che chiude degnamente la trilogia. Voto: 6
Ci siamo. Probabilmente siamo arrivati al termine di questo meraviglioso viaggio sulle vette alpine iniziato nell'ormai lontano 2013 con il primo e bellissimo Belle & Sebastien diretto da Nicolas Vanier e proseguito, due anni dopo, con l'altrettanto riuscito Belle & Sebastien – L'avventura continua firmato da Christian Duguay (tutti compreso quest'ultimo, tratti dai romanzi di Cécile Aubry). Sebastien (un sempre efficace Félix Bossuet) è diventato un ragazzino di 12 anni e Belle è sempre al suo fianco. Sono arrivati anche tre splendidi cuccioli che Sebastien accudisce con cura. Il ragazzo una sera a casa del nonno ascolta una conversazione tra Pierre, suo padre, ed Angelina, da poco sposi. Scopre così che hanno intenzione di trasferirsi in Canada. Sebastien è triste e non vuole lasciare il nonno che invece lo sprona a scoprire il mondo. La situazione si complica con l'arrivo di un presunto proprietario di Belle che vuole portargliela via, ma Sebastien è testardo e farà di tutto per non separarsi dalla sua migliore amica a quattro zampe. Con un finale che sancisce l'avvenuta maturazione e crescita di Sebastien, Belle & Sebastien – Amici per sempre si apre al mondo reale, mettendo da parte la favola e dando la dovuta importanza ad una sorta di morale, una riflessione sulla progressività della vita e sui suoi eventi che determinano, volente o nolente, dei cambiamenti importanti. Belle e Sebastien – Amici per sempre infatti, che come un grande racconto di formazione si evolve sulle dinamiche familiari e sentimentali dei protagonisti, anche se per farlo diventa (soprattutto nella seconda metà) eccessivamente ripetitivo e palesemente ridondante, ha una struttura narrativa spontanea con una più accesa attenzione all'aspetto intimistico dei protagonisti. Viene recuperata la dimensione più intima e meno epica della storia senza accentuare troppo i momenti contemplativi. In questo terzo film si aggiunge un personaggio nuovo quello del cattivo Joseph, interpretato dallo stesso regista del film, Clovis Cornillac (visto in Asterix alle Olimpiadi, Lucky Luke e la più grande fuga dei Dalton), qui al suo debutto dietro la mdp. L'uomo arriva al villaggio sostenendo di essere il vero padrone di Belle. Un personaggio volutamente caratterizzato dall'assenza di sfumature, un cattivo incapace di dimostrare umanità o empatia, una sorta di personificazione del male assoluto. Rispetto ai due precedenti capitoli, questo è più maturo pur confermando la presenza degli elementi tipici della storia: emozione, umorismo, tenerezza, lo spettacolo della natura e delle montagne (a tal proposito ambientazione spettacolare con paesaggi di bellissime montagne completamente innovate, praticamente tutto il film si svolge in ambiente innevati abbondantemente, quindi una lode alla fotografia di livello), e la nostalgia per un'epoca che non c'è più. Tematiche come la crescita, l'abbandono, la giustizia e la legge, due cose spesso incompatibili e inversamente proporzionali, fanno riflettere i più piccoli, preparandoli già alle ingiustizie dell'universo che vengono però superate grazie ai legami forti, con il nonno (ancora e benissimo interpretato da Tchéky Kairo), con Belle e i suoi nuovi deliziosi cuccioli, con le amicizie. Questo film del 2017 insomma ha la cura di non lasciare nulla al caso, di essere piacevolmente sentimentale, pur rinunciando alla verosimiglianza, privilegiando i fattori infantili per raccontare come vivere ed accettare la crescita di ognuno di noi. Un film che risulta scorrevole e senza lentezze. Per un pubblico certamente giovane può sicuramente risultare interessante e lasciare anche qualche spunto di riflessione. Per quello più adulto e più emancipato, il film purtroppo si contraddice in alcuni punti e, forse, a volte l'intelligenza di Belle può risultare esagerata e fonte di derisione. Nonostante ciò, Belle e Sebastien: Amici per sempre resta una buona pellicola sul passaggio dall'età dell'infanzia a quella della responsabilità. Una pellicola ben riuscita che chiude degnamente la trilogia. Voto: 6
Ispirato a fatti realmente accaduti, My Dinner with Hervé, film per la televisione del 2018 scritto e diretto da Sacha Gervasi, racconta gli ultimi giorni di vita dell'attore affetto da nanismo Hervé Villechaize, divenuto celebre per il film di James Bond del 1974 "L'uomo dalla pistola d'oro" e per la serie anni Ottanta "Fantasy Island", e della sua amicizia con il giornalista Danny Tate. Ma questo film, prodotto da HBO, che riporta alla ribalta una figura un po' dimenticata dello spettacolo tra gli anni '70 e '80, racconta anche e soprattutto il suo essere personaggio controverso, un uomo imprevedibile, fissato con il sesso, giocherellone, indisciplinato, che racconta bugie, si descrive meglio di ciò che è stato, ma non ha timore di parlare della malattia e della sua fede in Dio. Un personaggio insomma tormentato, che questo film biografico espone in maniera apprezzabile. Perché anche se questo è un film dall'andamento prevedibile, è comunque sentito e mai scontato. Un film che riesce a non essere ricattatorio sulla malattia, che ha il suo punto di forza nell'interpretazione travolgente di Hervé da parte di Peter Dinklage (interprete notissimo, paradossalmente ora è il nano più famoso del cinema), in uno dei ruoli che segnano una carriera, perfetto nel rendere un'esuberanza che nasconde la disperazione, anche se a causa della regia piatta di Sacha Gervasi (già regista di biografie), si fa particolarmente fatica a cogliere pienamente il percorso umano di Hervé Villechaize, che ci appare fondamentalmente sempre la stessa persona, priva di un cambiamento intimo ed esteriore che giustifichi la sua condizione attuale. Il regista infatti, Sacha Gervasi alias Danny Tate nel film, che praticamente racconta in questo film, un film incentrato non solo sulla difficoltà di vivere per un disabile, ma soprattutto su certi perversi meccanismi dello show-business (che lancia giovani promesse per ammaliarle e poi annientarle), il suo incontro avvenuto all'epoca e che fa vedere tramite flashback la vita tumultuosa dell'attore (che si travolgere dai soldi), mette in scena un biopic originale nelle intenzioni ma ondivago nell'esecuzione, forte dell'intensa interpretazione di Peter Dinklage, di un valido comparto sonoro e di numerose sequenze toccanti (da una madre che quasi lo rinnega e un padre medico che inutilmente e dolorosamente cerca di curarlo), ma indebolito da una narrazione che non sa andare al di là di un rimpallo fra passato e presente per raccontare il mutamento del protagonista e da una spalla troppo inconsistente per costituire un valido controcampo emotivo alla storia di Hervé. Difatti il vero punto debole di My Dinner with Hervé è senza dubbio il personaggio di Jamie Dornan (non lui, che dopo Anthropoid fa nuovamente una sufficiente prova), le cui difficoltà esistenziali (ribadite fino allo sfinimento con ripetuti flashback) non costituiscono mai un gancio emotivo nei confronti dello spettatore. Si faticano inoltre a comprendere la reali motivazioni umane e professionali che spingono il giornalista, dal momento che la storia di cui viene a conoscenza non differisce in maniera sostanziale da quella già conosciuta nell'ambiente e non percepiamo mai un suo bisogno di giornalismo introspettivo e umano, che ci viene invece sbattuto in faccia negli ultimi minuti del film. Oltre a questo, spiace vedere un interprete di classe e carisma come Andy Garcia relegato all'ennesimo ruolo marginale (quello di Ricardo Montalbán, collega di Villechaize sul set di Fantasilandia), che l'attore di origini cubane mette in scena in maniera svogliata e bidimensionale. My Dinner with Hervé si rivela quindi un film a due facce, efficace quando mostra le abbaglianti luci dell'industria hollywoodiana e gli abissi umani da essa provocati, ma poco convincente nel legare tutto ciò in un racconto coerente e unitario. Nonostante questi difetti e qualche scelta narrativa discutibile (come la mancata enfasi sulla precaria salute di Hervé Villechaize, determinante per il suo tormento interiore e, con ogni probabilità, anche per la sua decisione di togliersi la vita), My Dinner with Hervé ha il pregio di raccontare un personaggio sconosciuto ai più in maniera limpida e onesta, senza eccedere né nell'agiografia né nella demonizzazione e lasciando così una sensazione di tristezza mista a impotenza nello spettatore. Voto: 6
Nel 1960, due diciottenni con le fidanzate quindicenni campeggiarono sulle rive del lago. Al mattino, tre di loro furono trovati trucidati con molteplici coltellate, e il superstite era in stato di shock e riportava molteplici ferite. Il caso, a distanza di oltre cinquant'anni, non è mai stato risolto, nonostante i vari sospetti, le confessioni e un processo all'unico superstite, tenutosi nel 2004. Rimane ancora oggi un caso misterioso che ha grande influenza sulla cultura finlandese e che, prima o poi, non poteva che ispirare un film horror. Bodom, film del 2016 diretto da Taneli Mustonen, film che si colloca nel filone degli horror nordici che ultimamente stanno prendendo sempre più piede nello scenario attuale, prende le mosse proprio dalla volontà di Atte (uno dei quattro ragazzi protagonisti) di ricostruire l'accaduto e comprendere cosa sia realmente successo quella notte. Per farlo, coinvolge l'amico Elias e due amiche, Ida e Nora, attratte con l'inganno di una serata da trascorrere in una casetta sul lago e con altri amici. Visitare la scena di un crimine non è però mai una buona idea. Per tre quarti d'ora sembra quindi il classico, stupido teen horror movie americano, con il consueto gruppetto di adolescenti idioti che si vanno a gettare tra le braccia del solito killer misterioso e sanguinario, per fortuna stavolta gli sceneggiatori introducono qualche variante, che mi consente di mettere da parte la rabbia che tali pellicole in genere mi fanno venire, soprattutto ultimamente. Inizia infatti come un classico slasher con la combriccola di adolescenti (due ragazzi e due ragazze) caratterizzati nel più tipico dei modi: una ragazza introversa e l'amica più espansiva, il classico ragazzo marpione e l'amico un po' Nerd. In effetti i primi 40 minuti seguono esattamente il medesimo filone narrativo ben noto agli appassionati, con la "gita fuori porta" che si rivela dannosa, i rumori notturni e i primi omicidi, che rendono il tutto abbastanza prevedibile. Questo per quanto riguarda la prima parte, perché da metà film in poi un plot twist (ben congegnato) mischia le carte in tavola ribaltando la situazione. La pellicola, che gioca con le convenzioni in maniera anche intelligente in certi passaggi, si stacca così dalla tipica vicenda slasher e riesce a mantenere buoni livelli di tensione fino al termine, grazie anche ad una lunghezza essenziale. Non che anche così non ci sia qualche buchetto nello script, specialmente nel finale, ma non sono così macroscopici da non poter chiudere un occhio. Perché certo, alcuni di questi colpi di scena sono piuttosto prevedibili, altri addirittura forzati e non credibili, in tal senso una dose di coraggio in più lo avrebbe senza dubbio reso più accattivante elevandolo rispetto a pellicole della stessa caratura, ma gli 80 minuti scorrono senza annoiare, ed è già parecchio. Perché certo, l'atmosfera iniziale non è ricreata in maniera particolarmente funzionante, ma grazie alla mano artigiana del regista ci sono begli scorci notturni del lago che regalano una certa immedesimazione nel clima di costante pericolo. Per alcuni aspetti, quindi, Bodom è un'occasione persa. Tuttavia finché funziona, finché le dinamiche stravolgono la classicità, si può ritenere questo film riuscito. I giovani protagonisti mi risultano del tutto sconosciuti, ma anche piuttosto efficaci alla causa del film. Non male anche la colonna sonora, inquietante quanto basta. In definitiva una pellicola guardabile, da 6 in pagella, ma allo stesso tempo dimenticabile e poco originale. Vale una visione per i soli irriducibili del genere. Voto: 6
Jim Jarmusch (che a quanto pare dovrebbe prossimamente tornare al cinema con un film con protagonisti gli zombie) è uno dei più importanti cineasti del cinema indipendente statunitense, regista, attore, sceneggiatore, montatore e compositore, tutte capacità nate da un grande impegno culturale e da un genio poliedrico tutto suo. In tal senso solo lui probabilmente, poteva osare tanto, poteva intitolare un film Paterson (questo suo ultimo film del 2016), ambientarlo a Paterson (città a venti minuti da New York), con un protagonista che si chiama Paterson. E che scrive poesie che si ispirano a William Carlos Williams (a quanto pare uno dei maggiori autori della moderna poesia americana), poeta di Paterson autore della raccolta intitolata "Paterson". Eppure il film è tutt'altro che cerebrale, anzi è di una semplicità quasi candida (ma affatto banale) nel mostrare la vita routinaria di un conducente di autobus (interpretato da Adam Driver, guarda caso "driver" vuol dire conduttore!) che si diletta a scrivere poesie, frutto dell'osservazione del mondo e delle persone che lo circondano. E del suo amore per la moglie Laura, dalle passioni volubili e cangianti ma deliziosa (e che porta un tocco di follia ma anche a suo modo di paradossale stile nella loro vita). Il film è scandito dal tempo (una settimana, segnalata giorno per giorno) e dalle poesie che scrive il protagonista su un suo taccuino. La moglie lo incalza perché le faccia conoscere al mondo, perché le ritiene bellissime, o quanto meno che inizi a salvarle fotocopiandole, lui si schermisce e rimanda. E quando sembrerà rassegnato a chiudere questa piccola finestra sul mondo, che lo spinge a vedere e ascoltare con attenzione quel che avviene attorno a lui e a tradurlo in immagini liriche, un incontro inaspettato gli darà forse un nuovo impulso. Paterson è uno di quei personaggi da cinema candidi e positivi: guarda con bonarietà il collega sempre lamentoso, ama la moglie anche nelle sue manie, sa dire o fare la cosa giusta (o almeno ci prova) quando si trova davanti a persone in difficoltà (come al pub, meta serale ricorrente) o semplicemente bisognose di ascolto. Soprattutto osserva chi o cosa gli sta attorno, si ferma a guardare il mondo. Non vive sulla luna: e infatti alla fine un episodio banale ma per lui terribile, causato dal bulldog di casa (che lui non sopporta ma che è costretto spesso a portare in giro), lo manda in crisi. Fino a rischiare di bloccare l'ispirazione poetica e la sua apertura curiosa al mondo. Un film fatto di poco, quasi pochissimo: non succede molto, tutto sembra uguale nella ripetitività di una vita semplice e tranquilla, seppur non manchino i possibili (ironici e grotteschi) punti di rottura. È sicuramente un'opera che si rivolge a chi apprezza un minimalismo narrativo e di stile, sicuramente non per grandi platee (neanche per chi apprezza poco la poesia) e forse nel suo scorrere pacato e ripetitivo annoia un po', limitando non di poco appunto il raggio di visione. Ma è un film piacevole, che si prende i suoi tempi e si rivolge a chi non si arrende alla frenesie. Anche ironico nel dipingere un protagonista volutamente alieno da certi atteggiamenti moderni. E interessante nel mostrare i meccanismi della creazione e del rapporto tra vita e scrittura. Inoltre sostanzioso nel suo versante "poetico", anche se a me queste poesie non hanno né emozionato né fatto riflettere. Insomma un film forse "povero" (almeno personalmente) e indubbiamente tranquillo (anche troppo) ma affascinante. Nel fascino discreto di questo piccolo film ci sono sicuramente la prova di Adam Driver, sempre più bravo (diventato noto al grande pubblico con il capitolo VII di Star Wars, nei panni del sinistro Kylo Ren, ma si fece apprezzare già prima in vari film americani indipendenti e anche in Hungry Hearts del "nostro" Saverio Costanzo), e della deliziosa (dolcissima la sua interpretazione) Golshifteh Farahani, attrice iraniana ormai di caratura internazionale. Ma c'è anche la città di Paterson, ignota ai più eppure non così trascurabile: che ha dato i natali a parecchi personaggi conosciuti, anche in Italia. Ora, per la sua fama, avrà un piccolo posto anche questo film gentile e sensibile. Un film non memorabile ma semplice, carino e delicato. Voto: 6
Delphine, una scrittrice di successo, firma autografi e dediche sulle copie di suoi libri a una sfilza di fan adoranti, in una libreria. Lei però è sfiduciata, depressa, in crisi, creativa e personale. E così quando una di questi fan, la giovane Elle le si avvicina con fare suadente e anche sensibile, lei cede alle sue insistenze da stalker cortese (ma non meno invadente). Pian pian entrerà nella sua vita, con modi sempre più decisi: per darle una mano, come assistente di fiducia, a uscire dal suo "blocco" e tornare a scrivere. O per avere qualcosa da lei? Per Delphine, sempre più fragile e in balia di Elle (che scrive anch'essa, ma per altri, come ghost writer) che è entrata nella sua vita (e, letteralmente, nella sua casa), è sempre più difficile capire cosa le stia succedendo. Non si può dir molto, dei tanti fatti e colpi di scena che si susseguono in quello che è a tutti gli effetti un thriller anche se con i consueti tratti personali e autoriali. Roman Polanski ha riempito la sua sterminata filmografia di personaggi e situazioni ambigue come quella raccontata in Quello che non so di lei, tratto dal romanzo di Delhine DeVigane: un titolo un po' scontato e meno accattivante di quello originale D'après une histoire vraie (ovvero, "da una storia vera"). Che Elle sia manipolatrice e non racconti la verità, lo spettatore lo intuisce subito. Molto prima della protagonista, provata dal successo e dalla vita (con un marito distante e distratto e figli grandi che non la chiamano mai). E dall'intreccio tra arte e vita, tra fatti raccontati e fatti reali che si dipana parte la vicenda (e sembra derivare l'interesse morboso di Elle per la scrittrice), con quel romanzo che racconta fatti privati della sua famiglia che le procura l'attenzione del pubblico per la sua "sincerità" ma anche accuse e perfino lettere anonime. Il problema è quando il meccanismo, condotto brillantemente con i toni dei suoi classici mistery esistenziali cupi e angoscianti (inutile citarli), lascia il posto, nell'ultima parte ambientata in una casa di campagna, a un thriller classico, con le convenzioni e anche i cliché del genere. Niente di male, ma da un autore come Polanski (indubbiamente uno degli ultimi grandi autori viventi) ci si aspetta sempre di più. Qui abbiamo due grandi attrici come Emmanuelle Seigner ed Eva Green, capaci di rendere credibile un gioco a due intrigante e minaccioso al tempo stesso. Ma la struttura, così affascinante nella prima parte che lascia aperte molte riflessioni efficaci sulla letteratura (quanto incidono gli eventi vissuti su quanto si racconta) e sui rapporti di dipendenza tra persone, disperde le tante premesse e promesse iniziali in un finale abbastanza dimenticabile (lo script tende infatti a divagare nelle battute finali, evidenziando anche una certa confusione, cercando di giungere ad un colpo di scena allo stesso tempo prevedibile ed esagerato), per un film pregevole dal punto di vista tecnico e che rimane comunque impresso appunto per le due interpreti ma che ha anche le caratteristiche inconfondibili dell'opera minore. Un'opera che non offre guizzi particolari, né forti emozioni, né elementi originali. La tematica (le inquietudini di un artista, le "impasse" del processo creativo, le conseguenze pericolose del successo) è stata difatti vista già sullo schermo varie volte e questo film non pare aggiungerle molto. Egli prova infatti a costruire un thriller psicologico, con sussurri, suggestioni e sospetti, creando quell'atmosfera sottilmente perversa, in bilico fra realtà e incubo che ha sempre caratterizzato i suoi lavori, sin dagli esordi, tuttavia l'impresa stavolta non gli riesce completamente. Questo film del 2017 è difatti leggermente pilotato e scialbo. Vero è che forse l'intento dell'autore non è quello di regalarci una storia logica ma quello di entrare il più possibile nel profondo dei suoi personaggi, ma è altrettanto vero che è lo stesso regista ad imboccare una strada forse un po' troppo contorta per essere gestita al meglio. Quello che non so di lei in definitiva si mostra un film sufficiente, a tratti anche affascinante, ma a cui manca quel mordente tipico del Polanski (l'ultimo suo film che avevo visto era il più che convincente Carnage, dove funzionava tutto a meraviglia, a cominciare dalla costruzione dei personaggi, qui non tanto) che ben conosciamo. Voto: 6
Da un po' di anni ormai siamo abituati a collegare il Natale non solo a storie lacrimose con buoni sentimenti ma anche ad atroci narrazioni horror. Safe Neighborhood (conosciuto anche come Better Watch Out) riesce alla perfezione a mischiare l'atmosfera natalizia, calda e familiare, con le drammatiche note di un'invasione domestica che promette ansia e situazioni truci, dove la sopravvivenza non è affatto assicurata. La colonna sonora è composta quasi unicamente dalle canzoni di repertorio cui tutti siamo abituati, canzoni che fanno da contraltare ironico alle terribili immagini che scorrono sullo schermo. Proprio l'ironia è uno dei punti di forza di questo film. Si ride, e tanto. Si ride nei classici momenti della calma prima della tempesta, quando ci vengono presentati i fantastici genitori del ragazzino protagonista (Virginia Madsen e Patrick Warburton) o il suo migliore amico nerd, ma si ride anche e soprattutto quando si raggiunge l'apice della drammatica vicenda, creando una stranissima e davvero riuscita commistione fra ironia e paura che contribuisce a distinguere questo film dalla sequela di titoli simili. Con situazioni al limite del paradossale, che tuttavia sembrano totalmente plausibili nell'architettura della storia, lo spettatore rimane coinvolto e rapito, sobbalzando dagli spaventi e asciugandosi una divertita lacrima il momento successivo. La trama sulle prime è molto semplice, in un tranquillo quartiere di periferia, una babysitter si ritrova a difendere un bambino dodicenne da un intrusione in casa, ma le cose saranno molto diverse da quello che sembrano. Better Watch Out parte sulle note del home invasion classico, un genere che può comprendere horror come The stranger fino a commedie alla Mamma ho perso l'aereo, ed è proprio in questo equilibrio insolito che trae spunto la prima parte della trama. Un plot twist abbastanza semplice però cambia le carte in tavola dando il via a tutto un altro genere di pellicola, dove la serietà aumenta di qualche punto cosi come la tensione, ma senza esagerare perché in fondo a natale siamo tutti più buoni. A tal proposito vi invito ad evitare di visionare il trailer che inspiegabilmente qualcosa suggerisce, o a rifuggire commenti a rischio spoiler, considerato che questo film del 2016 gioca moltissimo sul fattore sorpresa. Passata infatti la prima mezz'ora priva di qualsiasi sussulto (a parte uno spiazzante incipit con inusuale contesto di corteggiamento precoce, lui tredicenne, lei poco più che maggiorenne) il film si accende e riesce a raggiungere l'obiettivo di risultare dotato della giusta perfidia (che non è certo limitata al dissacrare la festività, altro semplice cliché sul quale ci si sollazza) bensì nel mettere in piedi e gestire un impianto di crescente crudeltà, senza dimenticare toni da dark comedy e citazioni varie. Safe Neighborhood non lascia un attimo di respiro, richiede l'assoluta e completa attenzione dello spettatore senza, per altro, deluderne mai le aspettative. Ogni nuova scena, ogni nuova sorpresa, ogni nuova atrocità non fanno che andare ad arricchire una base già egregiamente costruita, pronta per essere migliorata. Il regista sa dove piazzare la macchina da presa, può contare su un ottimo tecnico della fotografia e ha almeno un paio di assi nella manica, quello di bastoni si chiama Levi Miller, giovanissimo interprete (con la prospettiva di un radioso futuro d'attore) semplicemente incredibile per come si trova a suo agio in questo improprio contesto, mentre l'altro asso è quello di cuori e risponde al nome di Olivia DeJonge, sensuale e carismatica ventenne australiana già comparsa in The Visit (al fianco di Ed Oxenbould che qui c'è), e anche lei decisamente dotata di ottime capacità interpretative. Ogni ruolo è perfettamente caratterizzato permettendo una forte empatia con i personaggi e le dinamiche comiche serrate, unite alla tensione avvolgente, compongono il ritmo irresistibile della storia. Ne risulta un film godibile, originale e più che discreto, ma comunque non perfetto, anche perché il regista (anche autore della sceneggiatura), gioca troppo per sottrazione, evitando accuratamente splatter e gore. Chris Peckover inoltre, cerca di fornire continuità ad ogni colpo di scena, ma in questo il regista arranca a tratti, tradendo una certa difficoltà nello sviluppare in maniera convincente le svolte fornite da una sceneggiatura piuttosto brillante. Egli è comunque abile nell'invogliare lo spettatore a reprimere le proprie certezze e a ribaltare la prospettiva originale. Il tutto non va, ovviamente, oltre il prodotto d'intrattenimento, e tutti i tentativi di rintracciarvi interpretazioni ulteriori appaiono comunque un po' forzati. Ma, per l'appunto, come puro prodotto di genere, il film funziona eccome, è capace di costruire un clima angoscioso e riserva un sarcastico finale (reso ancor più diabolico dalla scena nascosta ad un minuto dall'inizio dei titoli di coda). Voto: 7
La lunga tradizione delle commedie francesi non si smentisce: Il ritorno dell'eroe (Le retour du héros) di Laurent Tirard è un lavoro leggero, ben confezionato e piacevole. Questo film del 2018 infatti, del regista transalpino abbastanza affermato in patria, regista capace di donare commedie simpatiche e spigliate con una vena appena accennata di surrealità che conferisce un certo stile alle sue opere, che alla seconda fatica con Jean Dujardin, dirige un film simpatico e scorrevole, contrappuntato da un gioco letterario-giocoso che conta esclusivamente sui due protagonisti, tant'è che gli altri attori sono solo sfondi (anche se il loro lavoro lo svolgono davvero egregiamente), è un gradevole film in costume, di produzione ovviamente francese, con personaggi ben definiti, dialoghi ironici e scene ben dirette. Costruire il personaggio di un eroe addosso ad un capitano disertore, fanfarone ed arrivista non è facile, però viene proprio bene in questo caso. E' questo elemento difatti la molla che muove tutto il meccanismo di questa commedia leggera e gradevole, mai volgare e sostenuta da due attori che si intendono molto bene come Jean Dujardin nella parte del lestofante e della bisbetica Elisabeth interpretata da Melanie Laurent. Il ritorno dell'eroe è infatti una commedia degli equivoci in piena regola, a tratti quasi slapstick, tutta basata sulla mimica facciale e sulle battute. Il film difatti, che racconta (il film è ambientato nell'Ottocento) del capitano Neuville che parte per il fronte, lasciando la fidanzata disperata, ma la sorella di questa, Elisabeth, finge di essere lui in un rapporto epistolare fasullo con la giovane, per consolarla, non sapendo che ciò potrebbe essere controproducente al ritorno dell'eroe che poi eroe non è, infatti coperto di stracci e vergogna, ritorna in anonimato dopo aver disertato il suo reggimento, che non si fa quindi sfuggire l'occasione di vestire i panni di quel Capitano che ormai popola (per colpa delle storie inventate di lei) l'immaginazione di tutti, anche solo per riguadagnare la sua posizione sociale, è un gioco brillante di comicità, tra realtà e finzione. A tal proposito, lo scontro tra realtà e finzione è proprio ciò che dà carburante alla maggior parte del film. Quando il Capitano fa davvero il suo ritorno al villaggio, Elisabeth si vede strappata non solo della propria autorialità (di scrittrice) ma assiste anche alla caduta della sua creatura sotto i colpi dell'appropriazione altrui. Neuville infatti, se inizialmente si presta a essere istruito dalla donna sulle imprese dell'eroe a giro per il mondo così da narrarle con fedeltà al suo nutrito pubblico, ben presto inizia ad aggiungere il suo personale estro alla narrazione apportando modifiche talvolta sostanziali. E saranno proprio queste modifiche a divertire lo spettatore. Anche perché la guasconeria del personaggio maschile è perfettamente disegnata su Dujardin, indomito mascalzone dotato di ironia e intelligenza. La Elisabeth della Laurent è una donna fin troppo moderna e libera nei modi (se si considera il periodo in cui la storia si dipana), ma sa reggere i buffi dialoghi con Dujardin con naturalezza. Tutti e due infatti sono perfettamente in grado di reggere i 100 minuti e passa di commedia. Una commedia in costume che declina ancora una volta la battaglia dei sessi (e in modo alquanto divertente), una commedia che non presenta cali di ritmo evidenti, tali da nuocere alla sua godibilità, una commedia che funziona, che regala anche discrete scenografie, dopotutto l'apparenza risulta senza dubbio fondamentale in questo film. Un film indubbiamente piacevole, sorretto da efficacissime interpretazioni, soprattutto dai due pestiferi personaggi (in tutti i sensi), e da una sceneggiatura decisamente brillante ed originale. Epilogo prevedibile ma con un piccolo scarto finale che rallegra e che permette al film, di non essere la solita commedia, anzi, per chi ama i film francesi, le commedie francesi, e il talentuoso gioco della recitazione al suo meglio, questo è proprio un film che vale la pena di vedere. Voto: 6+
Nel 1943, a New York, un italo-americano è innamorato di una giovane che viene però promessa in sposa dallo zio della stessa al figlio di un potente mafioso. L'unico modo che il giovane ha per poter avere la donna (e che donna, io andrei fino in capo al mondo..), nel rispetto della tradizione, è chiedere la mano al padre, che però vive in Sicilia. Non potendo compiere il viaggio in altra maniera, il protagonista si arruola e prende parte all'operazione Husky, nome in codice dello sbarco in Sicilia degli Alleati. Queste le premesse di una vicenda tragicomica, che il regista Pif, al suo secondo film, questo film, In guerra per amore, film del 2016 diretto dal regista/attore, nonché sceneggiatore Pierfrancesco Diliberto (in arte appunto Pif), racconta intrecciandola (scegliendo, come sempre, nel raccontarla la propria tipica maniera divertente ed accessibile, tale da non rendere troppo seria e pesante l'opera in generale ma nello stesso tempo portando lo spettatore a riflettere seriamente sulla deplorevole realtà dei fatti) con un'analisi di più ampio respiro, volta a spiegare come l'occupazione Alleata della Sicilia favorì l'affermazione dei poteri mafiosi, fino a quel momento contenuti dal regime fascista. Infine, il regista segue, ma senza trovare un punto di convergenza tra questa storia e le altre, la vicenda di una famigliola in attesa di un padre/figlio/marito. Il mancato ritorno a casa di quest'ultimo, pacificata l'isola, comporta nell'anziano padre una fortissima delusione per le non rispettate promesse del vecchio regime, rappresentate da una statua di Mussolini, che scaglia fuori da una finestra, facendolo rimanere metaforicamente appesa a testa in giù (ma sono presenti altri simboli e citazioni). L'intreccio sentimentale passa un po' in sordina, non è un aspetto particolarmente curato (anche se Miriam Leone si fa sempre notare), ma è del resto evidente che l'interesse dell'autore è rivolto a dare un'immagine della società siciliana, non eccessivamente "macchiettizzata" nonostante l'aspetto un po' favolistico delle ambientazioni, di tanti anni fa, e di spiegare come gli Alleati siano complici, se non artefici, della rinascita della criminalità organizzata in Sicilia, in quanto si sarebbero avvalsi della collaborazione dei signorotti locali per portare a termine le operazioni belliche con il minor danno possibile, e successivamente dei medesimi, e di persone a loro amiche (criminali comuni) per l'amministrazione dei territori "liberati". Emblematico è il monologo conclusivo del film. Il mafioso del paese liberato, nominato incredibilmente sindaco, s'arroga il diritto di identificare sé stesso nella democrazia. Passabili le recitazioni, non ho gradito alcune sequenze (altre invece parecchio geniali) e gli intermezzi del cieco e dello zoppo, che introducono il tema dell'omosessualità, poi non adeguatamente sviluppato. In tal senso c'è la del tutto ingiustificata inserzione di personaggi inutili all'economia della storia, macchiette comiche che rubano spazio alle vicende principali, che avrebbero invece necessitato di un maggior sviluppo. Peccato. Tutto ciò ci fa attribuire al film solo l'aggettivo "carino", non "bello", come invece lo era stato La mafia uccide solo d'Estate. Questo non significa che non merita di essere visto, anzi, perché anche se c'è infine da dire che il coinvolgimento della mafia americana nell'invasione della Sicilia è un elemento ancora avvolto dal mistero, buone sono comunque le intenzioni dell'autore, che imbastisce una vicenda in costume che fa ridere, emozionare e riflettere tanto. Non raggiunge quell'equilibrio narrativo del precedente film (è evidente sin dall'inizio che quell'effetto sorpresa generato dall'opera d'esordio qui viene a mancare, ma il regista riesce a costruire nuovamente una storia godibile, in cui ben si intrecciano situazioni comiche al limite del grottesco, trovate sceniche d'impatto e cinema di denuncia), ma come detto merita un plauso, dopotutto ci sono ottimi caratteristi, momenti di autentico cinema (si veda la corsa al rifugio antiaereo) e si trascorre il tempo piacevolmente coccolati dalla indubbia capacità di Pif di raccontare le storie in modo originale. In ultima analisi è da apprezzare notevolmente la ricostruzione storica ed ambientale dell'epoca del secondo conflitto mondiale che egli presenta perfettamente e quanto mai aderente alla realtà. In definitiva perciò, film carino, simpatico e consigliabile. Voto: 6
Nel 1960, due diciottenni con le fidanzate quindicenni campeggiarono sulle rive del lago. Al mattino, tre di loro furono trovati trucidati con molteplici coltellate, e il superstite era in stato di shock e riportava molteplici ferite. Il caso, a distanza di oltre cinquant'anni, non è mai stato risolto, nonostante i vari sospetti, le confessioni e un processo all'unico superstite, tenutosi nel 2004. Rimane ancora oggi un caso misterioso che ha grande influenza sulla cultura finlandese e che, prima o poi, non poteva che ispirare un film horror. Bodom, film del 2016 diretto da Taneli Mustonen, film che si colloca nel filone degli horror nordici che ultimamente stanno prendendo sempre più piede nello scenario attuale, prende le mosse proprio dalla volontà di Atte (uno dei quattro ragazzi protagonisti) di ricostruire l'accaduto e comprendere cosa sia realmente successo quella notte. Per farlo, coinvolge l'amico Elias e due amiche, Ida e Nora, attratte con l'inganno di una serata da trascorrere in una casetta sul lago e con altri amici. Visitare la scena di un crimine non è però mai una buona idea. Per tre quarti d'ora sembra quindi il classico, stupido teen horror movie americano, con il consueto gruppetto di adolescenti idioti che si vanno a gettare tra le braccia del solito killer misterioso e sanguinario, per fortuna stavolta gli sceneggiatori introducono qualche variante, che mi consente di mettere da parte la rabbia che tali pellicole in genere mi fanno venire, soprattutto ultimamente. Inizia infatti come un classico slasher con la combriccola di adolescenti (due ragazzi e due ragazze) caratterizzati nel più tipico dei modi: una ragazza introversa e l'amica più espansiva, il classico ragazzo marpione e l'amico un po' Nerd. In effetti i primi 40 minuti seguono esattamente il medesimo filone narrativo ben noto agli appassionati, con la "gita fuori porta" che si rivela dannosa, i rumori notturni e i primi omicidi, che rendono il tutto abbastanza prevedibile. Questo per quanto riguarda la prima parte, perché da metà film in poi un plot twist (ben congegnato) mischia le carte in tavola ribaltando la situazione. La pellicola, che gioca con le convenzioni in maniera anche intelligente in certi passaggi, si stacca così dalla tipica vicenda slasher e riesce a mantenere buoni livelli di tensione fino al termine, grazie anche ad una lunghezza essenziale. Non che anche così non ci sia qualche buchetto nello script, specialmente nel finale, ma non sono così macroscopici da non poter chiudere un occhio. Perché certo, alcuni di questi colpi di scena sono piuttosto prevedibili, altri addirittura forzati e non credibili, in tal senso una dose di coraggio in più lo avrebbe senza dubbio reso più accattivante elevandolo rispetto a pellicole della stessa caratura, ma gli 80 minuti scorrono senza annoiare, ed è già parecchio. Perché certo, l'atmosfera iniziale non è ricreata in maniera particolarmente funzionante, ma grazie alla mano artigiana del regista ci sono begli scorci notturni del lago che regalano una certa immedesimazione nel clima di costante pericolo. Per alcuni aspetti, quindi, Bodom è un'occasione persa. Tuttavia finché funziona, finché le dinamiche stravolgono la classicità, si può ritenere questo film riuscito. I giovani protagonisti mi risultano del tutto sconosciuti, ma anche piuttosto efficaci alla causa del film. Non male anche la colonna sonora, inquietante quanto basta. In definitiva una pellicola guardabile, da 6 in pagella, ma allo stesso tempo dimenticabile e poco originale. Vale una visione per i soli irriducibili del genere. Voto: 6
Jim Jarmusch (che a quanto pare dovrebbe prossimamente tornare al cinema con un film con protagonisti gli zombie) è uno dei più importanti cineasti del cinema indipendente statunitense, regista, attore, sceneggiatore, montatore e compositore, tutte capacità nate da un grande impegno culturale e da un genio poliedrico tutto suo. In tal senso solo lui probabilmente, poteva osare tanto, poteva intitolare un film Paterson (questo suo ultimo film del 2016), ambientarlo a Paterson (città a venti minuti da New York), con un protagonista che si chiama Paterson. E che scrive poesie che si ispirano a William Carlos Williams (a quanto pare uno dei maggiori autori della moderna poesia americana), poeta di Paterson autore della raccolta intitolata "Paterson". Eppure il film è tutt'altro che cerebrale, anzi è di una semplicità quasi candida (ma affatto banale) nel mostrare la vita routinaria di un conducente di autobus (interpretato da Adam Driver, guarda caso "driver" vuol dire conduttore!) che si diletta a scrivere poesie, frutto dell'osservazione del mondo e delle persone che lo circondano. E del suo amore per la moglie Laura, dalle passioni volubili e cangianti ma deliziosa (e che porta un tocco di follia ma anche a suo modo di paradossale stile nella loro vita). Il film è scandito dal tempo (una settimana, segnalata giorno per giorno) e dalle poesie che scrive il protagonista su un suo taccuino. La moglie lo incalza perché le faccia conoscere al mondo, perché le ritiene bellissime, o quanto meno che inizi a salvarle fotocopiandole, lui si schermisce e rimanda. E quando sembrerà rassegnato a chiudere questa piccola finestra sul mondo, che lo spinge a vedere e ascoltare con attenzione quel che avviene attorno a lui e a tradurlo in immagini liriche, un incontro inaspettato gli darà forse un nuovo impulso. Paterson è uno di quei personaggi da cinema candidi e positivi: guarda con bonarietà il collega sempre lamentoso, ama la moglie anche nelle sue manie, sa dire o fare la cosa giusta (o almeno ci prova) quando si trova davanti a persone in difficoltà (come al pub, meta serale ricorrente) o semplicemente bisognose di ascolto. Soprattutto osserva chi o cosa gli sta attorno, si ferma a guardare il mondo. Non vive sulla luna: e infatti alla fine un episodio banale ma per lui terribile, causato dal bulldog di casa (che lui non sopporta ma che è costretto spesso a portare in giro), lo manda in crisi. Fino a rischiare di bloccare l'ispirazione poetica e la sua apertura curiosa al mondo. Un film fatto di poco, quasi pochissimo: non succede molto, tutto sembra uguale nella ripetitività di una vita semplice e tranquilla, seppur non manchino i possibili (ironici e grotteschi) punti di rottura. È sicuramente un'opera che si rivolge a chi apprezza un minimalismo narrativo e di stile, sicuramente non per grandi platee (neanche per chi apprezza poco la poesia) e forse nel suo scorrere pacato e ripetitivo annoia un po', limitando non di poco appunto il raggio di visione. Ma è un film piacevole, che si prende i suoi tempi e si rivolge a chi non si arrende alla frenesie. Anche ironico nel dipingere un protagonista volutamente alieno da certi atteggiamenti moderni. E interessante nel mostrare i meccanismi della creazione e del rapporto tra vita e scrittura. Inoltre sostanzioso nel suo versante "poetico", anche se a me queste poesie non hanno né emozionato né fatto riflettere. Insomma un film forse "povero" (almeno personalmente) e indubbiamente tranquillo (anche troppo) ma affascinante. Nel fascino discreto di questo piccolo film ci sono sicuramente la prova di Adam Driver, sempre più bravo (diventato noto al grande pubblico con il capitolo VII di Star Wars, nei panni del sinistro Kylo Ren, ma si fece apprezzare già prima in vari film americani indipendenti e anche in Hungry Hearts del "nostro" Saverio Costanzo), e della deliziosa (dolcissima la sua interpretazione) Golshifteh Farahani, attrice iraniana ormai di caratura internazionale. Ma c'è anche la città di Paterson, ignota ai più eppure non così trascurabile: che ha dato i natali a parecchi personaggi conosciuti, anche in Italia. Ora, per la sua fama, avrà un piccolo posto anche questo film gentile e sensibile. Un film non memorabile ma semplice, carino e delicato. Voto: 6
Delphine, una scrittrice di successo, firma autografi e dediche sulle copie di suoi libri a una sfilza di fan adoranti, in una libreria. Lei però è sfiduciata, depressa, in crisi, creativa e personale. E così quando una di questi fan, la giovane Elle le si avvicina con fare suadente e anche sensibile, lei cede alle sue insistenze da stalker cortese (ma non meno invadente). Pian pian entrerà nella sua vita, con modi sempre più decisi: per darle una mano, come assistente di fiducia, a uscire dal suo "blocco" e tornare a scrivere. O per avere qualcosa da lei? Per Delphine, sempre più fragile e in balia di Elle (che scrive anch'essa, ma per altri, come ghost writer) che è entrata nella sua vita (e, letteralmente, nella sua casa), è sempre più difficile capire cosa le stia succedendo. Non si può dir molto, dei tanti fatti e colpi di scena che si susseguono in quello che è a tutti gli effetti un thriller anche se con i consueti tratti personali e autoriali. Roman Polanski ha riempito la sua sterminata filmografia di personaggi e situazioni ambigue come quella raccontata in Quello che non so di lei, tratto dal romanzo di Delhine DeVigane: un titolo un po' scontato e meno accattivante di quello originale D'après une histoire vraie (ovvero, "da una storia vera"). Che Elle sia manipolatrice e non racconti la verità, lo spettatore lo intuisce subito. Molto prima della protagonista, provata dal successo e dalla vita (con un marito distante e distratto e figli grandi che non la chiamano mai). E dall'intreccio tra arte e vita, tra fatti raccontati e fatti reali che si dipana parte la vicenda (e sembra derivare l'interesse morboso di Elle per la scrittrice), con quel romanzo che racconta fatti privati della sua famiglia che le procura l'attenzione del pubblico per la sua "sincerità" ma anche accuse e perfino lettere anonime. Il problema è quando il meccanismo, condotto brillantemente con i toni dei suoi classici mistery esistenziali cupi e angoscianti (inutile citarli), lascia il posto, nell'ultima parte ambientata in una casa di campagna, a un thriller classico, con le convenzioni e anche i cliché del genere. Niente di male, ma da un autore come Polanski (indubbiamente uno degli ultimi grandi autori viventi) ci si aspetta sempre di più. Qui abbiamo due grandi attrici come Emmanuelle Seigner ed Eva Green, capaci di rendere credibile un gioco a due intrigante e minaccioso al tempo stesso. Ma la struttura, così affascinante nella prima parte che lascia aperte molte riflessioni efficaci sulla letteratura (quanto incidono gli eventi vissuti su quanto si racconta) e sui rapporti di dipendenza tra persone, disperde le tante premesse e promesse iniziali in un finale abbastanza dimenticabile (lo script tende infatti a divagare nelle battute finali, evidenziando anche una certa confusione, cercando di giungere ad un colpo di scena allo stesso tempo prevedibile ed esagerato), per un film pregevole dal punto di vista tecnico e che rimane comunque impresso appunto per le due interpreti ma che ha anche le caratteristiche inconfondibili dell'opera minore. Un'opera che non offre guizzi particolari, né forti emozioni, né elementi originali. La tematica (le inquietudini di un artista, le "impasse" del processo creativo, le conseguenze pericolose del successo) è stata difatti vista già sullo schermo varie volte e questo film non pare aggiungerle molto. Egli prova infatti a costruire un thriller psicologico, con sussurri, suggestioni e sospetti, creando quell'atmosfera sottilmente perversa, in bilico fra realtà e incubo che ha sempre caratterizzato i suoi lavori, sin dagli esordi, tuttavia l'impresa stavolta non gli riesce completamente. Questo film del 2017 è difatti leggermente pilotato e scialbo. Vero è che forse l'intento dell'autore non è quello di regalarci una storia logica ma quello di entrare il più possibile nel profondo dei suoi personaggi, ma è altrettanto vero che è lo stesso regista ad imboccare una strada forse un po' troppo contorta per essere gestita al meglio. Quello che non so di lei in definitiva si mostra un film sufficiente, a tratti anche affascinante, ma a cui manca quel mordente tipico del Polanski (l'ultimo suo film che avevo visto era il più che convincente Carnage, dove funzionava tutto a meraviglia, a cominciare dalla costruzione dei personaggi, qui non tanto) che ben conosciamo. Voto: 6
Da un po' di anni ormai siamo abituati a collegare il Natale non solo a storie lacrimose con buoni sentimenti ma anche ad atroci narrazioni horror. Safe Neighborhood (conosciuto anche come Better Watch Out) riesce alla perfezione a mischiare l'atmosfera natalizia, calda e familiare, con le drammatiche note di un'invasione domestica che promette ansia e situazioni truci, dove la sopravvivenza non è affatto assicurata. La colonna sonora è composta quasi unicamente dalle canzoni di repertorio cui tutti siamo abituati, canzoni che fanno da contraltare ironico alle terribili immagini che scorrono sullo schermo. Proprio l'ironia è uno dei punti di forza di questo film. Si ride, e tanto. Si ride nei classici momenti della calma prima della tempesta, quando ci vengono presentati i fantastici genitori del ragazzino protagonista (Virginia Madsen e Patrick Warburton) o il suo migliore amico nerd, ma si ride anche e soprattutto quando si raggiunge l'apice della drammatica vicenda, creando una stranissima e davvero riuscita commistione fra ironia e paura che contribuisce a distinguere questo film dalla sequela di titoli simili. Con situazioni al limite del paradossale, che tuttavia sembrano totalmente plausibili nell'architettura della storia, lo spettatore rimane coinvolto e rapito, sobbalzando dagli spaventi e asciugandosi una divertita lacrima il momento successivo. La trama sulle prime è molto semplice, in un tranquillo quartiere di periferia, una babysitter si ritrova a difendere un bambino dodicenne da un intrusione in casa, ma le cose saranno molto diverse da quello che sembrano. Better Watch Out parte sulle note del home invasion classico, un genere che può comprendere horror come The stranger fino a commedie alla Mamma ho perso l'aereo, ed è proprio in questo equilibrio insolito che trae spunto la prima parte della trama. Un plot twist abbastanza semplice però cambia le carte in tavola dando il via a tutto un altro genere di pellicola, dove la serietà aumenta di qualche punto cosi come la tensione, ma senza esagerare perché in fondo a natale siamo tutti più buoni. A tal proposito vi invito ad evitare di visionare il trailer che inspiegabilmente qualcosa suggerisce, o a rifuggire commenti a rischio spoiler, considerato che questo film del 2016 gioca moltissimo sul fattore sorpresa. Passata infatti la prima mezz'ora priva di qualsiasi sussulto (a parte uno spiazzante incipit con inusuale contesto di corteggiamento precoce, lui tredicenne, lei poco più che maggiorenne) il film si accende e riesce a raggiungere l'obiettivo di risultare dotato della giusta perfidia (che non è certo limitata al dissacrare la festività, altro semplice cliché sul quale ci si sollazza) bensì nel mettere in piedi e gestire un impianto di crescente crudeltà, senza dimenticare toni da dark comedy e citazioni varie. Safe Neighborhood non lascia un attimo di respiro, richiede l'assoluta e completa attenzione dello spettatore senza, per altro, deluderne mai le aspettative. Ogni nuova scena, ogni nuova sorpresa, ogni nuova atrocità non fanno che andare ad arricchire una base già egregiamente costruita, pronta per essere migliorata. Il regista sa dove piazzare la macchina da presa, può contare su un ottimo tecnico della fotografia e ha almeno un paio di assi nella manica, quello di bastoni si chiama Levi Miller, giovanissimo interprete (con la prospettiva di un radioso futuro d'attore) semplicemente incredibile per come si trova a suo agio in questo improprio contesto, mentre l'altro asso è quello di cuori e risponde al nome di Olivia DeJonge, sensuale e carismatica ventenne australiana già comparsa in The Visit (al fianco di Ed Oxenbould che qui c'è), e anche lei decisamente dotata di ottime capacità interpretative. Ogni ruolo è perfettamente caratterizzato permettendo una forte empatia con i personaggi e le dinamiche comiche serrate, unite alla tensione avvolgente, compongono il ritmo irresistibile della storia. Ne risulta un film godibile, originale e più che discreto, ma comunque non perfetto, anche perché il regista (anche autore della sceneggiatura), gioca troppo per sottrazione, evitando accuratamente splatter e gore. Chris Peckover inoltre, cerca di fornire continuità ad ogni colpo di scena, ma in questo il regista arranca a tratti, tradendo una certa difficoltà nello sviluppare in maniera convincente le svolte fornite da una sceneggiatura piuttosto brillante. Egli è comunque abile nell'invogliare lo spettatore a reprimere le proprie certezze e a ribaltare la prospettiva originale. Il tutto non va, ovviamente, oltre il prodotto d'intrattenimento, e tutti i tentativi di rintracciarvi interpretazioni ulteriori appaiono comunque un po' forzati. Ma, per l'appunto, come puro prodotto di genere, il film funziona eccome, è capace di costruire un clima angoscioso e riserva un sarcastico finale (reso ancor più diabolico dalla scena nascosta ad un minuto dall'inizio dei titoli di coda). Voto: 7
La lunga tradizione delle commedie francesi non si smentisce: Il ritorno dell'eroe (Le retour du héros) di Laurent Tirard è un lavoro leggero, ben confezionato e piacevole. Questo film del 2018 infatti, del regista transalpino abbastanza affermato in patria, regista capace di donare commedie simpatiche e spigliate con una vena appena accennata di surrealità che conferisce un certo stile alle sue opere, che alla seconda fatica con Jean Dujardin, dirige un film simpatico e scorrevole, contrappuntato da un gioco letterario-giocoso che conta esclusivamente sui due protagonisti, tant'è che gli altri attori sono solo sfondi (anche se il loro lavoro lo svolgono davvero egregiamente), è un gradevole film in costume, di produzione ovviamente francese, con personaggi ben definiti, dialoghi ironici e scene ben dirette. Costruire il personaggio di un eroe addosso ad un capitano disertore, fanfarone ed arrivista non è facile, però viene proprio bene in questo caso. E' questo elemento difatti la molla che muove tutto il meccanismo di questa commedia leggera e gradevole, mai volgare e sostenuta da due attori che si intendono molto bene come Jean Dujardin nella parte del lestofante e della bisbetica Elisabeth interpretata da Melanie Laurent. Il ritorno dell'eroe è infatti una commedia degli equivoci in piena regola, a tratti quasi slapstick, tutta basata sulla mimica facciale e sulle battute. Il film difatti, che racconta (il film è ambientato nell'Ottocento) del capitano Neuville che parte per il fronte, lasciando la fidanzata disperata, ma la sorella di questa, Elisabeth, finge di essere lui in un rapporto epistolare fasullo con la giovane, per consolarla, non sapendo che ciò potrebbe essere controproducente al ritorno dell'eroe che poi eroe non è, infatti coperto di stracci e vergogna, ritorna in anonimato dopo aver disertato il suo reggimento, che non si fa quindi sfuggire l'occasione di vestire i panni di quel Capitano che ormai popola (per colpa delle storie inventate di lei) l'immaginazione di tutti, anche solo per riguadagnare la sua posizione sociale, è un gioco brillante di comicità, tra realtà e finzione. A tal proposito, lo scontro tra realtà e finzione è proprio ciò che dà carburante alla maggior parte del film. Quando il Capitano fa davvero il suo ritorno al villaggio, Elisabeth si vede strappata non solo della propria autorialità (di scrittrice) ma assiste anche alla caduta della sua creatura sotto i colpi dell'appropriazione altrui. Neuville infatti, se inizialmente si presta a essere istruito dalla donna sulle imprese dell'eroe a giro per il mondo così da narrarle con fedeltà al suo nutrito pubblico, ben presto inizia ad aggiungere il suo personale estro alla narrazione apportando modifiche talvolta sostanziali. E saranno proprio queste modifiche a divertire lo spettatore. Anche perché la guasconeria del personaggio maschile è perfettamente disegnata su Dujardin, indomito mascalzone dotato di ironia e intelligenza. La Elisabeth della Laurent è una donna fin troppo moderna e libera nei modi (se si considera il periodo in cui la storia si dipana), ma sa reggere i buffi dialoghi con Dujardin con naturalezza. Tutti e due infatti sono perfettamente in grado di reggere i 100 minuti e passa di commedia. Una commedia in costume che declina ancora una volta la battaglia dei sessi (e in modo alquanto divertente), una commedia che non presenta cali di ritmo evidenti, tali da nuocere alla sua godibilità, una commedia che funziona, che regala anche discrete scenografie, dopotutto l'apparenza risulta senza dubbio fondamentale in questo film. Un film indubbiamente piacevole, sorretto da efficacissime interpretazioni, soprattutto dai due pestiferi personaggi (in tutti i sensi), e da una sceneggiatura decisamente brillante ed originale. Epilogo prevedibile ma con un piccolo scarto finale che rallegra e che permette al film, di non essere la solita commedia, anzi, per chi ama i film francesi, le commedie francesi, e il talentuoso gioco della recitazione al suo meglio, questo è proprio un film che vale la pena di vedere. Voto: 6+
Nel 1943, a New York, un italo-americano è innamorato di una giovane che viene però promessa in sposa dallo zio della stessa al figlio di un potente mafioso. L'unico modo che il giovane ha per poter avere la donna (e che donna, io andrei fino in capo al mondo..), nel rispetto della tradizione, è chiedere la mano al padre, che però vive in Sicilia. Non potendo compiere il viaggio in altra maniera, il protagonista si arruola e prende parte all'operazione Husky, nome in codice dello sbarco in Sicilia degli Alleati. Queste le premesse di una vicenda tragicomica, che il regista Pif, al suo secondo film, questo film, In guerra per amore, film del 2016 diretto dal regista/attore, nonché sceneggiatore Pierfrancesco Diliberto (in arte appunto Pif), racconta intrecciandola (scegliendo, come sempre, nel raccontarla la propria tipica maniera divertente ed accessibile, tale da non rendere troppo seria e pesante l'opera in generale ma nello stesso tempo portando lo spettatore a riflettere seriamente sulla deplorevole realtà dei fatti) con un'analisi di più ampio respiro, volta a spiegare come l'occupazione Alleata della Sicilia favorì l'affermazione dei poteri mafiosi, fino a quel momento contenuti dal regime fascista. Infine, il regista segue, ma senza trovare un punto di convergenza tra questa storia e le altre, la vicenda di una famigliola in attesa di un padre/figlio/marito. Il mancato ritorno a casa di quest'ultimo, pacificata l'isola, comporta nell'anziano padre una fortissima delusione per le non rispettate promesse del vecchio regime, rappresentate da una statua di Mussolini, che scaglia fuori da una finestra, facendolo rimanere metaforicamente appesa a testa in giù (ma sono presenti altri simboli e citazioni). L'intreccio sentimentale passa un po' in sordina, non è un aspetto particolarmente curato (anche se Miriam Leone si fa sempre notare), ma è del resto evidente che l'interesse dell'autore è rivolto a dare un'immagine della società siciliana, non eccessivamente "macchiettizzata" nonostante l'aspetto un po' favolistico delle ambientazioni, di tanti anni fa, e di spiegare come gli Alleati siano complici, se non artefici, della rinascita della criminalità organizzata in Sicilia, in quanto si sarebbero avvalsi della collaborazione dei signorotti locali per portare a termine le operazioni belliche con il minor danno possibile, e successivamente dei medesimi, e di persone a loro amiche (criminali comuni) per l'amministrazione dei territori "liberati". Emblematico è il monologo conclusivo del film. Il mafioso del paese liberato, nominato incredibilmente sindaco, s'arroga il diritto di identificare sé stesso nella democrazia. Passabili le recitazioni, non ho gradito alcune sequenze (altre invece parecchio geniali) e gli intermezzi del cieco e dello zoppo, che introducono il tema dell'omosessualità, poi non adeguatamente sviluppato. In tal senso c'è la del tutto ingiustificata inserzione di personaggi inutili all'economia della storia, macchiette comiche che rubano spazio alle vicende principali, che avrebbero invece necessitato di un maggior sviluppo. Peccato. Tutto ciò ci fa attribuire al film solo l'aggettivo "carino", non "bello", come invece lo era stato La mafia uccide solo d'Estate. Questo non significa che non merita di essere visto, anzi, perché anche se c'è infine da dire che il coinvolgimento della mafia americana nell'invasione della Sicilia è un elemento ancora avvolto dal mistero, buone sono comunque le intenzioni dell'autore, che imbastisce una vicenda in costume che fa ridere, emozionare e riflettere tanto. Non raggiunge quell'equilibrio narrativo del precedente film (è evidente sin dall'inizio che quell'effetto sorpresa generato dall'opera d'esordio qui viene a mancare, ma il regista riesce a costruire nuovamente una storia godibile, in cui ben si intrecciano situazioni comiche al limite del grottesco, trovate sceniche d'impatto e cinema di denuncia), ma come detto merita un plauso, dopotutto ci sono ottimi caratteristi, momenti di autentico cinema (si veda la corsa al rifugio antiaereo) e si trascorre il tempo piacevolmente coccolati dalla indubbia capacità di Pif di raccontare le storie in modo originale. In ultima analisi è da apprezzare notevolmente la ricostruzione storica ed ambientale dell'epoca del secondo conflitto mondiale che egli presenta perfettamente e quanto mai aderente alla realtà. In definitiva perciò, film carino, simpatico e consigliabile. Voto: 6
Bello il banner. E aridaje con questa storia della delusione. Già ieri ho faticato per contenere gli sfottò. Ahahah
RispondiEliminaComunque ho provato a guardare Belle e Sebastien dopo che un paio di amici me ne avevano parlato benissimo, ma l'ho trovato molto noioso.
Il cartone animato era tutta un'altra storia.
Gli altri non li conosco, ma vedo che nessuno ti ha fatto girare la testa. Per quello è bastato il cioccolato. ;)
Eh sì aridaje ma non sapendo cosa dire, dopotutto non che mi capiti chissà cosa, dovevo trovare un punto di raccordo, e quello era sfortunatamente perfetto :D
EliminaIndubbiamente il cartone era tutt'altro, anche di migliore, però questi film ed anche quest'ultimo sicuramente non sono noiosi, ma piacevoli, poi vabbè ognuno ha una sua visione ;)
Grazie per il banner, girare la testa in che senso? Non c'è un otto sì, ma quel sette non è tanta roba :)
Poi leggo il post, ma intanto fammi applaudire al banner ^_^ Il mr. Pickles giapponese! Mitico.
RispondiEliminaAh grazie, comunque sì, esattamente lui ;)
EliminaBodom o come diamine si chiama ce l'ho in lista!
EliminaGli slasher sono un sottogenere horror che guardo sempre volentieri e sono curioso di vedere come vengono mischiate le carte.
Film che aggiungo alla mia lista è "Better Watch Out". Adoro i film di Natale e adoro i film di Natale horror (Black Christimas *_*)
ps Jim Jarmusch con un film di zombie?? :D
L'hanno già fatto comunque in tv, sia Bodom che Better Watch Out, però fai benissimo a recuperare il prima possibile, soprattutto il secondo, davvero fresco ;)
Eliminap.s. Sì, sarà una cosa strana da vedere, ma chissà :)
Mi interessa Better watch out.
RispondiEliminaOh i primi film tutto un 6.
6 6 6 che cazzo sei, l'anticristo? e ancora 6 XD
Da come lo descrivevi, credevo che Belle e Sebastien 3 avesse un voto più alto^^
Moz-
Aspetta, sono anche 6 i film a cui ho dato 6! :D
EliminaSì, poteva sembrare, ma secondo me sono stato coerente ;)
Ah, sì non faresti una cattiva scelta ad interessarti a quel film :)
Molto curioso per il film con Dinklage: lui è bravissimo, e ricordo benone anche il telefilm Fantasilandia dove recitava Villechaize
RispondiEliminaIl telefilm io invece non ricordavo e non ricordo tuttora, comunque non mi ha impedito di gustarmi il film ;)
EliminaBelle e Sebastien 3 lo voglio vedere. Io ho visto il film "In Guerra per amore" al cinema, qui trovi la mia recensione insieme alla serie "La mafia uccide solo d'estate" ➡ http://gattaracinefila.blogspot.com/2016/11/anteprima-della-serie-la-mafia-uccide.html 😊
RispondiEliminaSì, lessi quella recensione, ma come hai visto pur piacendomi non mi ha convinto fino in fondo, però sicuramente riuscito ;)
EliminaE su Belle e Sebastien 3, ovviamente aspetto di leggerne :)
Avevo visto PAterson... non me lo ricordo più bene, ma ricordo la noia
RispondiEliminaE' comprensibile, non faccio fatica a crederti, però non vuol dire sia un brutto film ;)
EliminaVorrei consolarti dicendoti che almeno tu hai ricevuto le uova di cioccolato, io manco quelle anche se ho festeggiato Pasqua due volte ma no che non servirà molto.
RispondiEliminaPer quanto riguarda il tuo post, sei sempre severo ma la peculiarità del post di oggi è che hai assegnato per tutti questi film il voto 6, in diverse sfumature. 😀
In effetti più che consolarmi, sono dispiaciuto per te..
EliminaPiù che severità è oggettività la mia, ammetto comunque che questo post è un po' particolare ;)
sempre tutto interessante il leggerti come già si potesse vedere la pellicola che tu presenti.
RispondiEliminaEscludo Belle e Sebastian, anche se sarebbe la pellicola che più mi sta a cuore anche
perchè affascinata dove le storie di animali sono presenti, ma troppo toccata da malinconie , che aumenterebbero il mio fiume di lacrime
Grazie come sempre mio caro amico
Grazie, anche se è meglio vedere più che leggere ;)
EliminaChissà perché ma non avevo dubbi che avresti reagito così a Belle & Sebastien :)
Come sempre grazie a te ;)
Peccato per i difetti di Belle & Sebastien 2, sul primo concordiamo. Vediamo se sarà lo stesso per questo seguito ma ho il sentore di essere d'accordo con te... sarà per questo che ho rimandato la visione senza troppa voglia.
RispondiEliminaDifetti o meno, vederlo non è assolutamente dannoso, anche questo capitolo ;)
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