Detroit, 23 luglio 1967: una retata della polizia in un locale sprovvisto di licenza per la vendita di alcolici è la scintilla che innesca la rivolta della popolazione afroamericana della città, esasperata ormai da tempo dalle differenze di classe e dalla brutalità della polizia, composta principalmente da agenti bianchi. I disordini continuano per giorni e raggiungono una gravità tale da costringere il governatore dello stato del Michigan a dichiarare lo stato d'emergenza, schierando l'esercito per le strade di Detroit. Il risultato è una vera e propria guerriglia urbana che si concluderà in una carneficina dal bilancio di 43 morti, 1189 feriti e circa 7200 arresti. Eppure sui fatti occorsi la notte tra il 25 e il 26 luglio 1967 presso il Motel Algiers di Detroit non è mai stata fatta chiarezza, al di fuori delle testimonianze di chi quei fatti li ha vissuti in prima persona. Tuttora è infatti tutto avvolto da un velo di omertà, molti aspetti di quello che successe durante quella notte non sono ancora del tutto chiariti e la stessa regista (che torna finalmente dietro la macchina da presa dopo sette anni dall'ultima volta) ammette di essere stata costretta a romanzare (forse troppo) i fatti dell'accaduto. E l'accaduto è un terrificante fatto di cronaca che vide tre afroamericani brutalmente massacrati e uccisi dalle forze di polizia. E a narrare questi tragici eventi sono lo sceneggiatore Mark Boal e la regista Kathryn Bigelow. Dopo The Hurt Locker e Zero Dark Thirty, Kathryn Bigelow ed il suo inseparabile sceneggiatore, il giornalista Mark Boal, scelgono infatti di rappresentare i fatti di Detroit, e questo caso specifico accaduto in una delle più grandi città d'America, nel film omonimo, Detroit, film del 2017, con la capacità di mostrare la verità dei fatti in un film documentario che ha la capacità di presa sullo spettatore come l'escalation emotiva che provoca un susseguirsi di eventi che portano alla risoluzione di un thriller, trascinando così lo spettatore in uno degli episodi più violenti della moderna storia americana. Un episodio, un film però, anche se dal punto di vista politico potrebbe essere uno schiaffo a Trump e le sue "ideologie", che ha lo scopo di far vivere allo spettatore non la piaga del razzismo, ma l'abuso di potere, la violenza che trascina un vortice di altre violenze ed il dramma psicologico che si trascinano le vittime che hanno subito abusi e soprusi. I fatti di Detroit avvengono nell'arco temporale di 5 giorni, ma il film si concentra nello scoppio della Rivolta del Riot (12 th street), l'abuso e la violenza da parte dei poliziotti bianchi verso i ragazzi neri ad un Motel (il famigerato Motel Algiers) e poi al termine della rivolta il processo che lascerà molti insoddisfatti.
Ne viene paradossalmente fuori un film di 143 minuti, dunque un po' elefantiaco e, in qualche caso, ripetitivo, ma un film tuttavia potente ed intenso, un film d'impatto e non moralistico. La forza di Detroit sta infatti parecchio nella potenza della messa in scena e nell'abbandono totale di qualsiasi punto di vista: quella della regista non è una ricostruzione drammatica degli scontri avvenuti tra il 23 e il 27 luglio del '67, ma un film che attraverso la forma filmica del semi-documentario si pone come obiettivo quello di raccontare senza per forza giudicare, senza schierarsi né dalla parte dei carnefici né dalla parte delle vittime. Non a caso nella lunga sequenza di tensione (quella della violenza nel Motel), dove la regia della Bigelow incide maggiormente e, supportata dal montaggio serrato, sottolinea quello che rappresenta il nucleo della vicenda, ognuno dei protagonisti reagisce a modo proprio: c'è chi, come il veterano Greene (Anthony Mackie), da prigioniero subisce le violenze ma senza mai piegarsi, e chi invece, come la guardia giurata Dismukes, si divide tra il tentativo di mantenere l'ordine e la paura di affrontare la realtà. La macchina da presa della Bigelow quindi, che dopo un inatteso prologo animato assume immediatamente contorni più cupi, ci trascina al centro degli eventi, regalando al pubblico la sensazione di essere nel bel mezzo delle rivolte e dei disordini. Lo spettatore è consapevole di essere estraneo a quei terribili fatti, ma a mano a mano che si passa da un atto all'altro del film (idealmente suddiviso in tre blocchi narrativi interconnessi), prende sempre più coscienza di quanto accaduto durante quelle ignobili notti di cinquant'anni fa, in particolare durante la seconda parte, quella che ricostruisce (plausibilmente) le torture subite da un gruppo di ragazzi di colore da parte di alcuni poliziotti razzisti all'Algiers Motel. Motel dove un branco di folli razzisti in divisa (interpretati da Will Poulter, Jack Reynor e Ben O'Toole, e supportata da un'unità dell'esercito insieme alla guardia giurata afroamericana Dismukes, John Boyega) diede vita ad un'autentica carneficina, torturando i presenti a causa di alcuni spari provenienti dalle stanze ai piani superiori. In cerca di un'arma che nessuno trovò mai, gli agenti uccisero tre ragazzi (tra cui Jason Mitchell) e segnarono la vita dei superstiti (tra cui due musicisti, Algee Smith e Jacob Latimore, rifugiatisi all'interno per allontanarsi dai disordini delle strade), finendo a processo. Ed è qui, in un'aula di tribunale (dove una piccola apparizione fanno John Krasinski e Jeremy Strong), che la terza parte prende forma, in sella ad un'evidente ingiustizia figlia di quei tempi ancora schifosamente intolleranti.
E insomma la Bigelow osserva, sbircia, cattura e rivela senza bisogno di ricorrere ad alcuna velatura morale, ma esponendo tutta la violenza così ingiustificata di quelle ore interminabili attraverso movimenti di macchina veloci e sequenze ad altissima tensione che rendono il film un prodotto sintropico capace di catturare lo spettatore e di farlo sentire parte integrante di quei tragici avvenimenti. La regista statunitense non si risparmia in nessun frangente, esponendo la sua versione dei fatti senza alcun tipo di estremismo, puntando ad una ricostruzione spietata e brutale che si avvale di una fotografia nevrotica e smaniosa e una sceneggiatura dura ma imparziale, che punta semplicemente a narrare gli eventi e a tratteggiare personaggi monodimensionali, uomini e donne vittime di un sistema giudiziario fortemente razzista e sessista. Come un pugno diretto allo stomaco, Detroit è un film che parla sì del passato, ma di un passato fortemente ancorato all'attuale società americana, una società ancora flagellata dalla discriminazione razziale nei confronti del popolo afroamericano. In questo senso, il lato più sadico e sporco della violenza ha il volto del giovane Will Poulter (visto nella saga di Maze Runner e in Revenant – Redivivo), attore dotato di una notevole presenza scenica, capace con sguardo lucido di catturare e restituire il lato più spregevole di un'umanità che non accetta e non tollera. Detroit di Kathryn Bigelow (girato principalmente con camera a mano, una scelta stilistica interessante, che ne aumenta il coinvolgimento nello spettatore) è adrenalinico, nervoso, disturbante e a tratti spaventoso per la dirompenza con la quale sussurra allo spettatore che determinate questioni legate all'odio e alla violenza non si sono (purtroppo) ancora risolte. Tuttavia per lunghi tratti enfatico, ma di fatto venuto al mondo al termine di lunghe e dettagliate ricerche, Detroit paga lo scotto di una rappresentazione talmente brutale e dinamica da risultare emotivamente fredda, mentre i tumulti, figli di un'esasperazione causata dall'incessante odio, divampano così rapidamente da perdersi per strada motivazioni e origini. Infatti nonostante la regia curata, dopotutto l'ambientazione è sicuramente il punto di forza del film di Kathryn Bigelow, i tempi narrativi creano una certa confusione rispetto allo scopo del film.
Perché sì, la Bigelow, prima ed unica donna ad aver vinto un Oscar come regista, ricostruisce con forza e in modo efficace il tutto, l'atmosfera evoca infatti una Detroit cupa, angosciante, intrisa di rabbia e odio accumulati da anni di ingiustizie razziali e di invalicabili differenze sociali, la ricostruzione storica poi è molto realistica: dalle auto d'epoca ai vestiti, ai programmi televisivi, fino alla musica, ma una certa monotonia dei dialoghi e un'evidente ripetitività delle situazioni, in alcuni passaggi tendono a creare una ridondanza non proprio gradevole. Dopotutto il cuore espressivo-narrativo di Detroit si svolge tutto (troppo) in ambienti chiusi e claustrofobici, spazi nei quali gli individui fermati dalla Polizia (tra i quali due ragazze bianche) sono minacciati, picchiati, insultati. Perché sì, la regista riesce a costruire un racconto teso, duro e preciso trasformando alcune stanze dell'Hotel in una specie di labirinto demoniaco nel quale i carnefici dispongono a loro piacimento delle loro vittime, il ritmo è dunque serrato, nervoso, e (a tratti) riesce a colpire con efficacia lo spettatore, ma la parte introduttiva, che serve a presentare i personaggi e insieme seminare lo spirito di denuncia, si presenta eccessivamente lunga e ricca di inutili ripetizioni. La sequenza centrale nel motel sembra in compenso non approfondire granché il discorso sugli scontri razziali, preferendo invece dedicarsi (in modo anche un po' compiaciuto) a uno studio delle dinamiche tra vittime e carnefici. Quello che segue è un finale sbrigativo, che non penetra sufficientemente a fondo nella vicenda, lasciando un senso di incompletezza. Infatti, la conclusione processuale che porta all'incredibile "condanna" giunge a chiudere in modo un po' spiccio una vicenda che forse avrebbe potuto trovare un finale più in linea con lo spirito dell'intero film. Eccessivamente sbrigativa è anche una contestualizzazione di tipo culturale (legata alla musica soul e all'epopea della Motown) che viene utilizzata per delineare dei punti di svolta che poco aggiungono all'economia di questa operazione cinematografica, operazione importante ma non bellissima od eccezionale. In definitiva, come spesso accade in campo filmico, Detroit è un lungometraggio certamente basato su un tema cruciale per la storia del concetto di democrazia e per la questione dei diritti civili in Occidente che però oltre il corposo e considerevole argomento non presenta particolari pregi registici, formali ed estetici significativi. Solo una matura professionalità. Voto: 6,5
E insomma la Bigelow osserva, sbircia, cattura e rivela senza bisogno di ricorrere ad alcuna velatura morale, ma esponendo tutta la violenza così ingiustificata di quelle ore interminabili attraverso movimenti di macchina veloci e sequenze ad altissima tensione che rendono il film un prodotto sintropico capace di catturare lo spettatore e di farlo sentire parte integrante di quei tragici avvenimenti. La regista statunitense non si risparmia in nessun frangente, esponendo la sua versione dei fatti senza alcun tipo di estremismo, puntando ad una ricostruzione spietata e brutale che si avvale di una fotografia nevrotica e smaniosa e una sceneggiatura dura ma imparziale, che punta semplicemente a narrare gli eventi e a tratteggiare personaggi monodimensionali, uomini e donne vittime di un sistema giudiziario fortemente razzista e sessista. Come un pugno diretto allo stomaco, Detroit è un film che parla sì del passato, ma di un passato fortemente ancorato all'attuale società americana, una società ancora flagellata dalla discriminazione razziale nei confronti del popolo afroamericano. In questo senso, il lato più sadico e sporco della violenza ha il volto del giovane Will Poulter (visto nella saga di Maze Runner e in Revenant – Redivivo), attore dotato di una notevole presenza scenica, capace con sguardo lucido di catturare e restituire il lato più spregevole di un'umanità che non accetta e non tollera. Detroit di Kathryn Bigelow (girato principalmente con camera a mano, una scelta stilistica interessante, che ne aumenta il coinvolgimento nello spettatore) è adrenalinico, nervoso, disturbante e a tratti spaventoso per la dirompenza con la quale sussurra allo spettatore che determinate questioni legate all'odio e alla violenza non si sono (purtroppo) ancora risolte. Tuttavia per lunghi tratti enfatico, ma di fatto venuto al mondo al termine di lunghe e dettagliate ricerche, Detroit paga lo scotto di una rappresentazione talmente brutale e dinamica da risultare emotivamente fredda, mentre i tumulti, figli di un'esasperazione causata dall'incessante odio, divampano così rapidamente da perdersi per strada motivazioni e origini. Infatti nonostante la regia curata, dopotutto l'ambientazione è sicuramente il punto di forza del film di Kathryn Bigelow, i tempi narrativi creano una certa confusione rispetto allo scopo del film.
Perché sì, la Bigelow, prima ed unica donna ad aver vinto un Oscar come regista, ricostruisce con forza e in modo efficace il tutto, l'atmosfera evoca infatti una Detroit cupa, angosciante, intrisa di rabbia e odio accumulati da anni di ingiustizie razziali e di invalicabili differenze sociali, la ricostruzione storica poi è molto realistica: dalle auto d'epoca ai vestiti, ai programmi televisivi, fino alla musica, ma una certa monotonia dei dialoghi e un'evidente ripetitività delle situazioni, in alcuni passaggi tendono a creare una ridondanza non proprio gradevole. Dopotutto il cuore espressivo-narrativo di Detroit si svolge tutto (troppo) in ambienti chiusi e claustrofobici, spazi nei quali gli individui fermati dalla Polizia (tra i quali due ragazze bianche) sono minacciati, picchiati, insultati. Perché sì, la regista riesce a costruire un racconto teso, duro e preciso trasformando alcune stanze dell'Hotel in una specie di labirinto demoniaco nel quale i carnefici dispongono a loro piacimento delle loro vittime, il ritmo è dunque serrato, nervoso, e (a tratti) riesce a colpire con efficacia lo spettatore, ma la parte introduttiva, che serve a presentare i personaggi e insieme seminare lo spirito di denuncia, si presenta eccessivamente lunga e ricca di inutili ripetizioni. La sequenza centrale nel motel sembra in compenso non approfondire granché il discorso sugli scontri razziali, preferendo invece dedicarsi (in modo anche un po' compiaciuto) a uno studio delle dinamiche tra vittime e carnefici. Quello che segue è un finale sbrigativo, che non penetra sufficientemente a fondo nella vicenda, lasciando un senso di incompletezza. Infatti, la conclusione processuale che porta all'incredibile "condanna" giunge a chiudere in modo un po' spiccio una vicenda che forse avrebbe potuto trovare un finale più in linea con lo spirito dell'intero film. Eccessivamente sbrigativa è anche una contestualizzazione di tipo culturale (legata alla musica soul e all'epopea della Motown) che viene utilizzata per delineare dei punti di svolta che poco aggiungono all'economia di questa operazione cinematografica, operazione importante ma non bellissima od eccezionale. In definitiva, come spesso accade in campo filmico, Detroit è un lungometraggio certamente basato su un tema cruciale per la storia del concetto di democrazia e per la questione dei diritti civili in Occidente che però oltre il corposo e considerevole argomento non presenta particolari pregi registici, formali ed estetici significativi. Solo una matura professionalità. Voto: 6,5
Ciao! è vero che 143 minuti sono tanti… ma l'argomento potrebbe interessarmi. Credo che comunque, come hai sottolineato tu, il realismo sia una delle caratteristiche più importanti.
RispondiEliminaSì, l'interesse c'è, anche perché è una storia che io non conoscevo, ma che è estremamente importante conoscere attraverso proprio questo film, un film certamente reale.
EliminaAddirittura uno dei migliori, beh sì Katrina gira bene, ma gli preferisco gli altri suoi film ;)
RispondiEliminaNon conoscevo il fatto di cronaca a cui fa riferimento questo film, ma come ben sai é troppo lungo per i miei gusti.
RispondiEliminaQuindi non lo guarderei, ma hai fatto bene tu a non perdertelo, perché per gli amanti del genere è sicuramente una pellicola interessante.
Anch'io come detto nel commento più sopra non conoscevo questo fatto, e questo film, che sì, può piacere agli amanti ma anche a tutti (non a te, e giustamente direi), può far luce ed essere particolarmente interessante, non solo storicamente ;)
EliminaPer me uno dei migliori film degli ultimi anni. Devastante come uno schiacciasassi e importantissimo.
RispondiEliminaEccome se lo so, ma da Oscar proprio no ;)
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