giovedì 26 gennaio 2017

Radici (Miniserie)

Dopo tante produzioni davvero accattivanti, History Channel ha pensato bene di rifare il remake di una miniserie storica, ebbene nonostante alcuni piccoli difettucci comunque tranquillamente trascurabili, ha nuovamente sorpreso in positivo, perché Radici (Roots), miniserie televisiva statunitense in quattro parti, prodotta nel 2016, remake come detto della storica serie televisiva (1977 Radici) ispirata al romanzo omonimo firmato dal premio pulitzer Alex Haley che narra la vita di Kunta Kinte, dal suo rapimento in Africa dai parte dei trafficanti di schiavi, fino all'arrivo negli Stati Uniti dove si ritroverà incatenato a lavorare per l'uomo bianco, è davvero bella (a volte spiazzante e sconvolgente), emozionante e soprattutto storicamente interessante nonché spunto di riflessioni importanti. La serie infatti, andata in onda negli Stati Uniti in quattro serate, dal 30 maggio al 2 giugno 2016, durante il Memorial Day, proiettata in anteprima nella sezione Fuori Concorso del Roma Fiction Fest 2016, trasmessa in prima visione dal canale History, della piattaforma satellitare Sky, dal 16 dicembre 2016 al 6 gennaio 2017, come ovviamente ben si capisce, racconta l'annosa questione della schiavitù, una piaga sociale che nonostante il tempo passato e l'abolizione non ha mai smesso di perseguitare l'umanità. Serie che nel 1977 catturò l'attenzione di un'intera nazione e non solo, del mondo intero, tanto che spinse il paese (quello Americano soprattutto) ad un interesse nazionale verso la genealogia e contribuì ad allentare le tensioni razziali. Tutto grazie ad Alex Haley che basandosi sulla storia della sua famiglia, scrisse uno dei romanzi più famosi al mondo (1976 "Roots: The Saga of an American Family"), romanzo che cambiò per alcuni il modo di pensare ottuso di certe persone, anche se purtroppo ancora oggi il razzismo è all'ordine del giorno. Un romanzo che entrò di diritto nella storia, una storia personale della famiglia dello scrittore, le cui vicende erano, sono, profondamente intrecciate con la deportazione e la schiavitù dei neri d'America. E così dopo la celeberrima miniserie originale del 1977, e dopo aver acquisito i diritti dal figlio di David L. Wolper, Mark Wolper, questa nuova miniserie della durata di otto ore, con lo stesso Mark Wolper produttore esecutivo e anche LeVar Burton, protagonista della miniserie del 1977, che figura tra i produttori esecutivi insieme a tanti altri, ecco questo remake che, non cambia la trama originale (conosciuta a molti) ma la dispone da una prospettiva più contemporanea, con un linguaggio nuovo e più vicino alla televisione moderna, permettendo alle nuove generazioni (ma anche alle precedenti) di riscoprire un classico della letteratura e della televisione.
Un classico che sembra quasi un lungo documentario. Documentario che con la scusa della storia della famiglia affronta i vari argomenti, quasi fosse una ricostruzione storica vista da coloro che la storia l'hanno vissuta. La deportazione nelle navi, la vendita degli schiavi, l'allontanamento dalla propria famiglia, la messa in discussione delle proprie origini sono tutti temi affrontati direttamente. Ha uno scopo più didattico che d'intrattenimento, con pochi filtri narrativi. E anche se questa nuova miniserie non ha lo stesso appeal della serie originale, pur essendo ben fatta, e anche se non ha avuto lo stesso impatto, riesce nell'intento, ovvero smuovere le coscienze. Infatti il remake riprende la storia di Kunta Kinte e dei suoi discendenti e la riracconta in un modo più crudo e diretto ai temi della schiavitù e della deportazione dei neri d'America. La sofferenza e la crudeltà difatti si palesa con estremo realismo e durezza, in un nuovo racconto di schiavitù che, come 12 anni schiavo più recentemente ma anche Django Unchained se vogliamo, si contrappone alla pulizia emotiva che Fleming faceva in Via col vento. Negli Stati Uniti poi sappiamo benissimo quanto parlare di razzismo in questo momento storico, in America, non sia affatto scontato. Poiché nonostante episodi di intolleranza si verifichino ovunque dobbiamo ricordare che questa è una storia scritta da e per gli Stati Uniti, quella Virginia in cui Kunta Kinte viene flagellato rappresenta, per estensione, quel sud degli Stati Uniti in cui ancora oggi alcuni bianchi e alcuni neri non riescono a trovare il modo di convivere.
In ogni caso è una storia (di quattro puntate, con quattro punti di vista e quattro diversi registi a dirigerla), utile a tutti, per riscoprire, attraverso quattro generazioni di schiavi della stessa famiglia, l'odissea del giovane mandingo Kunta Kinte (personaggio a metà tra fantasia e realtà), che si oppone al commercio degli schiavi e che lotta per sopravvivere e mantenere intatta la propria identità nonostante le situazioni disumane che si trova ad affrontare, dopo che nel 1750 (a soli 17 anni) viene rapito dal suo villaggio in Africa e trasportato nel Maryland, dove viene venduto come schiavo a un coltivatore che gli cambia il nome in Toby. Proprio nella prima puntata, diretta da Phillip Noyce, che non ci risparmia il fastidio della crudeltà, e con le interpretazioni belle e intense di Forest Whitaker e di Malachi Kirby, a proposito altro punto di forza di Roots è sicuramente il cast che ha preso parte alla miniserie, oltre ai due troviamo Jonathan Rhys-Meyers, Anna Paquin, James Purefoy, Chad Coleman, Laurence Fishburne (volti noti del cinema e della televisione, d'altronde il budget di produzione si è aggirato attorno ai 50 milioni di dollari), che la serie centra nel segno.
Perché Kunta, sapientemente raccontato da Noyce e interpretato magistralmente da Kirby (che sembra trovarsi perfettamente a suo agio nell'interpretare la fisicità del suo personaggio), che non riesce ad accettare questa nuova, orribile condizione, e soprattutto non capisce come mai invece gli altri schiavi attorno a lui sembrino rassegnati o, come nel caso del violinista (Forest Whitaker, The Butler), adagiati, coglie perfettamente tutte le sfumature. Il primo sguardo che Kirby-Kunta getta sugli schiavi che, pur senza catene, lavorano nel campo senza scappare, è impagabile. Poiché anche se oggi della schiavitù crediamo di avere una certa conoscenza, eppure è sorprendente e doloroso vivere con gli occhi (e l'ingenuità) di Kunta l'iniziazione a quel mondo fatto di negazioni, negazione della dignità, della personalità, della libertà e persino del proprio nome. Perché i padroni ti guardano e ti danno un nome, uno nuovo, che non ti appartiene, proprio come si farebbe con un animale da compagnia. Sempre durante la prima intensissima puntata, vediamo come Phillip Noyce indugia sapientemente nel trasporto degli schiavi verso l'America, in un viaggio in mare nella stiva di una nave, viaggio in cui (manco a dirlo) il groviglio di corpi seminudi in catene e il modo in cui questi esseri umani vengono trattati dall'equipaggio sono nauseanti. Ma quella del trasporto non è l'unica sequenza che mette a disagio, il racconto della schiavitù (che nelle ulteriori puntate si farà più pressante e sconcertante) è drammatico, violento, eppure sappiamo benissimo che è stato edulcorato rispetto alla brutalità che davvero caratterizzava (e in alcuni casi caratterizza) la tratta degli esseri umani.
Ma anche e nonostante ciò, la serie funziona, e bene. Serie dove un ruolo di spicco è affidato alla musica. Musica tribale, nel villaggio di cui Kunta Kinte è originario, canti in lingua mandinga attraverso cui gli schiavi comunicano tra loro, una ninna nanna che Kunta ascolta da bambino e che si porta a molte miglia da casa. È una musica che fa parte delle radici, così come il nome che il ragazzo rifiuta di abbandonare. Kunta Kinte rivendica con la propria vita il diritto a mantenere saldo il legame con le proprie radici. Comunque anche e oltre il poderoso complesso di attori, Radici vanta una vistosa ritmicità capace di garantire un'ottima dose d'intrattenimento, con un deciso 'pugno nello stomaco' che appare incisivo, totalmente spregiudicato, mettendo a nudo una tematica ancora oggi molto sentita. Ad equilibrare questo graffiante timbro stilistico, è presente anche una palpabile (e gradevole) sensibilità 'manifestata' dai protagonisti stessi, totalmente in funzione con il duro contesto nel quale sono coinvolti. Il valore intrinseco di Radici è giudicabile anche in base alla sua particolareggiata funzione, il mero concetto di schiavitù accompagnato da un focus filo-culturale su un ben definito contesto pauperistico (fenomeno economico e sociale di estrema miseria). Una 'rivalsa' sulle proprie radici genealogiche, un chiaro abbattimento verso ogni forma di adulteramento dall'esterno. In conclusione, dunque, Radici è un remake che riesce ampiamente e degnamente a perfezionare un prodotto già contemplato e forse in parte dimenticato. A fortificare questa peculiarità c'è poi una valevole fotografia, capace di regalarci scene paesaggistiche non indifferenti e difficilmente dimenticabili. Certo, dalla serie originale sono passati quasi quarant'anni e nel tempo la televisione è cambiata notevolmente, ma questo remake riesce a ritrasmette quegli stessi messaggi in una chiave attuale. Può essere un ottimo punto di partenza per conoscere o ritrovare Kunta Kinte e la sua famiglia. La lotta di un uomo che voleva solo essere libero, libero di vivere come tutti. Voto: 7

6 commenti:

  1. Letto il libro e visto l'originale, ovviamente secoli fa.
    Non sono storie che fanno per me; l'unica altra volta che ho visto qualcosa su negri&negrieri è stata con Django Unchained :)
    Mi fa piacere comunque che abbiano riproposto la storia di Kunta Kinte :)

    Moz-

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    1. Io no ma mio padre sì ha visto l'originale, infatti quando gli ho raccontato di Kunta Kinte ha subito menzionato quello del '77..
      Comunque non è male neanche questa nuova versione :)
      E' un argomento che in America non passa mai di moda...non sarà sicuramente l'ultimo ;)

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    2. Django Unchained spettacoloso... spero non ti sia sfuggito...

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    3. E come avrei potuto? è impossibile! Perché per me è davvero un piccolo capolavoro ;)

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  2. Io l'originale lo ricordo bene... purtroppo direi..ahahah.. questo mi ha colpito di meno.. forse perché troppo deja vu

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    1. Eh vabbé, è normale, ma per me è stata la prima volta e sono rimasto particolarmente impressionato..

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