venerdì 28 giugno 2019

Gli altri film del mese (Giugno 2019)

L'estate è ufficialmente cominciata pochi giorni fa, e sicuramente il caldo ancor si sentirà, per parecchio sfortunatamente sarà. Ma lamentarsi non si può e non si deve però, perché anche se in casa sauna è, a settembre o più in là forse igloo sarà, quindi che parli a fa? Io di certo sto tranquillo, il caldo l'ho sopporto (anche se fino ad un certo punto) e non dico niente, una cosa solo dico, che all'onomastico io ci tengo. Onomastico che domani sarà, che arriverà dopo Antonio, Vito e Giovanni (a tal proposito tanti auguri passati a chi non ho dato), ma anche Paolo sarà insieme a Pietro. Ah Pietro, chi ancora non sa, tra tre settimane o poco più, questo mio mondo quattro anni farà, e festa sarà. Una grande festa in cui verrà svelato finalmente il mio progetto, progetto che a conclusione arriverà, anche se non tutto terminerà già. Ma a questo poi si penserà, nel frattempo io sempre continuerò a proporvi novità, tra tag, musica e cinemà. Non vi resta quindi che aspettà, tanto il tempo veloce passerà.
Il libro di Henry (Thriller, Dramma Usa 2017)
Tema e genere: Un giallo capace di strapparvi qualche sorriso e un paio di lacrime.
Trama: Henry scopre che la sua compagna di classe Christina subisce maltrattamenti dal parte del patrigno. Escogita un piano per liberarla, ma verrà interrotto dalla scoperta di un nemico ben più insidioso.
Recensione: A metà tra Gifted e Wonder, nel primo un bambino, anzi bambina, prodigio, nel secondo la presenza di Jacob Tremblay, ma entrambi sensibili, dolci e belli, Il libro di Henry è un film drammatico con venature thriller, ugualmente emozionante e bello, anche se meno potente e più discontinuo. In questo film infatti, se la situazione iniziale compone un panorama in cui nulla sembra essere al proprio posto, nel corso della vicenda quella che era iniziata come una commedia famigliare si tratteggia sempre più di tinte thriller, per poi sfociare in un mix drammatico: i twist narrativi sono arditi e le dinamiche di relazione tra i personaggi accattivanti. Difatti il film sin dalla prima sequenza della presentazione del giovane Henry gioca sull'espediente dello sconvolgimento dei ruoli sociali e dei caratteri attribuiti ai singoli tipi. Henry viene tratteggiato non solo come un ragazzo prodigio, ma come un uomo già con la maturità e i comportamenti equilibrati di un padre, che sembrerebbe sapere ciò che è giusto per sé e soprattutto per la sua famiglia, sua madre Susan, donna affettuosa ma distratta, si affida in tutto alle competenze del figlio che adora, Peter, fratellino meno dotato ma dolcissimo, sembra l'unico a ricoprire un ruolo convenzionale, amorevole mediazione tra la madre svagata e il figlio maturo. Questi tre ingredienti, miscelati con le caratteristiche dei tre protagonisti, creano l'ossatura del film. Ed è per questo che è facile percepire talvolta un evidente senso di discontinuità, come se il prodotto di Colin Trevorrow fosse collage di tre storie a sé stanti, che potrebbero svilupparsi in film differenti. Con qualche furbizia cinematografica il film fa dei bambini e ottimi attori (Jacob Tremblay nei panni di Peter e Jaeden Lieberher in quelli di Henry) il proprio punto di forza in modo un po' ruffiano, spesso trascurando l'approfondimento dei rapporti tra i protagonisti: così il legame tra la Susan e il figlio minore non raggiunge mai una profondità tale da dare coerenza all'evoluzione del personaggio di Naomi Watts, che si porta avanti stancamente fino alla svolta delle sequenze finali. Pure in questo equilibrio precario la sceneggiatura osa al punto giusto, e questo scavalcamento di generi così ardito riesce a non deflagrare. Lo stratagemma ideato per la risoluzione del filone thriller, che scioglie poi anche tutti gli altri nodi narrativi, si mescola con il dramma dell'elaborazione del lutto, fornendone una declinazione non banale e a tratti commovente, pure nella dichiarata incoerenza di alcuni comportamenti dei protagonisti. Ed è nelle ultime sequenze che con sorpresa ricongiungiamo i percorsi fin qui tracciati dal regista, che vuole in fondo mostrarci la storia di formazione della madre-Susan, di come diventare adulti voglia dire non solo prendersi le responsabilità delle proprie azioni, ma anche dare giusto valore ad ogni cosa e prendere sulle proprie spalle le piccole debolezze di coloro a cui si vuol bene. In questo modo ogni cosa torna al proprio posto e quel plautino sconvolgimento di ruoli iniziale si raddrizza in sequenze pregne di tensione, che si sciolgono poi con un desiderato (e molto americano) lieto fine. E lieto resta però anche l'animo dello spettatore, nella consapevolezza di aver visto un'opera che forse non riesce ad uscire dall'incasellamento dei generi americani, ma che ha almeno la capacità di non bearsi dell'uso smodato dei suoi cliché. Ideando, anzi, strategie accattivanti per catturare lo spettatore e trasportarlo in un universo narrativo di puro intrattenimento.
Regia: Il film è il terzo lungometraggio del regista statunitense Colin Trevorrow, il primo dopo il kolossal uscito due anni fa, Jurassic World. Per Trevorrow è un ritorno alle origini, visto che la sua opera è stata caratterizzata, almeno finora, da una commedia (che non ho visto, Safety Not Guaranteed), un documentario e un cortometraggio. E il risultato non è affatto disprezzabile, anche se quasi scompare nell'economia del film, caratterizzando poco o niente le inquadrature o i movimenti di macchina e limitando la sua presenza a un paio di trovate interessanti, capaci di riportare immediatamente lo spettatore dall'allegria di una favola leggera a un'inquietante tragedia.
Sceneggiatura: Scritta da Gregg Hurwitz, essa ha troppi passaggi diversi, sono parecchie le differenze di tono, tuttavia come detto, riesce nell'intento osando al punto giusto. Riuscendo nonostante alcuni diffettucci a farci ben immedesimare ed intrattenere.
Aspetto tecnico: Le musiche del compositore Michael Giacchino (ormai un maestro) aiutano lo svolgersi dell'azione, rendendo meno ostico il finale, quando il conflitto viene risolto in maniera troppo semplicistica. Egli in qualche modo riequilibra le mancanze del regista, evidenziando il pathos ove necessario e dando la linea ad alcune scene che altrimenti sarebbero state certamente meno incisive.
Cast: Le interpretazioni dei due attori principali, Jaeden Lieberher e Naomi Watts, sono molto intense e credibili: se il giovane interprete è una sorpresa, riuscendo a rendere autentico e veritiero il personaggio del serafico genio, Naomi Watts è un'ulteriore conferma e appare ancora più forte nel ruolo di madre, grazie alle prime rughe che caratterizzano ulteriormente il suo viso. I comprimari non sono da meno, con un Dean Norris (l'Hank di Breaking Bad, ma non solo) sempre a suo agio nella parte dello sbirro ridanciano ma sottilmente inquietante, e il piccolo Jacob Tremblay che porta benissimo sulle spalle l'atteggiamento e la bravura dell'attore consumato, pur avendo poco più di dieci anni.
Commento Finale: Bene la prima mezz'ora, interessante il caso del bambino geniale e di come il peso di un'intelligenza travolgente si senta fin da piccoli, generando un senso di pesantezza e responsabilità verso chi ne ha meno, come la madre. Poi il film si siede un po' e infine svirgola forse troppo nel melodramma. Il film di Trevorrow, comunque, non annoia, offre una visione sufficientemente godibile, anche se, tirando le somme, offre anche il fianco a diversi aspetti negativi a livello di sceneggiatura, inficiando un risultato che poteva essere anche migliore. In ogni caso film che, con la sua innegabile capacità di mischiare efficacemente la favola con il thriller, riesce ad emozionare ed intrattenere.
Consigliato: Ingiustamente etichettato come film "brutto" e pessimo, ed invece film che consiglio, anche se è necessario sorvolare su certe cose.
Voto: 6
Paolo - Apostolo di Cristo (Dramma, Usa 2018)
Tema e genere: Film biblico che narra l'ultimo periodo di vita di Paolo di Tarso, ebreo osservante, cittadino romano e fiero persecutore dei cristiani prima della sua conversione al cristianesimo.
Trama: Paolo di Tarso, in prigione in attesa della condanna dai romani, riceve le visite dell'evangelista Luca cui detta le sue memorie.
Recensione: Dopo la storia di Maria nel film Piena di Grazia (film che non ho visto, anzi, l'ho scartato a priori), il regista Andrew Hyatt, decide di raccontare della turbolenta vita di Saulo/Paolo prima persecutore dei Cristiani e poi epistolario dal carcere, appunto Romano, a causa della sua Fede. La figura di Paolo, ormai anziano e segnato dalle punizioni corporali subite, viene presentata come quella di un uomo saggio che ha trovato, dopo l'apparizione sulla via di Damasco, una forza interiore che alimenta il carattere forte di un uomo che è passato dall'uso della violenza alla comprensione del potere che ha l'amore. Qualche flashback ne racconta la storia, questa storia, in maniera frammentaria. Una storia di grande interesse storico e non solo religioso, in un'opera con praticamente due soli protagonisti (anche se non sono gli unici), protagonisti di una pellicola per niente edulcorata (almeno non troppo), che riesce ad intrattenere senza mai rischiare accenti predicatori. Una pellicola che dispone di alcuni attori di grosso calibro, a cominciare da Jim Caviezel, che fu il Messia ne La passione di Cristo di Mel Gibson e che qui fa da "spalla" (ma in certi momenti il suo ruolo è quasi predominante), nei panni di san Luca e da James Faulkner, che dopo una vita da "non protagonista" in film e serie tv ha per la prima volta il ruolo principale, e anche di grande spessore. Il suo san Paolo è sofferto ma lucido e appassionato, e la sceneggiatura disegna un'amicizia tra uomini segnati dalla fede che è il tratto migliore del film. Un'ottima interpretazione la sua. Meno riuscita la caratterizzazione dell'antagonista, il romano/prefetto Mauritius (Olivier Martinez), che passa dalla durezza del persecutore alla curiosità verso un uomo così amato dal suo popolo, e della comunità dei cristiani dove la saggezza di Aquila e Priscilla (interpretati da due attori esperti come John Lynch e Joanne Whalley) si scontra con le intemperanze di chi vorrebbe fare la rivoluzione come il giovane Cassius (un acerbo Alessandro Sperduti, giovane attore italiano visto finora in commedie di scarso livello). Paolo - Apostolo di Cristo non è quindi esente da difetti, tuttavia proprio le buone interpretazioni, il non spingere troppo l'acceleratore su accenti predicatori, ma anche la sua semplicità d'approccio unita al disegno di un'amicizia vera, fanno di questo film un film riuscito, un film non eccezionale (però ben fatto) ma in grado di intrattenere, appassionare e coinvolgere sufficientemente.
Regia: Hyatt, bisogna ammetterlo, è regista che pigia il pedale sull'enfasi e che si vedrebbe meglio alle prese con una decorosa fiction televisiva di stampo religioso, genere che questo film può ricordare a tratti. Tuttavia fa il suo, e lo fa egregiamente.
Sceneggiatura: Se si dà per scontato che in opere come questa non ci si possa esimere da una parte di sceneggiatura che è pura finzione (la vicenda del prefetto che ha una figlia gravemente ammalata ma che non se la sente di chiedere l'aiuto di Luca perché la moglie disprezza i cristiani) per il resto il film riesce a rendere con efficacia (anche se con un eccesso di colonna sonora musicale) la situazione dell'epoca. Ciò accade in particolare per quanto riguarda le tensioni che attraversavano la comunità dei cristiani dove più d'uno, dinanzi ai fratelli trasformati in torce umane, era pronto ad impugnare la spada.
Aspetto tecnico: Niente di particolare da segnalare, qualità standard, che comunque è già tanto.
CastJim Caviezel, in attesa di ritornare ad interpretare Gesù per il film di Mel Gibson sulla resurrezione, si riavvicina alla predicazione di Cristo interpretando uno degli evangelisti, Luca, e lo fa bene. Bene anche tutti gli altri, a partire ovviamente da un perfetto James Faulkner.
Commento Finale: I flashback, le frasi a effetto, i didascalismi possono catturare un pubblico semplice come allontanare chi al cinema cerca qualcosa di più. Il film si fa però apprezzare, come detto, per la sua semplicità di approccio e per alcuni dialoghi tra san Paolo e a san Luca, contrassegnati dalla loro "santa" amicizia e da una fede che regge all'urto della storia e delle circostanze più tragiche, ma anche tra Paolo e il prefetto. E se anche il finale ha più di un punto che lascia perplessi (Paolo agli "arresti domiciliari", prima di essere giustiziato?), potrà comunque risultare nel complesso ben fatto e a tratti, per qualcuno, perfino toccante se non commovente. Tanto che a Maria Maddalena gli fa certamente un baffo.
Consigliato: Sempre complicato con questi tipi di film consigliarne la visione, tuttavia bisogna comunque tener conto che questo è pur sempre un film storico, e se questi ultimi vi interessano, non potete perderlo. Stando attenti però a non aspettarvi tanto e troppo.
Voto: 6
Happy End (Dramma, Francia 2017)
Tema e genere: Selezionato per partecipare al concorso del Festival di Cannes 2017, senza portare a casa niente, e selezionato per rappresentare l'Austria ai premi Oscar 2018 nella categoria Oscar al miglior film in lingua straniera, senza riuscire a rientrare nella cinquina finale, Happy End, che segna il ritorno di Michael Haneke dopo anni di assenza, è un film drammatico che indaga tra i rapporti affettivi e/o anaffettivi dei membri di una famiglia della buona borghesia francese, descrivendone le sofferenze, le depressioni, i desideri di morte, e scoprendone le perversioni. Ognuno della famiglia ha infatti una sua sofferenza profonda più o meno palese.
Trama: I Laurent sono una ricca famiglia borghese che vive a Calais. L'anziano patriarca Georges, stanco persino della vita, ha ceduto la gestione dell'azienda familiare alla figlia Anne, che deve fronteggiare le conseguenze di un grave incidente occorso ad uno degli operai. Il fratello di lei, Thomas, è un medico stimato che deve dividersi tra la figlia di prime nozze, la sua seconda moglie e l'amante. Parallele ad una quotidianità che impone loro impegni, ruoli e funzioni, si sviluppano le vicende personali dei familiari, ciascuno con i propri corsi (e ricorsi) esistenziali.
Recensione: Happy End, come detto, segue le vicende della ricca famiglia dei Laurent: sotto l'apparente immobilismo e perbenismo, covano le tensioni, i segreti ed i disagi tipici della famiglia secondo Haneke. Il regista torna a raccontare le vicende della borghesia, con il consueto stile distaccato ed oggettivo. Il tono del film è infatti piuttosto freddo, distaccato, i passaggi molto lenti, la fotografia è esteticamente pregiata, i temi trattati sono quelli classici dell'autore austriaco. I personaggi sono quindi e sostanzialmente anaffettivi e apatici, il male e la violenza che ne consegue non è esibita, ma suggerita e fatta appena intravedere, ma è come sempre centrale, nei lavori del regista austriaco, declinato fra famiglie disfunzionali, avvolte da un nichilismo esasperato, i bambini, non sono innocenti, gli adulti sono cinici, Eve a chiusura del film aiuta il nonno a suicidarsi, peraltro lo stesso nondimeno, con candore confessa, di aver aiutato la moglie a morire. Attraverso una narrazione frammentaria, il regista prova a comporre così il mosaico di una storia familiare, tra disagi esistenziali e vizi vari, scheletri nell'armadio, che conviene lasciare lì. L'assemblaggio dei tasselli è solo parzialmente riuscito, alcune figure restano in ombra, sostanzialmente tagliate fuori dal nucleo della storia, tuttavia gli spunti di riflessione sono tanti. I social media, diventano più protagonisti degli attori stessi, in particolare i servizi di live streaming e messaggistica istantanea, che in più di un'occasione sono il mezzo attraverso cui si segue la narrazione, l'elemento fondamentale è lo schermo, quello di un cellulare, di un tablet, o di un computer. Haneke ci mostra come il monitor filtrandole, annulla le emozioni: l'uccisione del criceto o quella della madre, diventano azioni quasi normali, nel passaggio alla dimensione digitale, la realtà virtuale fa perdere la valenza emotiva, con l'inserimento di frasi, caption, emoticon. L'occhio del regista sembra voler testimoniare e stigmatizzare, l'arrivo di un nuovo livello oscuro, della realtà. La questione migranti sembra un'appendice, relegata in calce alla storia non riesce a farne parte, poco integrata al narrato, cosi come la questione umanitaria. Film perciò diradato, lento, a tratti perfino snervante ed estenuante, ma che malgrado questi limiti, costituisce un'opera degna d'interesse ed originale.
Regia: Come ogni autore, Michael Haneke ci immerge nel suo universo tematico e stilistico (temi e sotto-temi tipici della sua filmografia): una famiglia borghese, dei protagonisti glaciali, campi lunghi, piani-sequenza, totale assenza di musica. Tutti mezzi impiegati per evidenziare (e bene) la cruda realtà quotidiana: il "marchio Haneke" è inconfondibile, merito anche della fotografia, impeccabile come sempre.
Sceneggiatura: La pellicola si muove su un doppio binario: da un lato, una borghesia isolata nel proprio sfarzo, dall'altro, il mondo, che segue le sue logiche. Non tutto sembra integrato alla perfezione, ma indubbiamente il piano d'insieme funziona. Perché certo, il tema sul rapporto con i media è affrontato in modo un po' forzato (difficile immaginare una ragazzina tanto insensibile di fronte a certe scene di morte), ma la metafora della crisi del Mondo occidentale, della cultura europea e della famiglia fa presa.
Aspetto tecnico: Già detto della fotografia, tutto il resto è ugualmente impeccabile, anche se la totale assenza di musica a volte è controproducente.
Cast: Haneke ci mostra, con il consueto distacco, tutte le tensioni dei Laurent. Ottiene grandi interpretazioni da tutti gli attori. Bravissima Isabelle Huppert, glaciale direttrice e figura cardine della famiglia, ma buonissime sono anche le prove di Jean-Louis Trintignant e della piccola Fantine Harduin, l'alfa e l'omega dei Laurent. L'anziano e la ragazzina sono gli unici a mostrare una certa umanità, i soli con i quali è possibile una, seppur minima, immedesimazione. Certo, restano pur sempre personaggi hanekiani, a tratti indecifrabili ed inquietanti. A parte loro, il film tratteggia in maniera caricaturale gli altri personaggi, che somigliano più ad un club che ad una famiglia (tra questi Mathieu Kassovitz).
Commento Finale: In verità ci si aspettava qualcosa in più, forse perché il maestro austriaco ci ha abituati (forse troppo bene) ad opere più rigorose e, per certi versi, anche più complesse, ma seppur la caratterizzazione dei personaggi pare talvolta forzata, e una carente integrazione degli spunti narrativi tolgono incisività al film, il suddetto è comunque tecnicamente di grande livello. Suddetto sicuramente da vedere, certamente non perfetto, ma comunque riuscito e di buon impatto, che, probabilmente, sconta l'unica colpa di venire dopo due opere del calibro de Il nastro bianco e Amour.
Consigliato: Sì, a chi conosce il cinema di Haneke, e a tutti gli altri che dovrebbero invece conoscerlo.
Voto: 6+
Cosa dirà la gente (Dramma, Norvegia 2017)
Tema e genere: Film drammatico molto potente che tratta l'emancipazione femminile di una ragazza pakistana che non riesce a divincolarsi dalle costrizioni della sua famiglia in Norvegia come in Pakistan.
Trama: La quindicenne Nisha vive una doppia vita. A casa, a Oslo, obbedisce alle tradizioni e ai valori della sua famiglia pakistana ma, appena fuori, si trasforma in una tipica adolescente norvegese. Un giorno, però, i suoi due universi si scontrano brutalmente quando il padre la sorprende a letto con il fidanzato norvegese. Segregata dai genitori, sarà costretta ad andare a vivere in Pakistan, dove superate le paure iniziali inizierà a vedere in maniera inedita la cultura dei suoi genitori. E quando laggiù, dopo tante sofferenze, si apre una possibilità con un altro ragazzo (un cugino…), le cose andranno anche peggio.
RecensioneCosa dirà la gente racconta un singolo episodio che, tuttavia, è manifesto di molti altri che quotidianamente accadono nel mondo. La regia emozionale di Iram Haq (che conosce bene la materia, la vicenda narrata è in parte autobiografica, e si sente non per caso l'afflato sincero con cui racconta la terribile parabola di violenze e umiliazioni subite dalla protagonista), i cui sentimenti traspaiono sullo schermo, tangibili e quasi palpabili, si snoda precisa e silenziosa tra i suoi protagonisti in un triste viaggio che, molto spesso, porta all'annullamento di una libertà naturale, qui fortemente negata. Non senza difetti, pressoché ascrivibili ad alcuni momenti della narrazione stessa, Cosa dirà la gente centra due obiettivi importanti: raccontare una storia personale e portare ad una più profonda riflessione su un tema ancora fortemente attuale. Il film infatti, mette in scena perfettamente il contrasto culturale e sociale tra l'occidente e l'oriente. L'apertura mentale di un paese moderno come la Norvegia e la chiusura sociale e familiare di un paese come il Pakistan. Il ruolo famigliare, centrale nel film, si mostra il contrario di ciò che dovrebbe in realtà essere, sicuramente secondo le idee della società e cultura occidentale: non è un nido d'amore, un luogo di protezione per Nisha, ma tutt'altro, è una prigione che non le permette di vivere come vorrebbe e come dovrebbe. Il rapporto della protagonista, interpretata da una bravissima ed emergente Maria Mozhdah, con suo padre, interpretato da Adil Hussain, è tangibilmente morboso e paradossale. Suo padre, rigido e severo nelle sue concezioni culturali, dimostra un amore malato verso una figlia che, pian piano, vede scivolare via anche quella libertà di pensiero che porta questi paesi a creare una forte gerarchia anche, e soprattutto, in base al sesso. La donna non ha potere, non sceglie ed è sottomessa. Certo, il film sembra un po' schematico nel proporre questa torsione degli avvenimenti in una spirale da incubo, tanto che viene ogni tanto da dubitare del realismo degli stessi, come pure di molti personaggi, proposti senza alcuna sfumatura, ma le cronache sono piene di tragedie anche peggiori, e appunto sapere che la storia è stata vissuta in prima persona dall'autrice toglie ogni dubbio: sicuramente Cosa dirà la gente offre un contributo onesto e sincero nel definire gli orrori cui può arrivare il fanatismo musulmano (mentre la tradizione religiosa in sé non è mai contestata dalla ragazza, che pure non sembra molto fervente), e in generale il considerare i figli appunto una proprietà "privata". Soprattutto davanti alla considerazione altrui: è sempre il discredito sociale, il pensiero del giudizio degli altri, appunto della "gente", a corrodere dall'interno i rapporti di questa famiglia. E se cinematograficamente la regista si limita a impaginare gli eventi, con pochi guizzi, riesce però a rendere bene l'angoscia crescente della ragazza. Tra tanti personaggi comunque rigidi nelle loro motivazioni e atteggiamenti, colpisce una madre dura fino alla negazione di ogni affettività, che con tranquillità propone un matrimonio via Skype che porterebbe la figlia dall'altra parte del globo (in Canada), e soprattutto la figura del padre, che nel bel finale acquista una statura drammatica più definita. Tanto da non avere più le forze per reagire all'ultima ribellione di Nisha, forse in un improvviso, seppur tardivo, soprassalto di coscienza e amore per la verità. E insomma film potente, interessante e sufficientemente riuscito.
RegiaIram Haq si rivela quindi come un'attenta indagatrice dei rapporti umani e delle dinamiche famigliari morbose, per ora è promossa quasi a pieni voti, se non fosse per quello scomodo fantasma di stereotipizzazione culturale che si agita su almeno due o tre sequenze del film.
Sceneggiatura: La regista è anche la sceneggiatrice, ed egli grazie forse a ciò, riesce a proporre questa storia in modo ineccepibile, un pugno nello stomaco. Se ne esce infatti un po' storditi e affranti (claustrofobico e opprimente soprattutto nella seconda parte), seppur di vite così ce ne siano state tante altre sia nella realtà quotidiana delle news che al cinema. Insomma script d'impatto, anche se qualche crepa s'intravede qua e là.
Aspetto tecnico: Se la sostanza c'è e si vede, la forma lascia un po' a desiderare, anche se il livello è comunque alto, fotografia e colonna sonora in primis.
Cast: Ottimi attori, come il padre Adil Hussain (Il fondamentalista riluttante, Vita di Pi) e la figlia protagonista Maria Mohzadh, quest'ultima che cambia anche fisicamente durante il suo calvario emotivo, riuscendo a trasmettere bene il suo senso di disagio.
Commento Finale: Impacchettato perfettamente, la pellicola alla fine risulta in verità un po' algida nel complesso, come se fosse un film troppo calcolato e cerebrale, pure parlando di libertà, amore ed emozioni, queste ultime non si lasciano fluire del tutto allo spettatore. Freddo come la Norvegia dove è stato fatto. Ma è innegabile non dare alla pellicola i suoi meriti, di un film capace di scandagliare a dovere il tema, capace di far riflettere lo spettatore.
Consigliato: Direi consigliato, con un finale privo di parole, disperato e per niente consolatorio.
Voto: 6+
Jane Fonda in Five Acts (Documentario, Usa 2018)
Tema e genere: Documentario HBO, presentato durante il Sundance Film Festival e Cannes 2018, sull'attrice due volte premio Oscar (Una squillo per l'ispettore Klute e Tornando a casa) e Leone d'oro alla carriera 2017.
Trama: La regista Susan Lacy ricostruisce la vita e il lavoro di una vera icona americana, che ha sempre rifiutato ogni etichetta e si è dimostrata avanti con i tempi: Jane Fonda. Tutto questo tramite appunto questo documentario che, suddiviso in cinque atti, cinque momenti o sarebbe meglio dire cinque personaggi (in ultimo Lei), racconta come quest'ultimi abbiano contraddistinto e segnato profondamente la vita dell'attrice premio Oscar.
Recensione: Jane Fonda è stata sia la ragazza della porta accanto che un seducente oggetto del desiderio: è stata attrice ma anche regina del fitness, oltre che attivista politica. La sua carriera è stata costellata di successi ma in questo documentario racconta anche i suoi dolori privati: dalla sofferenza per il suicidio della madre ai tre matrimoni passando per i disturbi alimentari che l'hanno accompagnata per 30 anni. L'elemento che fa del lavoro di Susan Lacy una miniera preziosa di informazioni e una straordinaria occasione per riflettere sul nostro passato più o meno recente è costituita dal fatto che siamo di fronte a una biografia autorizzata. È infatti l'attrice in persona che ci guida attraverso le tappe della sua vita che sono segnate dagli uomini con cui si è relazionata e nei confronti dei quali ha comunque sempre vissuto un bisogno di compiacere che l'ha spinta ad occultare, in misura più o meno ampia, il proprio vero sentire. Mentre ripercorriamo la sua carriera e le lotte che ha combattuto in difesa dei diritti civili e, in primis, contro la guerra nel Vietnam il leitmotiv ritornante è quello che vede tutta la sua esistenza segnata dal difficile rapporto con suo padre Henry e con il conseguente senso di inadeguatezza che l'ha portata anche a pensare di essere corresponsabile del suicidio materno. Da questo al pensare di non essere stata una buona madre per i due figli avuti rispettivamente dal regista Roger Vadim e dall'attivista pacifista e uomo politico Tom Hayden. L'impianto rigorosamente cronologico di una narrazione ricchissima di materiali privati e di repertorio si apre provocatoriamente con una registrazione di un dialogo in cui Richard Nixon constata che la figlia di un simbolo come Henry Fonda abbia imboccato la strada sbagliata dell'attivismo anti guerra nel Vietnam. L'attrice avrà modo in futuro di chiedere scusa a quei militari che può avere involontariamente offeso con la sua foga da pasionaria dell'epoca così come riesce a spiegare le apparenti contraddizioni di una donna impegnata che ottiene uno straordinario successo editoriale promuovendo l'aerobica e di una paladina degli emarginati che sposa un miliardario come Ted Turner. Ma ciò che più conta, è necessario tornare a sottolinearlo, è che si assiste a un lungo ma mai noioso flashback di una ottantenne che non ha paura di confessare i propri dubbi e di guardare al passato con grande lucidità. Una discreta insomma ricostruzione su una donna famosa in tutto il mondo.
Regia: Dopo il bellissimo documentario Spielberg, ovviamente dedicato al grande regista, Susan Lacy ne propone un altro, questo, non ugualmente bellissimo, ma comunque di grande interesse e ben diretto.
Sceneggiatura: Nei cinque atti raccontati sullo schermo vediamo alternarsi immagini di repertorio e aneddoti incredibili, in mezzo parecchi flashback, forse troppi e particolarmente lunghi, come lungo è forse il film, ben 2 ore, anche se, visto la vita burrascosa, è giustificabile.
Aspetto tecnico: Essendo un documentario lo stile è completamente diverso dall'impianto cinematografico, comunque tecnicamente è ben fatto.
CastJane Fonda in Five Acts è un documentario impreziosito da tante interviste ai personaggi più svariati, da Robert Redford, Lily Tomlin, alla produttrice Paula Weinstein e agli ex-mariti Tom Hayden e Ted Turner. Ognuno di loro aiuta a tracciare il percorso di vita e lavorativo di Jane Fonda, ma ovviamente non manca la sua voce.
Commento FinaleJane Fonda in Five Acts non è solo un documentario, è un'immersione totale all'interno di una carriera, una vita burrascosa e sempre in divenire di un'attrice monumentale, una donna che è impossibile definire, che ha sempre rigettato le sovrastrutture e le etichette, magnetica, vulnerabile, spesso contrastata e al centro di polemiche per il suo attivismo, ma che ha condotto con ostinazione e con sguardo lucido (che finalmente ad un certo punto si rende conto di essere pronta a guidare il proprio destino, di poter interpretare l'unico ruolo possibile, quello di se stessa). Tuttavia documentario più o meno, viaggio interessante ed appassionante, non eccezionale al pari di altri, ma comunque bello, sia storicamente, culturalmente che umanamente.
Consigliato: Vale la pena di vederlo, per capire non solo lei, ma soprattutto il cinema e il suo rapporto con la storia e la politica del '900.
Voto: 6,5
Green Room (Thriller, Usa 2015)
Tema e genere: Thriller claustrofobico ambientato in una green room che segue i tipici snodi da survival movie.
Trama: Dopo lo scarso successo commerciale della loro tournée itinerante, una giovane punk band viene indirizzata verso il rave party nello sperduto locale alternativo frequentato da una numerosa comunità neonazista. Testimoni involontari dell'omicidio di una giovane spettatrice però, saranno trattenuti contro la loro volontà e dovranno ingaggiare una dura lotta per la vita.
Recensione: Ogni tanto ti capita di vedere un film che potresti definire quasi "anonimo" e che poi si svela una gran bella sorpresa. E' sicuramente il caso di questo Green Room, un film che ho visto molto volentieri e che devo dire mi ha coinvolto dall'inizio alla fine. Pensavo infatti di trovarmi di fronte al classico filmetto da quattro soldi senza sostanza e invece mi sono ricreduto, Green Room è difatti un film che regala sicuramente attimi di tensione e non annoia minimamente. Un film che pur non scavando mai nel profondo delle ideologie politiche mostra la crudeltà, la follia e la voglia di non fallire per nessun motivo al mondo dei nazisti, un film che solo apparentemente può apparire "già visto", ma che non lo è. Se infatti la trama (o il canovaccio se si preferisce) può essere quella di tantissimi altri film di questo genere, il contesto non lo è per niente e il regista nonché sceneggiatore riesce a creare un'atmosfera del tutto originale grazie ai dialoghi e alla situazione improbabile che si viene a creare. Utilizzando i nazisti (cattivissimi senza se e senza ma) non si hanno dubbi chi siano i buoni e chi no, anche se tutto alla fine diventa nebuloso e le carte si confondono proprio per via dei rapporti umani tra le persone, l'omicidio iniziale diventa così quasi un pretesto per una fase di crescita per i 2 protagonisti finali e per una resa dei conti tra i nazisti, una resa dei conti alquanto scontata ma comunque buona e d'effetto. Unica vera vittima innocente di tutto, come spesso accade, è il cane che sposta notevolmente l'ago della bilancia su chi sia veramente buono e chi no. E quindi il punto sta nel fatto che è girato molto bene e ha un ritmo che è totalmente capace di rapire e coinvolgere lo spettatore. Io personalmente non mi sono annoiato neanche un secondo a vederlo, la voglia di sapere se questi ragazzi alla fine riusciranno a salvare la pelle è tanta, e fino alla fine rimani incollato allo schermo. Questo è quello che un film di questo genere dovrebbe fare, un buon film oltre ad essere girato bene, oltre ad essere ben recitato e tutto il resto deve saper coinvolgere e deve saper coinvolgere dall'inizio alla fine. Green Room è un film di sopravvivenza alla fine, è un film che gioca tutto sulla tensione più che sui colpi di scena e nel suo intento riesce alla grande, anche se questa lotta per la sopravvivenza rivela comunque un potenziale inespresso, con una maggiore accuratezza infatti sarebbe potuto essere decisamente migliore. Perché alla fine dei conti non lascia molto e alla fine si tende più a pensare agli aspetti negativi che altro, ricorrendo troppe volte al "Ma se qui avessero fatto così..." o al "Ma dai come è possibile?" o al "Ma perché dai...?". Un film quindi più che sufficiente nel complesso, ma non di più, che tuttavia non mi pento affatto di aver visto.
Regia: Asciutta, senza troppi indugi sulle scene splatter, ma che sa dosare propriamente i tempi e i modi per le scene più cruente. La pellicola per questo gira bene, anche perché sotto certi punti di vista può avere anche un qualcosa di Carpenteriano alla base, la cosa non è affatto da sottovalutare perché se un regista (in questo caso Jeremy Saulnier, che merita attenzione in futuro) va a pescare qualcosa dai grandi maestri sicuramente è un regista che ha buon gusto e che ha capito come un certo tipo di cinema deve essere impostato.
Sceneggiatura: La storia si fa subito piuttosto interessante e oggettivamente c'è curiosità per la piega che il film minaccia ben presto di prendere. Peccato però che la parte centrale risulti piuttosto noiosa e infarcita di luoghi comuni, confusione e situazioni forzate che gli fanno senza dubbio perdere punti. Verso il finale si riprende piuttosto bene con un crescendo di tensione che a mio modo di vedere trova la sua massima esasperazione nella figura dei cani. Apprezzabile poi come nel giro di poco cambiano spesso i ruoli tra preda e cacciatore, situazione che già avevo visto ma che funziona sempre.
Aspetto tecnico: L'ambiente punk viene ricreato in maniera tutto sommato credibile e anche gli intermezzi musicali fanno il loro sporco lavoro.
Cast: Ottimo cast che contribuisce non poco alla buona riuscita del film. Tra questi Anton Yelchin (in una delle sue ultime interpretazioni), Imogen Poots e un inedito Patrick Stewart. Ma meritano considerazione anche gli altri, Joe ColeCallum TurnerMacon Blair e Mark Webber.
Commento Finale: Quando l'espressione "brutto sporco e cattivo" calza proprio a pennello verrebbe da dire, perché qui ci troviamo proprio davanti ad un film così. Non ci sono infatti problemi nel mostrare squartamenti, facce spappolate, mani pendenti e quant'altro, e il tutto è sostenuto da trucchi veramente notevoli e da effetti per niente male, e attenzione, si parla di un film che non è che ha goduto di un budget illimitato. Certo, si poteva fare meglio, perché qualcosa non funziona come dovrebbe, però film davvero riuscito è questo, un film sicuramente godibile per gli amanti del genere.
Consigliato: E' un film che io vi consiglio vivamente, penso che vi regalerà un'ora e mezza di suspense e divertimento e non vi annoierà per niente.
Voto: 6

14 commenti:

  1. Il libro di Henry, ingiustamente massacrato, non mi era dispiaciuto. Ricordo di averlo visto in treno andando a Torino, una piacevole compagnia con un bravissimo Tremblay.
    Concordo su Green Room, che al contrario pieve a tutti ma anche a me aveva detto poco e niente qualche anno fa.

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    1. Sì, a volte si esagera con certi giudizi, sia in negativo che in positivo, e non è giusto, perché poi vedendoli ci si rende conto che non brutti e non eccezionali sono per davvero, ci vuole equilibrio, cosa che secondo me questi due film hanno ;)

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  2. ho visto solo Green Room. Molto carino lì per lì, ma è rimasto poco col tempo.

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    1. E pensare che ne avevo sentito parlare benissimo del film, e invece intrigante sì, ma niente di eccezionale.

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  3. Guarderei solamente quello di Henry.
    È proprio il genere di film che attira la mia attenzione.
    Avvisami se passa in chiaro. 😘

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    1. Non preoccuparti, ti avviso, spero solo di ricordarli tutti ;)

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  4. Nessuno di questi, ma quello su Fonda lo vedrei.
    Ho, passi la vita a guardare film da 6... ci vuole più Duel e meno stronzate moderneeeee XD

    Moz-

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    1. Ma lo sai che il mio cinema è così, però pian piano miglioro, anche perché molti ora li sto evitando ;)

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  5. Oggi credo che tocchi a te festeggiare Pietro.
    Tanti cari auguri di buon onomastico seguito da abbracci e baci (purtroppo virtuali). 😉
    Grazie dei tuoi auguri per me da mia sorella, mi ha fatto molto piacere.
    Buon fine settimana. Ciao! 💋

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    1. Neanche a farlo apposta sì, tocca a me, e ti ringrazio dei tuoi Auguri, dei baci e degli abbracci, che seppur virtuali fanno piacere ricevere ;)
      Di niente, peccato non averlo saputo ieri, ma vabbè, buona fine settimana a te! Un bacio :)

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    2. ti ringrazio Pietro come sempre per le tue bellissime e articolate recensioni che mi informano sulle pellicole cinematografiche , che io ho abbandonato da tempo per motivi personali e per mancanza di tempo.
      Vorrei tanto vedere il documentario su Jane Fonda, una persona che mi ha sempre affascinato per vari motivi. Riusciro'? Chissà..speriamo.
      Felice onomastico, forse in anticipo non so comunque mi auguro ben accetto..buona serata!|

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    3. Grazie a te, comunque effettivamente il documentario su Jane Fonda fa proprio per te, vedilo se riesci ;)
      In ritardo non importa, basta già il pensiero, buona serata a te :)

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  6. Ahahah forte l'intro in rima! 😝
    Buon onomastico in ritardo. Pensa che a Roma è il giorno dei santi patroni ma qui non si usa proprio fare gli auguri, penso parta da Napoli in giù questa abitudine.

    Di questi mi attirano Paolo e Green Room. Come sai, ripasserò (rompendoti le palle in privato per sapere se hai recensito un film che ho visto da poco) quando mi capiteranno in TV 😉

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    1. Sì, ogni tanto son pazzerello :D
      Grazie, e sì, son tradizioni più del Sud che del Nord, addirittura è forse più importante del compleanno pensa un po' ;)
      No, non mi rompi tranquillo, e quando passano sarà un piacere accontentarti, comunque Green Room è già passato, e ti dirò, è ancora disponibile su RaiPlay :)

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