mercoledì 21 novembre 2018

Recuperi da Oscar (2015/2016)

La fine della mia "stagione" cinematografica si avvicina, e così non avendo più tanto spazio, e per fare in modo di chiudere l'anno con più film possibili all'attivo, ho deciso di completare, o almeno cercare di completare, il recupero programmato alle pellicole candidate all'Oscar, e lo farò in due parti, la prossima tra due settimane. E così tra film di difficile individuazione e film individuati solo con i sottotitoli, eccomi qui oggi a proporvi la recensione agli ultimi due film che mi mancavano tra la lista dei film relativi agli Oscar 2015, e due, ma non gli ultimi (me ne mancano altre pellicole, tra cui una che non ho trovato e che rimanderò all'anno prossimo o quando sarà disponibile, molto probabile al solo streaming), della lista dei film relativi agli Oscar 2016.
Vincitore del Golden Globe 2015 come miglior film straniero e del Premio per miglior sceneggiatura al Festival di Cannes (premio opinabile, più che la struttura della storia, non bilanciatissima, colpiscono i valori formali), nonché candidato come miglior film straniero agli Oscar del 2015, Leviathan, pellicola del 2014 diretto da Andrej Zvjagincev e scritto dallo stesso Zvjagincev in collaborazione con Oleg Negin, è un'opera stratificata che, però, vuole apparire più complessa di quanto non sia. Utilizzando l'enorme scheletro di una balena come metafora di un Paese, la Russia, ormai ridotta all'osso dalla propria megalomania, il regista costruisce una tragica parabola socio-politica che si rispecchia nel destino sfortunato e ineluttabile del protagonista. La progressiva e inarrestabile disgregazione del suo nucleo familiare corrisponde, un po' schematicamente, a quella della sua patria, vessata da mostri (il leviatano del titolo) ingombranti e impossibili da sconfiggere come la burocrazia corrotta e la chiesa, ostacoli insormontabili che fagocitano la vita e i diritti del cittadino medio (anche se il suddetto non è certo uno stinco di santo, soprattutto nei rapporti con le persone attorno a lui, senza contare la dipendenza dall'alcol). Cittadino medio appunto come Kolya (Aleksey Serebryakov), un meccanico che vive con la bella moglie (Elena Lyadova) e il figlio Roma (Sergey Pokhodaev) sulle rive del Mare di Barents, cittadino che pacifico e semplice, è orgoglioso della propria casa e non vuole sentir ragioni quando l'arrogante e rozzo sindaco (Roman Madyanov) decide di comprare il terreno dove vive la famiglia, a questo si aggiunge l'adulterio della compagna con un conoscente (finirà in tragedia). Tra scheletri di balene e carcasse di navi che aprono e chiudono il film, film in cui splendidi paesaggi assistono immobili e indifferenti al dolore di chi li abita, si compie così un buio apologo su un Paese oggi schiacciato dal malaffare, dal degrado morale e sociale. Inoltre il brullo paesaggio indifferente ai turbamenti di Kolya assume anche l'inquietante aspetto di una landa desolata (e di solitudine umana), dove ogni grido di disperazione è destinato a riecheggiare eternamente nel vuoto (dove l'unico lavoro possibile rimane una piccola azienda di pulitura del pesce). Ma c'è un po' di tutto in Leviathan, film che strizza l'occhio ai grandi classici della letteratura, con un deciso balzo alle scritture bibliche e alla storia di quel Giobbe che trovò sulla sua strada Satana (qui invece persiste una assenza totale di trascendenza, nessun diavolo, ancor più rarefatta la possibilità di appellarsi alla chiesa, impersonata da uno scaltro e smaliziato padre spirituale ortodosso, più attento ai beni materiali che alla cura delle anime), rabbia, vendetta, violenza, corruzione, tradimenti e nessuna speranza. Il lavoro del cineasta russo miscela insomma in un'opera ambiziosa politica e società, sacro e profano, passato e contemporaneo, un'opera ben fatta, scarna e cruda. Peccato che il ritmo lento e a volte intenzionalmente soporifero (e troppa minuziosità soprattutto in alcune parti iniziali) non ne fa una visione facile, né per tutti (con una ventina di minuti in meno il film sarebbe stato perfetto), anche se è sicuramente un documento interessante (ugualmente apprezzabile e consigliabile) della Russia contemporanea e delle sue ossessioni, qui stigmatizzate in maniera piuttosto brutale (l'alcolismo, l'isolamento, la sordità maligna delle istituzioni). E tuttavia, nonostante il buon (seppur totalmente sconosciuto) cast, le buone musiche e la bella fotografia (che a tratti ha però il limite di apparire alla forzata ricerca di immagini a tutti i costi suggestive), l'opera non è del tutto riuscita, o almeno non tale che poteva competere con il meritato Oscar dato a Ida di Paweł Pawlikowski. Il limite del'opera è in un controllo così rigoroso della materia trattata da rischiare il confinamento nel "cinema da festival", tanto apprezzato dai critici quanto poco commestibile per il pubblico. E infatti è stato così per me, anche perché Leviathan tocca soltanto tangenzialmente lo sviluppo dei personaggi nello svolgersi del plot, ingabbiati nelle loro situazioni sì, ma senza nessun sostanziale cambiamento. Anche l'approfondimento e la chiusura di alcuni situazioni sono state relegate al fuori campo, facendo perdere forza e rigore alla struttura stessa che sorregge il film.
 Un film interessante, potente e suggestivo ma non eccezionale. Voto: 6- [Qui più dettagli]
Seppur gli elementi alla base di Tangerines: Mandarini (Mandariinid), film del 2013, scritto, prodotto e diretto dal regista e sceneggiatore georgiano Zaza Urushadze, non siano né originali né innovativi, il regista riesce a firmare un film solido e stimolante, capace di tenere viva l'attenzione dello spettatore e abile nell'evitare la maggior parte delle trappole disseminate lungo la narrazione. Il regista ha infatti a disposizione un copione ambientato quasi totalmente in un'unica dimora, che tratta l'importanza della pace e cerca di sensibilizzare il pubblico sull'inutilità dei conflitti razziali prima ancora che bellici. Il rischio di scadere nella banalità o nei buoni sentimenti risulta potenzialmente assai elevato, ma l'opera persegue invece una strada più cruda e meno battuta, avvalendosi di dialoghi carichi di suspense e utilizzando al meglio l'elemento tensivo grazie a un montaggio calibrato e alla bravura degli attori protagonisti. Il film infatti, candidato dell'Estonia nella cinquina degli Oscar 2015 per il Miglior Film Straniero, ambientato in una piccola valle che si apre in una fertile zona collinare non lontana dal mar Nero nel 1991 (al culmine del conflitto tra la Georgia e la Repubblica separatista di Abcasia), che narra di due vecchi contadini estoni impegnati nella raccolta dei mandarini, due vecchi amici e vicini di casa, Ivo (Lembit Ulfsak) e Margus (Elmo Nüganen), che hanno scelto di rimanere, nonostante i rischi (tutti i coloni estoni dell'enclave, insediati in Abcasia ai tempi delle migrazioni forzate degli Zar o di Stalin, sono rientrati in patria, lontana quasi 3.000 chilometri, fuggendo dalle ostilità), poiché Margus desidera portare a termine il raccolto, Ivo invece non ha nessuna intenzione di abbandonare la casa in cui è vissuto e la terra alla quale è legato, che si ritroveranno in difficoltà quando due soldati feriti di opposti schieramenti verranno da loro curati, scatenando così uno scontro interno abbastanza acceso, scontro che subirà cambiamenti quando per forza di cose la convivenza obbligata, gli spazi ristretti, la necessità di dividere il poco cibo a disposizione, imporranno una tregua fra il rude ceceno e l'impulsivo georgiano (che si scopriranno somiglianti più di quanto credano, accomunati prima dall'odio che li anima e dall'intransigenza, poi dalle identiche sofferenze, per le ferite e per gli amici persi), anche se ha inevitabilmente l'impianto delle opere a tesi e non può non impolverarsi di velature buoniste (dopotutto è difficile proclamare la fratellanza universale senza cascare nel mielismo moralista) rifugge ed evita sia la retorica pacifista che gli schematismi manichei, conservando una rude onestà che alla fine ci evita le stucchevolezze insopportabili della parabola umanista. Determinanti sono la scelta della location austera (un'unità di luogo quasi da rappresentazione teatrale), il rigore della regia (sobria e contenuta, senza i virtuosismi barocchi della scuola americana) e la recitazione asciutta, quasi reticente, attenta a non guastare l'eloquenza dei lunghi silenzi, delle occhiate, dei movimenti impercettibili. Non è un caso difatti che Tangerines si schieri sul fronte del silenzio, delle poche parole ma buone, di sguardi decisi, di gesti impercettibili, e ci conduca in un angolo nascosto di una guerra dimenticata. Tangerines è per questo un piccolo film dal cuore grande, che sa essere intenso senza alzare mai la voce, catturandoci piano piano. Tangerines ha il suo punto di forza in una sceneggiatura nella quale nessuna parola è superflua o sprecata. Tutto è misurato, centellinato, come in un'economia di sussistenza, come il numero di quelle cassette che Ivo quotidianamente pialla e inchioda in vista della raccolta dei frutti. Il tempo, nella valle dei mandarini, è rallentato, e sembra momentaneamente sospeso: i mandarini brillano al sole e i quattro uomini vivono in una vita interrotta, si lasciano quasi imbozzolare da una fragile condizione provvisoria, restano lì in attesa che intrusioni esterne rompano gli equilibri, consapevoli di essere destinati a finire di nuovo ingoiati e maciullati dalla realtà. Un'inaspettata situazione di pericolo determinerà il crearsi di un'imprevedibile alleanza: i due antichi nemici si coalizzeranno per difendersi a vicenda (e per proteggere il vecchio Ivo) e di nuovo imbracceranno i mitra (non poteva essere altrimenti). E stranamente è proprio questa parte finale più accomodante e retorica, che stona notevolmente con quanto visto in precedenza a rovinare in parte l'opera, che in ogni caso ha il merito di far conoscere una storia di guerra sconosciuta ai pù. Tuttavia nonostante questo limite, comunque, il progetto colpisce e sorprende grazie anche alla suggestiva colonna sonora. Non un capolavoro ma bel film. Voto: 6+ [Qui più dettagli]
Un cinema geriatrico (anche troppo) quello che trapela da 45 anni (45 Years), film del 2015 scritto e diretto da Andrew Haigh, regista dell'inedito Weekend, che qui opera una decostruzione chirurgica, minimale e dolorosa di una coppia che scopre, dopo 45 anni di matrimonio, fantasmi più reali del reale che hanno sempre dormito con loro. Un tipo di cinema che è stato più volte proposto nella prima decade del nuovo millennio (si pensi a Nebraska di Alexander Payne o ad Amour di Michael Haneke, per fare i due più lampanti esempi) e che ha dimostrato di saper funzionare senza fastidiosi intoppi. 45 anni però si carica più di tanti altri film di anzianità (ma non dei disagi che da essa derivano) e non solo di significativi dialoghi ma anche (e soprattutto) di non-dialoghi, di un non-detto implicitamente velato dietro gli sguardi eloquenti di un'anziana coppia inglese che sta per celebrare i quarantacinque anni di matrimonio. Il caso vuole che una lettera, pochi giorni prima dei festeggiamenti, riveli il ritrovamento nei ghiacci svizzeri di una vecchia fiamma di Geoff, conosciuta anni addietro, mettendo in difficoltà la relazione con la moglie Kate. Ecco il dramma che connota il film, lentamente diluito nell'arco di novantacinque minuti che sembrano un'eternità. La vicenda si concentra esclusivamente su questi due vetusti individui, senza permettere che nessun altro soggetto entri nel palcoscenico. Ma è tutto così lento, come se l'azione (se così si può chiamare) non esplodesse mai ma rimanesse sempre intrappolata all'interno dell'incedere degli onnipresenti dialoghi che paiono inghiottire ogni tentativo del film di movimento (le stesse riprese prediligono insistenti e fissi primi piani, focalizzandosi sull'espressione facciale degli attori), così come ogni tentativo di Kate di far uscire la rabbia che cova dentro. Finanche nell'ultima inquadratura si assiste ad una mancata esplosione di ira dell'anziana donna, un primo piano che è chiave di lettura dell'intera opera: Kate ha vissuto ben quarantacinque anni di matrimonio sotto il peso di una finzione del marito bella e buona (il rapporto con la sua prima fidanzata era stato soltanto accennato sino all'arrivo dell'inaspettata lettera). E nel giorno che dovrebbe suggellare un'unione fondata sulla trasparenza di affetti Kate resta in bilico tra un sincero amore verso il marito e il furore che prova verso il suo ipocrita comportamento. Se non fosse stato per la troppa lungaggine, o per la staticità che impedisce ad un embrionale pathos di esplodere, 45 anni avrebbe senz'altro potuto stupire, ma ci dobbiamo accontentare di un risultato appena passabile. Giacché il film di elegante fattura è perfetto nel suo registro estetico, purtroppo il lavoro però, seppur animato da tante buone intenzioni nulla aggiunge al dibattito risultando, pertanto, eccessivamente autoreferenziale. Anche se impreziosito dalla prova d'attore davvero straordinaria di Charlotte Rampling e Tom Courtenay (che hanno vinto l'Orso d'argento per la migliore interpretazione femminile e maschile al Festival di Berlino 2015, inoltre la Rampling ha anche ricevuto una candidatura come Miglior attrice protagonista agli Oscar del 2016, premio andato meritatamente poi a Brie Larson), il prodotto finale risulta infatti troppo "preconfezionato". Per nulla ispirato, non emoziona, mai. Voto: 5,5 [Qui più dettagli]
Con Il bambino che scoprì il mondo (O Menino e o Mundo), film brasiliano diretto da Alê Abreu, ci troviamo davanti a una vera opera d'arte, non è un caso infatti che il film, che ha vinto una serie di premi internazionali, abbia ricevuto la candidatura all'Oscar al miglior film d'animazione nell'ambito dei Premi Oscar 2016 e per produrlo il regista ci abbia impiegato ben cinque anni. In questo film d'animazione siamo difatti lontani anni luce dalle patinate immagini 3D a cui negli ultimi anni la cinematografia di genere ci ha abituato, soprattutto quella americana. I disegni sono la parte migliore del coraggioso film brasiliano, realizzati con inesauribile fantasia, pastelli e colori a cera, che creano nella loro elementarissima struttura delle immagini davvero suggestive ed evocative. Il tratto prevalente è quello del disegno di un bambino, il protagonista stesso (il bambino per l'appunto) è stupefacente, nella sua maglietta fatta di quattro strisce rosse orizzontali, gli occhi lunghi come finestre e somigliante vagamente ad una lampadina. Questo bambino dagli occhi a fessura che insegue il padre, diventando a sua volta grande, ci racconta del nostro pianeta spianato, arato dalla mediocrità della tecnica e dalla corruzione, in cui la fantasia, l'originalità, resistono solo se protette dentro un barattolo povero piantato nel terreno proprio come un seme. Ne Il bambino che scoprì il mondo infatti, una favola avvolgente giocata sull'assenza di parole (si parla una lingua inventata e dunque incomprensibile) e sulla strabordante presenza di colori e suoni, dove ciò che conta sono le sinapsi affettive attivate da precisi meccanismi drammatici oltre alla vivacità delle invenzioni animate: carri armati a forma di elefante, bande che suonano armi da fuoco invece che ottoni e la suprema sublimazione dello spirito del popolo brasiliano in un uccello del paradiso iridescente che protegge l'innocenza di un'intera generazione, forte è la critica ad un mondo (il nostro) nel complesso marcio e industrializzato al limite dell'umana comprensione. O Menino, ossia il bambino come è nel titolo originale, vive in campagna con la madre e il padre, in un perfetto stato di natura. Come un dio Pan il padre suona il flauto e il figlio anche da lontano può seguirlo, catturare le sue note come fossero petali di fiori. Poi, un giorno, il papà deve salire su un treno e andare in città a cercare lavoro. Il paradiso originario è perduto, non c'è niente che possa riportare il piccolo allo stato di felicità iniziale. I ricordi gli si parano davanti agli occhi come scene reali del padre che lo abbraccia, che suona il suo strumento, ma sono solo illusioni che svaniscono proprio quanto sembrano materializzarsi. Il Menino va, parte anche lui, sul carretto di un vecchio raccoglitore di cotone, alla ricerca del padre, alla scoperta do mundo. È la scoperta dell'inferno dell'agricoltura industrializzata prima, delle fabbriche e delle grandi metropoli poi. In sintesi, il film presenta quindi spunti di altissimo livello poetico ed è realizzato in maniera eccellente, purtuttavia, nella durata non indifferente di un'ora e mezzo, lascia sul campo vistosi segni di stanchezza che si manifestano in chiari movimenti delle palpebre verso una lenta chiusura (il ritmo narrativo difatti, seppur incalzante e poetico, è parecchio lento). Perché certo, si rimane stupiti per la semplicità, la vertiginosa bellezza, poesia e drammaticità dei disegni e del racconto, il regista riesce infatti con pochi tratti di matita e guazze di colore a esprimere sentimenti umani profondissimi, universali, senza età, la colonna sonora, poi (intesa come musica e rumori delle cose che scorrono sullo schermo), è un piccolo capolavoro a parte, come detto non ci sono dialoghi (solo, ogni tanto, suono di parole indistinguibili, tanto per accennare al fatto che due o più persone parlino), ma nessun'emozione è arrivata da immagini comunque efficaci. Sarà per questo che l'Oscar non sia poi arrivato? Personalmente sì, perché anche se questo circo di colori trascinante e apocalittico, tra carta e CGI, collage surrealista e documentario, esplosivo nell'invenzione figurativa, raffinato per come tesse una trama ardita e non facilmente leggibile, è comunque emotivamente comprensibile a tutti, lascia un po' storditi e non del tutto contenti del risultato. Voto: 7 [Qui più dettagli]

11 commenti:

  1. Come è potuto sfuggirmi Il bambino che scoprì il mondo??? Meno male che ci sei tu!
    Lo recupererò assolutamente. ;)

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Capita che sfuggano, l'importante è sapere che c'è, che qualcuno lo veda e lo faccia conoscere agli altri ;)

      Elimina
  2. La cosa che più mi sconvolge di questo post è che si possa arrivare a 45 anni di matrimonio. 😜
    Comunque guarderei soltanto l'ultimo. Ma, sicuramente, te lo aspettavi.. 😘

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Più che aspettarmelo, è giusto, dopotutto è il migliore dei quattro ;)

      Elimina
  3. Leviathan lo ricordo pochissimo, non mi era dispiaciuto ma evidentemente non si fa così ricordare.
    45 anni, per l'intensità del rapporto, aveva saputo colpirmi per bene, quando si tratta di vecchini difficilmente non è così.

    A Il bambino che scoprì il mondo sono legatissima, piccolo film scoperto proprio per quella nomination che mi è entrato nel cuore. Visto per due volte al cinema (l'ho fortemente voluto nella rassegna che aiuto ad organizzare nel cinema con cui collaboro) è stata ogni volta pura magia per gli occhi. Non ci trovo difetti, ed è stata un'emozione vedere bambini di ogni età rimanere attenti e ammutoliti di fronte a tanta bellezza.

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Leviathan l'ho già dimenticato, per quanto riguarda 45 Anni, diciamo che avrei dovuto restare sui miei passi, ovvero evitarlo..
      Ammetto, e l'ho anche elogiato, che l'aspetto visivo è abbagliante e ipnotico, tuttavia più che difetti la troppa lentezza in alcuni casi non mi ha personalmente colpito, in ogni caso davvero eccezionale la tua esperienza ;)

      Elimina
  4. Leviathan l'ho visto: miseria che angoscia!

    RispondiElimina
  5. Di Leviathan ne avevo sentito parlare ma è un film troppo impegnativo per i miei gusti e la tua recensione non mi spinge certo a provare.
    Quello sui mandarini mi attira per due motivi, il tema (mi ricorda un po' Un'Ottima Annata) e l'ambientazione tutta casalinga che però paragonandolo a quel capolavoro di The Big Kahuna, rischia di penalizzarlo. Il tuo voto mi blocca.
    45 Anni invece mi ricorda un altro film, la commedia americana piena di intrecci Scherzi del Cuore, mi riferisco alla vicenda di Sean Connery e la moglie, che andava bene in una pellicola con tante piccole trame, invece trattarla per un intero film il rischio di trama diluita è alto e tu me lo confermi.
    L'ultimo è quello che potrei vedere, anche se la provenienza brasiliana mi blocca un po' (sono prevenuto, lo so). A me i film in CGI hanno altamente rotto le palle, quindi che ben vengano questi che ancora usano i disegni! Solo guardando l'immagine che hai scelto ho pensato che si trattasse di qualcosa di poetico, come molti videogiochi indie che ho recensito in passato ma poi tu me lo confermi, soprattutto quando mi parli delle musiche e degli effetti sonori che sostituiscono i dialoghi, infatti mi hai ricordato Brothers A Tale of Two Sons! Peccato per il rischio della palpebra che cala ma prima o poi gli voglio dare una possibilità!

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Sì, Leviathan è abbastanza impegnativo, mentre su Tangerines, è ben lontano in verità da The Big Kahuna...anche 45 Anni è diverso da Scherzi del cuore, dopotutto qui sono solo due i protagonisti..
      Ho letto quel tuo vecchio articolo, e sì, è più o meno la stessa cosa, e sì, ha molto di indie, quindi vedi di recuperarlo ;)

      Elimina
  6. eccomi qui oggi a proporvi la recensione agli ultimi?

    RispondiElimina