Prima di Ex-Machina e Westworld c'era The Machine, film del 2013 diretto da Caradog W. James, che per certi versi li ricorda molto, anche nello stile chic del secondo o claustrofobico del primo, oltre ovviamente al binomio uomo-macchina che torna puntuale, anche se un po' fuori tempo, ma non certo così in ritardo da risultare superato, come è prassi e costume che accada nei pressi della più gloriosa serie B, alla quale in qualche modo appartiene questa produzione inglese a basso budget, ma di buona fattura e costruzione. Il film infatti, ambientato nel futuro, che narra la storia di due scienziati impegnati nella creazione di una intelligenza artificiale e combattuti tra le crudeli esigenze della committenza militare e la propria coscienza, riesce a farsi rispettare, anche se qualitativamente povero. Povero come l'introduzione che ci informa solo che due superpotenze si sfidavano (e, stando al film, si sfideranno ancora fino a sfiorare la collisione più nefasta e apocalittica) tenendo in ostaggio il resto del mondo. Per questo un brillante scienziato mette a punto una 'macchina' che possa costituire un connubio, una sintesi integrata tra la mente umana e la meccanica più sofisticata. Le ragioni del brillante e giovane studioso si annidano in vicende strettamente private e drammatiche, che in qualche modo trovano una giustificazione anche morale, ma che tuttavia finiscono in secondo piano rispetto agli interessi ben più stolti e calcolati che guidano i finanziatori biechi e sordidi di quel rivoluzionario ed avveniristico progetto. Una avvenente e giovane ricercatrice finisce così per divenire, causa un drammatico incidente, da primaria collaboratrice dell'uomo, a vera e propria cavia di un progetto che travalica i confini dell'etica e della ragionevolezza, fino ad una ribellione (prevedibile ma mai così giustificata) che nasce dal fondo di una coscienza che finisce per avere la meglio sui più amorali fini economico-bellici che guidano invece i 'cattivi'. The Machine, nonostante alcuni scontati parametri e alcune forzature è un film ben congegnato soprattutto in una sua prima parte tesa e adrenalinica, anche se purtroppo il film finisce verso la fine imbrigliato nelle facili soluzioni retoriche e sentimentali che ne affievoliscono le brillanti seppur non originali premesse. E se il macho-gentiluomo Toby Stephens (quello di Black Sails) è un valido caratterista promosso meritatamente al rango di protagonista dopo una interessante e variegata gavetta formativa, qui teso più che può a rendere credibile il suo ruolo di scienziato brillante e padre amorevole, la bionda ed avvenente Caity Lotz (The Pact 1 & 2 e Ragazze nel pallone) dall'occhio di ghiaccio ci ricorda nella sua fissità assassina di donna-macchina, la Sharon Stone similmente folle assassina, ma per ragioni di sesso, nel celebre Basic Instinct. Insomma da vedere, anche se alla fine rimane la sensazione di un occasione mancata per un soffio, di aver a che fare con qualcosa di nuovo ed all'inizio ci si crede davvero, e invece funziona solo a metà. Voto: 5,5
Outcast: L'ultimo templare (Outcast) è un film d'azione del 2014 che segna l'esordio dietro la macchina da presa di Nick Powell che in passato ha offerto al mondo hollywoodiano i suoi servigi come stuntman in numerosissimi film. Questa pellicola è una tipica trama in stile asiatico, l'imperatore in procinto di morire si trova a dover scegliere il suo successore fra i 2 suoi figli, un bambino ed un guerriero, ovviamente sceglierà l'infante scatenando una disputa fra i 2, dove il piccolo sarà costretto a scappare con la sorella ed il sigillo reale mentre il fratello sanguinario scatenerà una caccia all'uomo dichiarando il bambino come uccisore del padre e fuggiasco. Qui le strade dei fuggitivi si incroceranno con quelle di una templare fuggito dopo la presa di Gerusalemme che cerca di dimenticare il suo sanguinario passato. La cosa che più colpisce di Outcast è la presenza nel cast di Nicolas Cage e Hayden Christensen, entrambi templari fuggiti dopo a guerra e pentiti delle loro azioni, due attori dal curriculum di film blockbuster ed a caccia di soldi facili in un film che si è dimostrato largamente mediocre (diamo l'attenuante al regista alle prime armi). Ma anche la trama colpisce (in un occhio) dato che è costellata di probabili incertezze storiche e noncuranze (di cui però ammetto di non avere certezza non essendo storico di professione), e si sviluppa in maniera completamente banale, senza avere una reale congiunzione fra la storia dei templari e quella che si svolge in Asia, semplicemente loro si trovano lì, il come ed il perché sono arrivati in quel continente non è per nulla spiegato, le riprese delle scene di guerra poi sono abbastanza confusionarie e sarà difficile seguire le azioni perfettamente, per non parlare di alcuni attimi alla Walker Texas Ranger in cui tutti i nemici staranno fermi aspettando di prendere la loro dose di spadate. Insomma un mezzo casino, mezzo pasticcio, infatti, in questa produzione ambientata in Cina il regista opta per un solido artigianato da b-movie per le scene d'azione (e neanche così tanto buone), salvando il salvabile di una sceneggiatura forzata e ingenua (da segnalare un bacio che la sorella poco più che sedicenne, dato che sembra essere soltanto una bambina, da al templare giovane, non credibile come tante altre cose) e trovandosi alla prese con un cast poco convincente nel quale si erge un mediocre Cage (di cui tempo fa ho esaltato le gesta, nel Nicolas Cage Day) nell'ennesimo ruolo scult della sua recente carriera. Film che per questo probabilmente otterrà, se non l'ha già fatto, come nel mio caso, un discreto numero di osservatori grazie proprio a lui e all'altro nome famoso in copertina, ma che alla fine non ha molto da dire, come d'altronde me. Voto: 4,5
Jackie & Ryan, film del 2014 scritto e diretto da Ami Canaan Mann, alla sua seconda opera da regista, è un emozionante, semplice e musicalmente eccelso, dramma/comedy romantico. La regista infatti ci racconta una storia romantica agrodolce sagomando il personaggio di Ryan ai grandi del periodo del Folk Rock che girovagavano per l'America come cavalieri erranti invece a quello di Jackie ritaglia il ruolo di donna forte, una persona da cui poter sempre tornare, una ragazza dal viso dolce con un passato da cantante pop e un divorzio in corso, che deve lottare per avere l'affidamento della figlia, che il marito le vuol strappare via. Ryan al contempo è un musicista di strada che viaggia di nascosto sui treni merci e suona dove capita, e deve convincere se stesso che le canzoni che scrive meritano di essere ascoltate. Il loro incontro casuale difatti li porta a crescere insieme, sentimentalmente e anche nella convinzione di poter combattere e vincere le proprie battaglie. Non sanno se il loro rapporto durerà, ma sanno che è stato ed è importante per entrambi. Nei film di Ami Canaan Mann l'ambientazione, il luogo dove si svolge la storia narrata è un altro personaggio, e non di minore importanza. Lo era il Texas depresso e arido del suo precedente film (Le paludi della morte), lo è lo Utah di questo film, montagnoso e innevato. La musica, essenziale alla storia e al paesaggio, incornicia in modo egregio questa vicenda, e ai pregi del film si aggiungono una recitazione calibrata, quella di Ben Barnes, fin troppo 'pulito' per interpretare questo ruolo (anche se effettivamente fa parte di quegli attori che sembrano sempre più giovani di quanto siano), che però riesce a gestirlo e ad essere convincente (lontano dall'imbronciato e istrionico Settimo Figlio), e Katherine Heigl, non del tutto credibile ma ugualmente brava e infine una fotografia suggestiva, che alterna paesaggi sconfinati dell'America suburbana mostrati quasi sotto forma d'istantanea a momenti di puro movimenti come i treni merci sempre in movimento. Fondamentale ovviamente la colonna sonora che ci accompagna per tutta lo storia con canzoni originali e di repertorio Folk Rock. C'è la musica, infatti, al centro del film, intesa come paesaggio dell'anima che si va ad aggiungere oltre alle vedute panoramiche del paesaggio americano al patio di casa, nel silenzio che suggerisce le giuste parole alle canzoni. Ma c'è anche un omaggio sentito e attuale alla filosofia del vagabondaggio nobile e non parassitario, alla ricerca di quel "heart of gold" che è dentro ognuno ma sfugge comunque a chi non si mette in viaggio per cercarlo. Che si tratti di riparare un tetto o di far vibrare le stringhe di una chitarra, si tratta sempre di usare le mani con arte, e così può essere anche muovere una macchina da presa. Contano i modi, i fini, la compagnia, la condizione, l'autonomia di spirito, la sincerità dell'esperienza in progress. I personaggi di Jackie e di Ryan si muovono letteralmente su due binari paralleli, lei viaggia in aereo e lui in treno e non si mentono sulle reciproche appartenenze sociali né mai incrociano realmente le loro problematiche, ma sono l'uno la soluzione psicologica dell'altro, la spinta ad agire e la fiducia di cui necessitano. Per questo, più ancora che per la componente musicale, Jackie & Ryan è un film estremamente e orgogliosamente romantico. Un progetto piccolo, lontano dal film d'esordio della regista, ma ugualmente capace di costruire un'atmosfera di grande efficacia e nel quale la regista conferma la sua capacità nel raccontare storie che ti catturano e ti restano dentro. Insomma, anche se la storia ha un buon ritmo che però talvolta cade in alcuni banali cliché che potevano essere sostituiti da qualcosa di sicuramente più frizzante, è un ottimo film che pesca dai generi (il film di musicisti, la commedia romantica) senza restarne invischiato. In conclusione un dolce piccolo film senza pretese con cui passare un paio d'ore, perché se anche difficilmente sarà un titolo che rimarrà nella storia del cinema, ha dopotutto il pregio di offrire una scrittura solida, una grande misura nelle interpretazioni e nell'utilizzo delle musiche, tanto che non può non coinvolgere e scaldare l'animo anche del più cinico degli spettatori. Voto: 7
Jackie & Ryan, film del 2014 scritto e diretto da Ami Canaan Mann, alla sua seconda opera da regista, è un emozionante, semplice e musicalmente eccelso, dramma/comedy romantico. La regista infatti ci racconta una storia romantica agrodolce sagomando il personaggio di Ryan ai grandi del periodo del Folk Rock che girovagavano per l'America come cavalieri erranti invece a quello di Jackie ritaglia il ruolo di donna forte, una persona da cui poter sempre tornare, una ragazza dal viso dolce con un passato da cantante pop e un divorzio in corso, che deve lottare per avere l'affidamento della figlia, che il marito le vuol strappare via. Ryan al contempo è un musicista di strada che viaggia di nascosto sui treni merci e suona dove capita, e deve convincere se stesso che le canzoni che scrive meritano di essere ascoltate. Il loro incontro casuale difatti li porta a crescere insieme, sentimentalmente e anche nella convinzione di poter combattere e vincere le proprie battaglie. Non sanno se il loro rapporto durerà, ma sanno che è stato ed è importante per entrambi. Nei film di Ami Canaan Mann l'ambientazione, il luogo dove si svolge la storia narrata è un altro personaggio, e non di minore importanza. Lo era il Texas depresso e arido del suo precedente film (Le paludi della morte), lo è lo Utah di questo film, montagnoso e innevato. La musica, essenziale alla storia e al paesaggio, incornicia in modo egregio questa vicenda, e ai pregi del film si aggiungono una recitazione calibrata, quella di Ben Barnes, fin troppo 'pulito' per interpretare questo ruolo (anche se effettivamente fa parte di quegli attori che sembrano sempre più giovani di quanto siano), che però riesce a gestirlo e ad essere convincente (lontano dall'imbronciato e istrionico Settimo Figlio), e Katherine Heigl, non del tutto credibile ma ugualmente brava e infine una fotografia suggestiva, che alterna paesaggi sconfinati dell'America suburbana mostrati quasi sotto forma d'istantanea a momenti di puro movimenti come i treni merci sempre in movimento. Fondamentale ovviamente la colonna sonora che ci accompagna per tutta lo storia con canzoni originali e di repertorio Folk Rock. C'è la musica, infatti, al centro del film, intesa come paesaggio dell'anima che si va ad aggiungere oltre alle vedute panoramiche del paesaggio americano al patio di casa, nel silenzio che suggerisce le giuste parole alle canzoni. Ma c'è anche un omaggio sentito e attuale alla filosofia del vagabondaggio nobile e non parassitario, alla ricerca di quel "heart of gold" che è dentro ognuno ma sfugge comunque a chi non si mette in viaggio per cercarlo. Che si tratti di riparare un tetto o di far vibrare le stringhe di una chitarra, si tratta sempre di usare le mani con arte, e così può essere anche muovere una macchina da presa. Contano i modi, i fini, la compagnia, la condizione, l'autonomia di spirito, la sincerità dell'esperienza in progress. I personaggi di Jackie e di Ryan si muovono letteralmente su due binari paralleli, lei viaggia in aereo e lui in treno e non si mentono sulle reciproche appartenenze sociali né mai incrociano realmente le loro problematiche, ma sono l'uno la soluzione psicologica dell'altro, la spinta ad agire e la fiducia di cui necessitano. Per questo, più ancora che per la componente musicale, Jackie & Ryan è un film estremamente e orgogliosamente romantico. Un progetto piccolo, lontano dal film d'esordio della regista, ma ugualmente capace di costruire un'atmosfera di grande efficacia e nel quale la regista conferma la sua capacità nel raccontare storie che ti catturano e ti restano dentro. Insomma, anche se la storia ha un buon ritmo che però talvolta cade in alcuni banali cliché che potevano essere sostituiti da qualcosa di sicuramente più frizzante, è un ottimo film che pesca dai generi (il film di musicisti, la commedia romantica) senza restarne invischiato. In conclusione un dolce piccolo film senza pretese con cui passare un paio d'ore, perché se anche difficilmente sarà un titolo che rimarrà nella storia del cinema, ha dopotutto il pregio di offrire una scrittura solida, una grande misura nelle interpretazioni e nell'utilizzo delle musiche, tanto che non può non coinvolgere e scaldare l'animo anche del più cinico degli spettatori. Voto: 7
Crush, film del 2013 diretto da Malik Bader, è un thriller psicologico, poco logico, poco thriller, tanto psyco (tutti pazzi in questo film), che si sviluppa su presupposti interessanti come le pericolose derive che possono prendere certe ossessioni adolescenziali, ma la confezione non convince sul piano della narrazione e delle interpretazioni. Detto questo, nonostante la prevedibilità di certe situazioni ed evidenti limiti derivati dalla mediocre riuscita nel creare pathos e tensione, riesce nel tentativo di sorprendere, nel finale, e di farsi apprezzare, ma è davvero poca cosa. Il film infatti, racconta di Scott (Lucas Till), giovane promessa sportiva (e di Hollywood) che a causa di un incidente, è costretto a un periodo di riposo. Bess (la bella Crystal Reed, Teen Wolf), invece, è una ragazza timidissima, che va nella stessa scuola di Scott ed è cotta di lui, innamorata così pazzamente, da seguirne ogni mossa, in tutti i sensi. Si, perché Bess è un tantino "ossessionata", così lo segue, lo controlla sui social network, è estremamente gelosa delle sue amicizie (in particolar modo quella con Jules, Sarah Bolger, la Bella Addormentata nella serie C'era una volta), Bess, è però a sua volta 'stalkerata' da Jeffrey, che praticamente si apposta fuori da casa sua e le crea romantiche compilation. Come se non bastasse nel negozio dove lavora c'è anche Andie (Caitriona Balfe, Claire di Outlander), che apparentemente ha una relazione con un altro collega. In questo turbinio di cose, Scott viene perseguitato da un'ammiratrice misteriosa (ma chi è delle tre? o quattro?), e quello che all'inizio sembra un gioco, si trasforma però in un pericolo mortale, che porterà al finale, in cui tutti i ruoli si ribalteranno. Se Crush voleva essere un thriller intrigante e angosciante, non posso certo dire che il regista abbia centrato l'obiettivo, lui vorrebbe miscelare il mistero dell'intreccio con il romanticismo adolescenziale, permeando il tutto con atmosfere da suspense pura, ma il mix non funziona, lo script è piuttosto elementare (anche se aveva del potenziale, che però non è stato sviluppato nel modo corretto, visto che l'idea di partenza funzionava), le situazioni troppo forzate (tutte attratte da lui senza un vero motivo) e soprattutto poco realistiche (perché una bella ragazza come Bess ha paura di non piacere a Scott? non è mica cessa, anzi), i dialoghi superficiali e i personaggi poco approfonditi. C'è poi una costante spiacevole sensazione di fotoromanzo patinato che non giova certo a un film (thriller) che dovrebbe in qualche modo tenere sul chi va là, se non proprio spaventare. E invece, non spaventa, non fa paura, non c'è sangue (a parte qualcosina sul finale), insomma, non tiene con il fiato sospeso e gli occhi sbarrati come dovrebbe. Niente suspense, niente sussulti di spavento. L'unico colpo (anzi, colpaccio) di scena, lo troviamo verso la fine del film, quando succede qualcosa di davvero inaspettato (anche se arriva fuori tempo massimo), ma che confonde anche parecchio lo spettatore. Insomma, non granché come film, anche se, è apprezzabile comunque il tentativo di sorprendere, che almeno frena la china lungo la quale il film sembrava procedere inesorabilmente. Non malissimo. Voto: 5,5
La scuola più bella del mondo, film del 2014 diretto da Luca Miniero, è l'ennesima commedia mediocre che il cinema italiano ha da offrire, poiché lasciando perdere l'ultimo film visto del genere, ovvero l'eccezionale Perfetti Sconosciuti, questo è un film visto e rivisto, in cui gli attori riciclano le loro solite parti, da Christian De Sica a Rocco Papaleo, passando per la Finocchiaro (Angela), con un pittoresco finale in stile 'musicarello' che rende il tutto ancora più farsesco e imbarazzante. Eppure per una volta, la storia è semplice ed ha pure un senso. Una scuola modello toscana cerca un gemellaggio con un istituto scolastico di Accra, ma il bidello sbaglia a leggere ed invia l'email ad una scuola di Acerra, il cui preside è il miglior Lello Arena di sempre (una delle poche note liete). Il resto purtroppo è invece un esilarante, soprattutto posticcio, girotondo di equivoci basati sul razzismo, reciproco, tra nord e sud, con tanti luoghi comuni, ma ugualmente deliranti. Sulla scia del successo del film "Benvenuti al sud", il regista Luca Miniero continua nuovamente a proporre nella sua produzione cinematografica le differenze sociologiche ed ambientali tra il nord e il sud Italia, iniziando ad evidenziare (purtroppo) una certa stanchezza creativa a livello di idee. Il film, per carità, di per se sicuramente è anche gradevole e ciò è da attribuirsi non tanto per la simpatica (si fa per dire) presenza di attori come De Sica (qui comunque più normale e meno antipatico, insomma sopportabile), Papaleo o Angela Finocchiaro (altra presenza fissa di molti film del regista), senza dimenticare la bellissima Miriam Leone, ma soprattutto per il non facile lavoro di selezione e di preparazione nella scelta dei bambini, giovanissimi attori di questa pellicola, che fungono da determinante e vitale linfa vitale per la narrazione della trama, i loro movimenti, le loro brevi battute o il loro pungente sarcasmo, rappresentano probabilmente la vera forza del film. Come dicevo prima, in La scuola più bella del mondo l'aspetto comico si basa su una certa estremizzazione sarcastica di alcune debolezze delle periferie del sud, ma tutto ciò alla fine si traduce solamente in un tipo di concezione sociale alquanto atavica e come tale limitante per il senso ed il significato del film stesso, costellato di tanti spunti che strizzano l'occhio alle cronache (in particolare nello stato disastroso in cui versano molti istituti scolastici del nostro paese) ma sempre in maniera bonaria e superficiale, senza denunciare in maniera forte e decisa, seppure con la risata, né raccontare qualcosa di nuovo. Poco credibile e perciò anche parecchio stonato il finale stile 'musicarello', che viene tirato fuori non si capisce bene perché, come e quando. Discretamente gradevoli invece, per quanto stridenti, gli inserti di cartoni animati che mostrano i pensieri del professore dall'animo di artista interpretato da Papaelo. Tutto il resto come detto è abbastanza imbarazzante e dimenticabile. Ma poiché si parla di un film che in fondo si pone la finalità di essere da scacciapensieri e che deve far trascorrere quasi due ore con lo spirito della rilassatezza e del buon umore, soprattutto per i bambini, innocenti agli occhi di un qualsivoglia spettatore, tutto sommato esso si presenta (ripeto, sotto l'aspetto leggero) discretamente gradevole (ma non tanto in verità), ma di sicuro migliore di certi cinepanettoni. Voto: 5
Film brutti e per nulla riusciti se ne vedono a bizzeffe, e questo Getaway: Via di fuga (Getaway), film del 2013 diretto da Courtney Solomon, con protagonisti Ethan Hawke e Selena Gomez, è uno di quelli. Perché non basta sottolineare che Finegan e Parker, i due sceneggiatori sono esordienti, dato che lo sconosciuto regista, alla terza direzione, inanella il terzo disastro di fila. Anche se questo thriller senza tregua, svolge nella giusta maniera il suo compito di intrattenere lo spettatore tramite fughe spericolate, lamiere contorte ed esplosioni, fino all'inaspettato e tutt'altro che disprezzabile epilogo. Purtroppo però, all'interno del film (per la precisione all'interno di un action movie senza alcuna ambizione, ad eccezione, probabilmente, di ottenere un rapporto ricavi/costi soddisfacente per la produzione) le scene corrono e si rincorrono alla rinfusa ma non corrono come il tema e la storia imporrebbero, i due attori principali inoltre sono piatti e monodimensionali, concorrendo attivamente al naufragio del film. Per sviluppare una storia che si svolge interamente in un abitacolo (cosa onestamente non facile) servivano interpreti ed interpretazioni migliori, un montaggio più serrato e idee innovative e lungimiranti. La pellicola invece, che racconta di Brent Magna (Ethan Hawke), pilota automobilistico di livello, alla quale viene rapita la moglie e per salvarla viene spinto in una missione al limite dell'impossibile a bordo della sua macchina, dove unica alleata è una ragazzina hacker (Selena Gomez), dove unica speranza è seguire alla perfezione le istruzioni impartite da una voce che ne segue ogni mossa attraverso microtelecamere installate nell'auto, non lo fa. Poiché il film, che sembra difatti essere il remake del film omonimo e ben più famoso di Sam Peckinpah, anche se ovviamente i due prodotti non sono minimamente paragonabili, ci mette infatti di fronte ad un videogioco mal fatto, senza capo ne coda, a cui manca la cosa fondamentale e basilare, il senso. Ed è realmente complicato trovare qualcosa, almeno che non sia estemporaneo, da salvare. Alla zero razionalità, si aggiunga che di fronte siamo a un action tutto ritmo, dove si può anche chiudere un occhio, ma tutta l'architettura filmica tracolla con una serie di sospensioni dell'incredulità in continua crescita fino a precipitare nel vuoto quando la resa dei conti si avvicina. E poi, oltre a un inseguimento continuo, con un montaggio surriscaldato, probabilmente necessario per nascondere le magagne di una produzione lontana dalla classe A del cinema a stelle e strisce, è praticamente impossibile trovare qualcosa da salvare (a parte un paio di riprese a tutta velocità) e anche rimanendo ancorati allo stringente contesto, siamo lontani anni luce da un Fast and Furious o un The Transporter pescato a casaccio. Risulta così sprecatissimo Ethan Hawke, in un ruolo che sarebbe calzato a pennello al peggiore Nicolas Cage (di cui sopra), mentre Selena Gomez non ha occasioni per mostrare qualità alcuna (anche se è sempre un bel vedere). Sicuramente il problema principale risiede in una sceneggiatura che non si pone troppe domande e che affonda in un magma di leggerezze, l'unica cosa che parrebbe certa è che in Bulgaria le macchine della polizia abbondano e che i loro piloti non solo amano schiantarsi contro qualunque cosa, ma come sempre le loro auto, si accartocciano come lattine di sardine. Comunque un particolare da salvare c'è, ed è la Shelby Mustang Super Snake, davvero fantastica, la vera e unica protagonista della pellicola che ruba la scena a tutti. Ma tutto in definitiva è già stato visto e rivisto, nulla di che insomma, ma nemmeno nulla di vergognosamente noioso o irritante per un prodotto che nasce e non ha altra ambizione che assicurare un poco di svago senza pensieri, anche se non si capisce, quel mostro sacro di Jon Voight che ci sta a fare? Boh, forse a fare lo specchietto per le allodole insieme agli altri due. Voto: 4,5
Basato sul libro di Bill O'Reilly, il film tv Killing Reagan, andato in onda sul canale National Geographic il 17 gennaio 2017, racconta i momenti antecedenti e successivi all'attentato a Ronald Reagan, avvenuto a Washington il 30 marzo 1981. Docu-drama che quindi offre un'attenta rappresentazione delle conseguenze scaturite dal tentato assassinio del quarantesimo presidente degli Stati Uniti d'America ad opera di John Hinckley. Per cui, la trama percorre due linee narrative, da un lato ci mostra le dinamiche familiari degli Hinckley e il suo difficile rapporto con i genitori, soffermandosi sulla personalità dell'attentatore, un ragazzo inquieto in balia delle sue ossessioni (per la celebre attrice Jodie Foster, sì avete capito bene, e la sua folle ricerca di popolarità), dall'altro ci propone il percorso che porta Reagan alla Casa Bianca, (delineando anche un quadro politico dell'epoca), e in particolare, il suo rapporto con la moglie Nancy. In numerose scene il film tv infatti rivela la forza e l'importanza del rapporto tra Ronald Reagan e la first lady Nancy, la quale svolge un fondamentale ruolo di supporto per il presidente. E sembra quasi ironico che il ruolo sia stato affidato a Cynthia Nixon, un'attrice che è diventata famosa nel mondo grazie al ruolo della cinica e sicuramente non romantica (almeno inizialmente) avvocato di Sex & the City. Anche se va riconosciuto invece che la scelta è stata azzeccata non solo sul piano fisiognomico ma anche su quello della resa della personalità di una donna dedita totalmente al successo del marito ma anche capace di imporgli alcune sue scelte non sempre ortodosse. Ovviamente lo stile narrativo del film tv è idoneo a creare nello spettatore un'atmosfera tensiva che raggiunge il suo apice il 30 marzo 1981, giorno dell'attentato. Ma è dopo che tutto cambia, la vivacità del racconto successiva alla scena dell'attentato difatti evoca il clima di confusione e incertezza che sconvolge i protagonisti e influenza la situazione politica. Le ripercussioni dell'evento affrontate da vari punti di vista, accreditano infatti l'idea che Reagan non si sia davvero più ripreso da quell'evento e che Nancy ne fosse consapevole ed agisse di conseguenza per proteggerlo. Una tesi che però è solo accennata nella fase finale della ricostruzione televisiva targata National Geographic, che mostra sì il lento recupero del Presidente Reagan e l'atteggiamento della sua consorte Nancy, ma non calca molto la mano su questo aspetto in particolare, quanto sul rapporto tra i due che viene seguito sin dalle prime battute del film, parallelamente alle ultime fasi della campagna elettorale che lo vedeva contrapposto a Jimmy Carter. Una fase mostrata per necessità in modo frettoloso e poco approfondito, ma che funziona grazie all'interpretazione dei due protagonisti, entrambi candidati ai Critic's Choice, Tim Matheson (famosissimo attore e regista statunitense, Bonanza) e Cynthia Nixon. È invece Kyle S. More (attore prevalentemente comico) ad impersonare John Hinckley, dando al ragazzo la giusta dose di follia nel mettere in scena la crescente ossessione per Jodie Foster, dall'abbandono del posto di lavoro, il rifiuto di entrare in terapia e i reiterati tentativi di mettersi in contatto con lei ed incontrarla. Un'ossessione che sfocia nella decisione di compiere un atto estremo, per attirare l'attenzione dell'attrice che ovviamente svierà. Quella che però è ancor più interessante è la caratterizzazione del Segretario di Stato Alexander Haig (interpretato da Patrick St. Esprit) che, rispettando ciò che realmente accadde in quei giorni, ne fa il 'bad guy' della situazione, quasi più pericoloso, nella sua smania di controllo, del disagiato psichico Hinckley. C'è un però, se la ricostruzione dell'atto e quindi tutto il segmento centrale del film è efficace, la prima e l'ultima parte di Killing Reagan risentono della necessità di raccontare tanto nei tempi limitati di un unico TV movie, soffrendo quindi di una certa superficialità e frammentarietà nel coprire i mesi narrati dallo script di Eric Simonson. Ma, pur con questi limiti, il film di Rod Lurie risulta una modo interessante di ripercorrere quel drammatico evento e vedere due buoni interpreti al servizio di una coppia fondamentale della storia politica e sociale americana. Da vedere. Voto: 6,5
Un prodotto grottesco ed accattivante che risalta le vicende di uno dei personaggi più biechi della storia contemporanea, questo è Madoff, la miniserie andata in onda su Sky, che racconta la storia del celeberrimo truffatore dell'alta finanza Bernie Madoff, che a sua volta racconta la storia dell'ex broker e presidente del NASDAQ che nel 2009 fu condannato a 150 anni di reclusione per una gigantesca frode finanziaria, un banalissimo 'schema Ponzi', una truffa consistente nel ripagare fraudolentemente gli interessi su degli investimenti mai convertiti in azioni con i fondi derivanti dai nuovi investitori, dando l'impressione che ci sia la possibilità di svincolare in qualsiasi momento i capitali senza che in realtà ci sia la liquidità per farlo. Con Richard Dreyfuss (straordinario e irriconoscibile), nei panni del protagonista e Blythe Danner in quelli di sua moglie, il drama racconta la rapida ascesa e la brusca caduta dell'ex consulente d'investimento, così come le conseguenze delle sue azioni sulla sua famiglia, i soci e gli investitori. La miniserie (targata ABC del 2016) ha la capacità di impegnarsi ma soprattutto di approfondire la malsana concezione di business di Bernard Madoff. Oltre a focalizzarsi sul suo stile di vita, sulle sue angosce e sul suo essere un infallibile calcolatore, Madoff presenta, paradossalmente, un lato tremendamente kitsch, attraverso la strampalata interpretazione di un istrionico Richard Dreyfuss. Convincere il pubblico con un personaggio detestato, quasi odiato, è indicativo di come il celebre attore newyorkese (Incontri Ravvicinati del Terzo Tipo, Lo Squalo, American Graffiti), nonostante tutto, sia stato emotivamente coinvolto con questa interpretazione. La capacità di rimettersi in gioco nonostante l'attempata età in un prodotto televisivo, con un ruolo ed una tematica decisamente fuori dal comune, fortifica ancor di più il valore intrinseco della miniserie. La salace ironia 'immessa' da Dreyfuss nell'interpretazione di Madoff, serve però unicamente per spiegare come la sua pseudo-simpatia e il suo apparente savoir faire, lo rendessero irresistibile agli occhi della collettività solamente per nascondere il suo bieco e malefico arrivismo, disprezzare un personaggio ma saperlo interpretare nella maniera più empatica possibile. Madoff non ha eccezionalità, l'andatura stilistica rievoca molti lavori televisivi, o cinematografici, già contemplati e tendenzialmente apprezzati. Risaltare solamente il protagonista contornandolo da personaggi semi-anonimi o che persistono solamente in funzione ad esso è la prerogativa principale della miniserie. In effetti, Madoff si impegna, almeno in parte, a mostrare l'aspetto umano e non umano di questo illusorio personaggio. Attraverso una sciatta e voluta scenografia, Madoff fa percorrere allo spettatore un vero e proprio 'tour edonistico' senza fine, con questo insostenibile broker che fa da 'capo-cordata'. Affarismo ed elusione sono gli unici due 'verbi' conosciuti da Bernard Madoff, ad affiancare però queste due malsane 'concezioni', persiste una distorta sensibilità da parte del protagonista, che clamorosamente, si contrappone col suo essere un contestabile patriarca. Lo spettatore dunque si ritroverà combattuto con questa grottesca rappresentazione e rimarrà con una domanda. Affezionarsi o vivere con morigerato livore il personaggio? Un interrogativo che verrà risolto solamente contemplando il 'percorso procedurale' di questa accattivante serie tv. Il mezzo televisivo perciò permette, nelle tre ore di visione, di indagare con più attenzione nelle dinamiche interpersonali di uno dei più grandi truffatori del secolo, offrendoci un ritratto al contempo umano e cinico che appassiona e conquista, giocando su diverse tonalità narrative. E l'efficace regia di Raymond De Felitta, sempre attenta in una spettacolarizzazione sobria di un crimine finanziario che ha toccato la vita di tante persone, e la maestosa interpretazione di Richard Dreyfuss (in un cast in stato di grazia) conquistano in pieno, facendo perdonare qualche scorciatoia narrativa. Voto: 6
Solo per rigidità classificatoria lo si definisce con il termine 'documentario'. Ma Napoli '44 (2016), ispirato dall'omonimo best seller dell'ufficiale inglese, Norman Lewis, imbevuto di amarissima ironia e insieme di delicata tenerezza per un'umanità allo sbando, dimostra invece come il vero cinema superi ogni distinzione di genere e come anche un documentario, questo in particolare, debba essere definito a pieno titolo 'film'. Film nel senso di un intreccio d'arte tra immagini e vicende umane narrate entrambe di alto valore storico, poetico esistenziale. Il racconto visivo di un'Italia meridionale stremata dalla guerra e le vicende umane degli abitanti di Napoli e dello scrittore e storico britannico Norman Lewis, subito dopo lo sbarco degli alleati a Salerno, il 9 settembre 1943. A quella data Lewis era ufficiale britannico al seguito dell'esercito americano, assegnato a un reparto speciale che aveva compiti di contatto e comunicazione con le popolazioni e le nuove amministrazioni pubbliche in formazione. Arrivato a Napoli, poco dopo lo sbarco a Salerno, inizia il suo lavoro addentrandosi sempre più nelle piaghe, nelle ferite, nella miseria, nella fame, nell'umiliazione di una città, ma anche nell'empatia che essa (a dispetto di tale disperazione) sprigiona, rimanendone completamente coinvolto. Da questa sua esperienza lo scrittore inglese ha tratto il libro che ha lo stesso titolo del film di Francesco Patierno, il regista. Nel film quindi vediamo e similmente immaginiamo che Norman, dopo molti anni, ritorni a Napoli e ripercorra con la memoria quell'esperienza durissima eppure sublime, ad un tempo con l'occhio del viaggiatore inglese dell'Ottocento e con la prudenza positivista dell'ufficiale del servizio di sicurezza. E sentiamo le parole scarne ma profonde del suo testo letterario, lette in inglese dal geniale giovane attore britannico Benedict Cumberbatch e in italiano dalla voce intensa di Adriano Giannini. Testo, diario dove Norman descrive il ritratto di una città che in quel periodo terribile si arrabattava per ricominciare a vivere, turbolenta e di straordinaria umanità, piena di prostitute (42.000 su 140.000 donne, dice Lewis), di imbrogli surreali, di fede folklorica in S. Gennaro, di mercato nero, di tipologie umane sospese tra il dramma e la commedia (come l'avvocato Lattarullo che per sbarcare il lunario interpreta nei funerali il ruolo dello "zio da Roma"), una città prostrata da bombe miseria e morte ma non vinta, antropologicamente seduttiva. Insomma, un incrocio sapiente di memoria, storia, letteratura, cinema. Perché quello che rende il film imperdibile e drammaticamente bello, è soprattutto merito del regista, poiché le immagini d'archivio (dell'Istituto Luce) e di film su Napoli (tra cui quelli di Totò e Mastroianni, e tanti altri) scelte e montate da lui stesso rendono davvero il senso dello sguardo di Lewis sulla città sventrata da bombardamenti e poi anche dall'eruzione del Vesuvio nel marzo del 1944. Uno sguardo penetrante, anti-retorico, fino al disincanto, al pessimismo esistenziale eppure sempre commosso, attratto da Napoli e dai suoi abitanti, al punto di farne la sua città d'elezione ed esprimere il desiderio di poter rinascere lì. Immagini potenti e iconografiche quindi, quasi come a sottolineare l'intento di raccogliere l'eredità del grande cinema italiano nel raccontare le tragedie del nostro paese con il linguaggio del realismo narrativo. E così, dramma, storia, denuncia civile e poesia esistenziale si fondono in un unicum cinematografico davvero magistrale. Dato che, il montaggio di questi due diversi tipi di immagini si fonde con il testo di Lewis in maniera limpida, naturale, conferendo al tutto un ritmo narrativo che ci restituisce il senso drammatico eppure vitale, pulsante di una grande pagina di Storia. Il merito di tale sincronia ritmico-iconica va alla montatrice Maria Fantastica Valmori, ma anche al regista che al contrario di Lewis, che presumibilmente ha realizzato il libro con un tono quasi distaccato e sobrio, ha utilizzato invece la cifra del coinvolgimento emotivo difronte alle strazianti immagini che a volte presenta. Inutile infatti ribadire l'insensata follia della guerra come barbara scelta politica nella risoluzione dei conflitti tra i popoli e civiltà che inevitabilmente l'umanità si trova periodicamente ad affrontare. Questo film difatti dovrebbe rappresentare un monito per le coscienze, inoltre è un'opera che fa onore alla nostra arte del cinema, perciò se potete non perdetevelo. Voto: 6,5
Ciao Pietro! Devo ammettere che non sono riuscita a vedere nessuno di questi film...peccato! Alcuni sembrano davvero interessanti :-)
RispondiEliminaCiao, alcuni Sono interessanti in effetti, comunque li puoi sempre recuperare in streaming o in altri modi ;)
EliminaNon ne ho visto manco uno, e forse mi interesserebbe solo l'ultimo.
RispondiEliminaGli altri assolutamente non nelle mie corde.
Outcast soprattutto (ahah, ha lo stesso titolo del fumetto e telefilm derivato :p)
Ma... una domanda: non ti converebbe a fare un post per ognuna di queste recensioni?
Moz-
Sì, probabilmente sì, mi converebbe però non sono sicuro sarebbe la scelta giusta, qualche cambiamento dovrei forse farlo ma per adesso non è il caso, ma grazie della dritta ;)
EliminaAmmetto di non averne visto nemmeno uno, come Miki poi m'interesserebbe l'ultimo mentre sugli altri ho dei dubbi.
RispondiEliminaA proposito di Rai, cosa ne pensi delle attuali fiction prodotte? Giusto per mia curiosità.
Beh ti dirò, a parte Jackie & Ryan non ti sei perso niente, comunque l'ultimo è davvero interessante, dovresti vederlo ;)
EliminaCosa ne penso? niente, perché non le vedo e non mi piacciono, le fiction (soprattutto italiane) non fanno per me :)
Mmmm... non ne ho visto nemmeno uno proprio perché nessuno potrebbe piacermi, mentre c'è stata la settimana da Oscar su Mediaset molto interessante. Sarà che sono più commerciale. :p
RispondiEliminaIspy
Eh sì, probabilmente sì, comunque come ho detto a Nick a parte Jackie & Ryan o i due docu-film non ti sei perso niente di davvero interessante ;)
EliminaForse solo The machine e Napoli '44... per il resto pollice versissimo... sai cosa mi sta capitando? Con l'immensa offerta Sky se un film non mi acchiappa tendo a lasciar perdere.. non arrivo manco alla fine. E questo non è bene, perché perdo la possibilità di stroncarlo con una recensione ad hoc, o peggio ancora, cambiare idea e magari ravvedermi in corso di visione. ;)
RispondiEliminaIo invece dovrei cercare più spesso di evitare certi film, cercando di scegliere film che davvero m'ispirano e non tutti quelli che capitano, ma sono curioso di natura ed è più forte di me, ma cambierò prima o poi ;)
EliminaIl documentario su Reagan mi ispira.
RispondiEliminaSi sa no, io e il national geographic channel :)
Si lo so bene, anzi, mi meraviglio di te che non l'hai già visto ;)
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