È da poco cominciata l'estate, ma in questa settimana più che il sole a picchiare è la pioggia, imperterrita pioggia che non smette di scendere, che spero finisca presto per cominciare a godere delle miti e piacevoli temperature del periodo. Al contrario per quanto riguarda la cinematografia e il mio cinema, a splendere sono alcune pellicole, perché certo, questa rubrica è nata proprio per contenere buoni film, tuttavia interessanti sorprese sono capitate in questo, ancora del tutto primaverile, mese. Mese che non ha riservato in ogni caso nessuna sorpresa o novità nella vita reale, realtà che proprio oggi tuttavia mi permette di festeggiare il mio onomastico senza nessun relativo fastidio psico-fisico, in tranquillità e in pace, nonostante tutto. Ora però concentriamoci sui film, gli altri film, quelli dalla sufficienza e oltre, che ho visto e che vi consiglio di vedere, che sono sei, e tutti, chi più chi meno, interessanti e da apprezzare.
Dopo il successo in patria e all'estero di Giù al Nord, Dany Boon ha continuato nella sua opera di rappresentazione di personaggi che sembrano usciti dalla commedia dell'arte, come l'ipocondriaco di Supercondriaco, il doganiere di Niente da dichiarare o il personaggio di questo film. Incentrato totalmente sulla sua figura e la sua vis comica, Un tirchio quasi perfetto (Radin!), è un film che fa sorridere in più momenti (gli stratagemmi per non partecipare alla colletta per il regalo a un collega che si pensiona, la riunione di condominio, e così via), proprio perché parla di un insegnante di violino che ha un enorme difetto, è avaro come pochi (roba che in confronto l'Avaro di Molière risulta uno scialacquatore di denari), è un film forse prevedibile perché l'arrivo di due donne nella sua vita lo costringeranno a bruschi cambiamenti e ad uno scontato cambio di prospettiva finale, ma è anche altro. Il film infatti, un film pur leggero ma da non sottovalutare, una commedia semplice, intelligente e ben congegnata, che non si limita a scimmiottare una cattiva postura esistenziale quale l'avarizia tout court, ma al contrario prende di petto la vicenda, non raccontando un vizio in modo accessorio o superficiale, ma riferendosi ad una vera e propria malattia tale da rendere un'esistenza praticamente invivibile, è un film che fa riflettere. Perché sì, si ride, ma si finisce persino col riflettere su atteggiamenti e storture che, se non affrontate con massima determinazione e serietà, rischiano di condizionare pericolosamente l'esistenza umana, privandola della magia che il solo contatto con gli altri può elargire a tutti noi. Dato che quando si è abituati a vivere in un certo modo, diventa difficile modificare il proprio stile di vita, almeno finché all'improvviso non subentrano delle inaspettate novità che rendono necessario il cambiamento. Ed è appunto questo quello che avviene in Un tirchio quasi perfetto, un film certamente spensierato ma non del tutto disimpegnato (se è vero, come è vero, che l'avarizia è una condanna, che alla fine lascia soli e infelici), un film che riesce a divertire, sfruttando a dovere i suoi attori in momenti esilaranti che non temono di flirtare con l'assurdo. Lo spettatore difatti ride di gusto, in virtù di una estrema onestà attraverso cui viene affrontato il tema della fobia. Un prodotto per questo credibile e piacevole, in tal senso comunque senza troppe pretese, che si regge dignitosamente sulla maestria di Dany Boon. L'attore francese infatti, che possiede una maschera versatile ed espressiva davvero invidiabile, riesce a trasmettere tutto il potenziale comico del personaggio, tra disperate urla in risposta a fattori "costosi", smorfie e momenti di tensione dovuti allo spaventoso e pericolosissimo arrivo del cameriere col conto alquanto salato (nella scena migliore della pellicola, il culmine dei suoi isterismi, con annesso l'omaggio di "Shining"), ma riesce anche ad essere credibile nelle sequenze ricolme di lacrime. La regia, curata e ben sfumata (creando così equilibrio tra scene comiche e drammatiche, permettendo in tal modo allo spettatore di immergersi appieno nella vita del protagonista e, talvolta, di capire i suoi atteggiamenti), è di Fred Cavayé che, anche in veste di co-sceneggiatore, realizza quindi un filmetto leggero, grazioso, un po' buonista e forse a tratti smielato, ma comunque in grado di strappare, grazie a dialoghi pervasi di una forte e intelligente ironia (elemento che porta il pubblico a ridere di gusto e a voler proseguire nella visione per vedere cosa accadrà di altrettanto esilarante di lì a poco), non poche risate, ma anche come detto altro. Insomma un Un tirchio quasi perfetto, grazie anche ad una fotografia pulita, ad una colonna sonora mai fuori luogo e che segue con grazia il susseguirsi delle scene (bella l'introduzione musicale), e grazie soprattutto ad un caratterista d'eccezione (senza dimenticare tutti gli attori perfettamente in parte) riesce nel suo intento di divertente e far riflettere (com'è solita la commedia francese). Certo, in verità non che sia proprio un granché, tuttavia una sufficienza è innegabilmente meritata ad un film sicuramente bello, interessante e da vedere (in attesa di una probabile versione italiana che spero tuttavia mai arriverà). Voto: 6
Noto soprattutto per il ruolo del detective Pedro nel bel thriller noir La isla mínima di Alberto Rodríguez, Raúl Arévalo esordisce alla regia con La vendetta di un uomo tranquillo (in originale Tarde para la ira), vincendo quattro premi Goya nel 2017, tra cui miglior film, miglior regista esordiente e miglior sceneggiatura originale. Ed è proprio da quell'incredibile film, in cui si fece discretamente notare, vincitore di altrettanti e più premi Goya che il regista assorbe una certa maestria nella composizione delle atmosfere, nella capacità di inserire gli attori in un quadro/contesto in cui sembrano annaspare, e da cui ne segue le coordinate del genere thriller. Anche se il film non è certo un dramma sentimentale né un heist movie né un thriller poliziesco, bensì ennesima versione sul tema della vendetta, indirizzata sui binari convenzionali del genere quindi non esattamente originale, ma non priva di una propria personalità, piacevole in quanto strutturata narrativamente in maniera interessante e votata, più che alle esplosioni di violenza (che comunque non mancano), ad un'attenta definizione dei personaggi e all'analisi di quel bisogno catartico che diventa urgenza spietata. Il film infatti, è un noir (con improvvisi scatti nervosi, atti a concretizzare la rabbia primordiale covata per anni da uno dei personaggi) in continua tensione, senza pause narrative o segni di cedimento strutturale. Solido come una costruzione in calcestruzzo e tagliente come una lama. La storia certo, anche se all'inizio sembra altro, è per l'appunto la più classica delle vendette (non aiuta in tal senso la traduzione del titolo in italiano, che tende al didascalico, perdendo le sfumature di fatalismo disilluso dell'originale "Tardi per la rabbia"), che racconta la storia di un uomo, di un prima e di un dopo e un determinato avvenimento, ma questo gioco a carte coperte, una specie di partita condotta sul bluff, sull'abilità nel nascondersi e nell'ingannare l'avversario del regista, è davvero sorprendente, spiazzante e coinvolgente. Non a caso la narrazione è diretta, senza perder tempo e senza perdersi in "pippe" stilistiche o peggio ancora moralistiche. Certo, inizia lento e riflessivo, mostrando la stanca quotidianità di un quartiere mai troppo definito della penisola iberica, ma minuto dopo minuto il film (ben girato, con una recitazione sobria e asciutta, mai sbracato o sguaiato e anche le scene di violenza sono essenziali, senza indulgere troppo in compiacimenti gratuiti) inizia a denotare qualcosa di diverso, inizia a crescere nel ritmo e nel racconto dei fatti. La fotografia cresce con noi, se questo si può dire, diventando via via più nitida nei colori e nelle forme, man mano che il protagonista guadagna lucidità e decisione. In tal senso molto buona la prima parte, ingarbugliata il giusto e preparatoria verso un secondo atto più scontato ma solido, in cui i twist (e un bel colpo di scena, poco prima della conclusione) fanno il loro dovere e la noia resta in disparte alla faccia dell'abbondanza di cliché. Raúl Arévalo infatti, è stato capace (nonostante ciò) di raccontare una bella storia senza scopiazzare gli stilemi d'oltreoceano, creando così un thriller/noir di periferia e di quartiere dove a vincere sono la cattiveria insospettabile e la cattiveria degli insospettabili. Una buona pellicola d'esordio insomma, molto tesa e abilmente affidata alla ottima coppia d'attori Luis Callejo/Antonio de la Torre (che mi aveva già sorpreso nel thriller Che Dio ci perdoni), più la Ruth Díaz a cui è stato dato il premio per la migliore interpretazione in Orizzonti (la 73ª Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia nel 2016), il cui personaggio vede vacillare i propri sogni di un cambiamento radicale della propria vita. Una pellicola comunque non perfetta, anche se veniali sono un paio di incongruenze di sceneggiatura, non eccezionale, ma nel complesso bella, intensa, discreta e ovviamente da vedere, che conferma come il cinema spagnolo (ultimamente sempre più attivo e qualitativamente ottimo) è più vitale del nostro nel trattare i generi. Voto: 7
Terza regia di Peter Berg basata su eventi realmente accaduti dopo Lone Survivor e Deepwater: Inferno sull'oceano, Boston: Caccia all'uomo, film del 2016 diretto dal regista (e attore) statunitense, si pone come un operazione altamente spettacolare ed efficace nel richiamare alla memoria un fatto di sangue, pur soffrendo di un evidente patriottismo che ideologicamente ne assottiglia il valore. Non a caso Patriots Day, che è l'adattamento del libro "Boston Strong" che narra gli accadimenti dell'attentato alla maratona di Boston e della conseguente ricerca dei terroristi che l'hanno compiuta, è l'ennesimo film che rispecchia i pregi ed i difetti di Peter Berg. Il film infatti, nonostante la retorica dell'eroismo e dell'impegno civico, qui tuttavia in quantità più visibile e ancor più profuso, è comunque un lavoro di buonissimo livello, che riesce a coinvolgere e appassionare lo spettatore dall'inizio del film grazie anche all'ottimo cast. Perché bisogna dare atto al regista di saper fare il suo mestiere specialmente quando ci si immerge nella caccia all'uomo notturna dei due fuggitivi, c'è ritmo e tensione, i momenti d'azione sono orchestrati molto bene e le scene dell'esplosione sono veramente concitate, rendendo bene la sensazione di caos e smarrimento di un evento sportivo che diventa drammaticamente tragico. Il regista difatti (che alterna sapientemente diversi stili registici), puntando sulla drammaticità, sulle emozioni, sul realismo e sui cittadini di Boston (in divisa e gente comune) che hanno unito le forze per cercare di stanare i terroristi, riesce bene a coniugare tutti gli aspetti, rendendo Boston: Caccia all'uomo un film dai toni patriottici, ma non eccessivo, che riesce a farti provare empatia con le vittime, e senza tanti pietismi (anche se non proprio efficace è la storia d'amore tra un giovane poliziotto e una studentessa del Mit o quella dell'asiatico Manny). Certo, non sempre il ritmo rimane costante e magari alcune scene anzi sono eccessivamente lente, certo, la colonna sonora è tutto sommato anonima e non sempre in grado di supportare la messa in scena, è certamente da rivedere la caratterizzazione dei personaggi, un po' tutti tagliati con l'accetta, non ci sono caratteri sfaccettati, solo buoni o cattivi insomma, ma nell'insieme Boston: Caccia all'uomo, è una pellicola interessante, ben costruita che riesce a farti immergere nella storia. Storia che parte dalle vicende di persone comuni che si ritroveranno riunite nella stessa tragedia, e che dopo l'attentato (mostrato in maniera obiettiva, senza eccessiva enfasi o cinica spettacolarizzazione) ci porterà a seguire da vicino l'operato delle forze dell'ordine. Questo grazie sicuramente anche alla buona prova degli attori che sono stati scelti, a partire dal protagonista Mark Wahlberg, ormai punto fisso del regista alla sua terza collaborazione consecutiva con l'attore, che riesce a mostrare diverse sfaccettature dell'agente (comunque inventato) Saunders, a mostrarci il suo dolore e il suo cambiamento. Accanto a lui non deludono neanche Kevin Bacon, John Goodman e J. K. Simmons. Deludente, invece, l'approfondimento di alcuni personaggi che avrebbe meritato una maggiore attenzione (e non solo Michelle Monaghan, Rachel Brosnahan e Melissa Benoist). Inoltre sarebbe stato un ottimo film se avesse tenuto ancor di più a bada la retorica. Perché il film è godibile e ci sono svariati momenti di tensione e diverse sequenze intense, inclusa una grandiosa e lunga sparatoria, che ricorda quelle dei film di Michael Mann (questi produttore di altri film di Berg) per lo stile visivo e sonoro, ma sarebbe stato meglio essere meno patriottico. In ogni caso però, questo action thriller dal finale risaputo non annoia, poiché seppur meno diretto di "Deepwater" e auto-celebrativo, è comunque efficace e tiene la tensione alta per tutta la durata. E in questi casi non si può certo chiedere di più, anche se poi in fin dei conti, è questo un film non eccezionale. Voto: 6,5
L'esordio alla regia di Marco Danieli porta con sé un interessante, bello ed alquanto originale dramma romantico, La ragazza del mondo, film del 2016 diretto dal regista di Tivoli che, grazie a questa pellicola ha vinto il David di Donatello per il miglior regista esordiente. Il film infatti, che non è solo la classica storia d'amore di due giovani "disadattati", che non è un film sul fanatismo religioso (con accenti di forte critica), racconta di una (intensa) crescita (di una giovane ragazza ingabbiata dalle rigide, ferree ed ambigue regole dei figli di Geova) che si concretizza nella conquista della libertà, percorso faticoso e necessario per chi non vuole rinunciare alla propria identità (e all'amore). Non a caso La Ragazza del Mondo non si limita a raccontare una pura e semplice relazione sentimentale travagliata ed ostacolata, ma in particolar modo quanto certi "gruppi" o congregazioni nella società, quale possa essere appunto la comunità dei Testimoni i Geova, condizionino in maniera preponderante ed assurda chi ne fa parte. Ma in questo caso particolare il regista (che non esprime alcun giudizio, lo fa lo spettatore, assistendo a situazioni, meticolosamente descritte, che non possono tuttavia non provocare ripugnanza), più che esprimere una condanna diretta ai Testimoni di Geova, condanna in generale (e descritto registicamente quanto mai egregiamente e chiaramente) un forte e quanto mai castrante condizionamento, nonché addirittura accecamento, da parte di certe dottrine o "sette", dopotutto Geova è solo uno dei possibili despoti, così come lo è la famiglia, così come lo diventa il ragazzo problematico di cui la ragazza si innamora. E la giovane protagonista viene, infatti, presentata come fortemente condizionata e giudicata, per non dire addirittura ostacolata, nel suo modo di pensare ed agire come individuo libero, dalle ferree regole a capo dell'intero assetto religioso di cui fa parte che sempre di più la allontanano dalla realtà quotidiana e dal contatto diretto col mondo esterno, sebbene questo in netta contrapposizione ed addirittura, per il suo ragazzo, "borderline". Ma sarà proprio questa estrema e così differente realtà che fortunatamente indirizzerà la protagonista verso un futuro sicuramente più consono e promettente. Perché lasciando perdere i giudizi sul credo religioso e i suoi estremismi, e quindi non conoscendo Geova e le sue congregazioni evito di parlare di cose che ignoro, queste tappe di un cammino salvifico, ma doloroso come una Via Crucis, è più che giustificato e giusto, insomma bello e importante. E perciò anche La ragazza del mondo è un bel film, che tuttavia non diventa ottimo per alcuni vuoti della sceneggiatura. Le dinamiche evolvono infatti per scatti bruschi, troppo tardi e repentina la definitiva presa di coscienza di Giulia (in tal senso non eccezionale il finale, leggermente fiacco, freddo e visibilmente artefatto che lascia parecchio amaro in bocca per come viene presentato e che, a mio avviso, abbassa il voto e la considerazione positiva che ho avuto in corso d'opera), inoltre poco lavorato il personaggio di Lui. Ma nonostante ciò, e grazie al ritmo che si mantiene su livelli costanti senza calare quasi mai di tono, alla regia non male e ai dialoghi, che vengono presentati con una certa forza e vivacità, non dimenticando il cast all'altezza, efficace la bella Sara Serraiocco e Michele Riondino (migliorato leggermente dal mediocre Falchi, anche se quest'ultimo è arrivato dopo) i quali ben impersonano i due protagonisti innamorati (anche se lui è limitato da un personaggio stereotipato, lei invece abilissima nel lavorare con il linguaggio minimale consentito al suo personaggio e ne svela la forza con lampi che balenano repentini) il film merita ampiamente la sufficienza. Perché se anche in verità il film pecchi un po' di approfondimento psicologico, esso, di cui rimane innegabile la dimostrazione di come i dogmi religiosi siano pesanti, settari e a volte violenti verso chi non riesce più a rispettarne le regole di appartenenza, merita una visione e giudizi positivi. Voto: 6+
Il regista Derek Cianfrance non è estraneo al racconto del sentimento, del dolore e della perdita: Blue Valentine, il suo primo lungometraggio, era il racconto di un amore e della sua fine, narrato attraverso un complesso incrocio di piani temporali, mentre Come un tuono era la storia di due padri e due figli, divisi dalla legge e dalla violenza. Per questo suo terzo film adatta il romanzo di M.L. Stedman di qualche anno fa e si immerge in una cornice temporale remota, quella dell'Australia del primo dopoguerra mondiale. Infatti La luce sugli oceani (The Light Between Oceans), film del 2016 scritto e diretto dal regista, sceneggiatore, direttore della fotografia e montatore statunitense, un film indiscutibilmente raffinato, delicato e poetico che racconta di un guardiano del faro e della moglie (interpretati da una coppia altresì "reale" Michael Fassbender e Alicia Vikander) che si ritrovano di fronte a un dilemma morale quando salvano da una barca alla deriva una bambina di pochi mesi, e che decidendo di crescere la piccola come figlia loro, vivranno sulla loro pelle le conseguenze devastanti della scelta, è un film intimista e doloroso. Un film umano insomma, dopotutto Derek Cianfrance è un umanista, e lo è sempre stato. Un umanista estremo, per certi versi, capace di raccontare storie universali attraverso l'individualità, e sempre con tocco autoriale: lo aveva fatto anche in precedenza (e sempre con buoni risultati) e l'ha fatto anche qui, anche se seppur La luce sugli oceani è un'opera complessa sia dal punto di vista emotivo sia tecnico, alcune scelte di regia sono alquanto discutibili. Tanto che il risultato finale di quest'opera cinematografica lascia un amaro e disatteso senso di incompiutezza, come se mancasse sempre qualcosa benché abbia di tutto al suo interno, compresi degli attori di calibro indiscusso e una meravigliosa fotografia naturale, con sequenze suggestive e incantevoli dell'oceano, della brughiera, della natura selvaggia dell'isola australe dov'è ambientato. Sfortunatamente però il soggetto, talmente ricco di spunti di riflessione e argomenti da trattare (dopotutto molti sono i temi trattati nella pellicola, a partire dal dolore per la perdita di un figlio provato da lei per poi arrivare al senso di colpa che diventa sempre più ingombrante nella vita di lui), viene mal gestito e sviluppato, facendo in modo che il tutto resti abbastanza superficiale. Il regista insomma non riesce a scavare benissimo a fondo nei sentimenti umani e resta soltanto in superficie, fotografandoli da lontano, quasi da una distanza di sicurezza, sprecando così un soggetto altamente promettente. Partendo infatti dal pretesto del miracoloso ritrovamento della bambina il film dovrebbe far luce su molteplici questioni morali, sul peso delle proprie azioni e di come costoro generino conseguenze talvolta impossibili da accettare e sopportare, ci riesce certamente, però tutti gli intrecci di storie, vite e destini diversi che si affastellano non riescono a far appassionare ed emozionare il pubblico come ci si aspetta. Difatti non si percepisce mai lo stesso pathos o dolore dei protagonisti, lo si osserva a distanza ma non lo si prova. Ecco allora emergere il difetto principale della pellicola (che altresì ha un andamento troppo veloce e frammentario): non coinvolge, non emoziona, non commuove. Quest'ultimo è forse il difetto maggiore di una pellicola che si rivolge principalmente (forse troppo) alle anime sensibili delle donne. Derek Cianfrance confeziona quindi un melodramma d'epoca, raffinato e delicato che affronta tematiche importanti che spaziano dalla crisi di coppia, all'impossibilità di avere dei figli e le devastanti conseguenze psicologiche che ne derivano, un film che dal punto di vista recitativo conferma la bravura dei suoi attori (dalla bella e qui convincente Alicia Vikander, come convincente risulta anche la bella e sofferta Rachel Weisz che sembra uscire da una tragedia Greca, più algido e misurato risulta invece Michael Fassbender che comunque riesce a non sfigurare al cospetto di due attrici impegnate, facendo emergere bene il lato di un uomo provato dalla guerra e dal ferreo codice morale), ma purtroppo questo fiume in piena di sentimenti ed emozioni non scalfisce a dovere lo spettatore, non crea un legame col pubblico ma si limita a rappresentarlo in modo assolutamente valido (stilisticamente e tecnicamente) ma altresì emotivamente distaccato. In definitiva, si tratta di un buon film, un prodotto più che interessante che purtroppo non riesce mai a far breccia nello spettatore nonostante i contenuti promettenti e importanti. Tuttavia, anche se non sarà affascinante graficamente o tecnicamente quanto Blue Valentine e Come un Tuono, ma La luce sugli oceani, esteticamente, visivamente molto bello, raffinato e curato seppur emotivamente poco coinvolgente, è un film, con un'ottima fotografia, discreti costumi e suggestiva scenografia, consigliabile. Voto: 6
Melodramma psicologico dai ritmi lenti ma che costringe lo spettatore alla massima attenzione poiché avvince come un thriller tenendoti sul filo del rasoio fino ai titoli di coda, questo è Father and son (Like Father, like Son), film del 2013 scritto e diretto da Hirokazu Kore'eda. Il regista giapponese infatti, mette sul grande schermo una storia familiare intima e delicata, un film per questo toccante, delicato e drammatico che spinge il pubblico ad una riflessione seppur tutto sommato semplice ma profonda. Difatti questa pellicola affronta in maniera dettagliata e profonda il delicato e serio problema della paternità (facendo scaturire in tal senso svariate riflessioni): se questa cioè sia determinata dai legami del sangue oppure da quelli affettivi che si consolidano via via nel tempo tra i vari componenti di una famiglia. Non a caso il film, che racconta di una coppia felicemente sposata e benestante, genitori di un bambino di 6 anni che alle soglie della scuola che conta (corrispettivo italiano delle elementari ovvero scuola primaria) riceve la sconvolgente notizia dall'Ospedale che il figlio è stato scambiato alla nascita (e al contrario del film Il 7 e l'8 da ridere non c'è niente), ci pone di fronte a sconvolgenti ed angoscianti dilemmi, infatti entrambe le coppie a cui è stato sostituito il proprio figlio biologico con quello dell'altra, sono confuse, sconvolte e contrarie all'idea di lasciare e soprattutto sostituire, come se fossero dei semplici oggetti, il figlio creduto loro ed allevato come tale con quello naturale. Insomma, la difficoltà presentata in maniera misurata in questo film è proprio la lotta interna dei sentimenti che non cancella affatto l'affetto e l'amore e la complicità sviluppatesi nel corso degli anni di crescita insieme al figlio allevato come proprio ed il sorgere nel frattempo di sentimenti nuovi nei confronti del bambino biologicamente proprio. E quindi in quasi due ore di analisi psicologica, come la durata dell'intera pellicola, conosceremo le reazioni dei vari personaggi, adulti o meno, che tuttavia non eccedono mai in isterismi come immagino sarebbe accaduto se la vicenda avesse riguardato una famiglia italiana. Personalmente ho gradito tale pacatezza (tipicamente orientale) poiché ha lasciato spazio alla riflessione dello spettatore evitando di far distogliere l'attenzione sulle "mattate" istrioniche di qualche bravo attore. Avvince e fa riflettere toccando forse le corde più sensibili dell'anima soprattutto di coloro che hanno la fortuna di essere genitori (ma anche chi non lo è), con un finale toccante e fortunatamente non ambiguo, com'era invece presumibile fin dall'inizio. Giacché entrambe le famiglie, dopo numerosi dubbi, incertezze e titubanze riusciranno a risolvere la questione nella maniera più sensata (mettendo in atto le azioni che si reputano meno dolorose per tutti) e soprattutto più confacente ed ottimale per il bene dei propri figli. Father and Son è per questo non solo un bel film (Premio della Giuria al Festival di Cannes), ma è uno di quei rari film a cui l'aggettivo meraviglioso (altresì emozionante) calza a pennello, perché anche se a tratti risulta essere forse un po' prolisso e "lento", per usare un termine poco elegante, riesce comunque a far confluire in esso le caratteristiche necessarie per un buon film, dalla sceneggiatura al cast, dalla sceneggiatura alla raffinata fotografia. Ma quello che conta di più è che Father and Son è un'opera commovente, di grande tristezza, ma che alla fine spesso strappa dei sinceri sorrisi: è infatti un'opera sincera e toccante sul rapporto padre figlio. Ma è soprattutto un inno all'infanzia, quel mondo meraviglioso, che spesso però è vittima delle controversie tra adulti, incapaci di capire i loro figli. In tal senso molto credibili risultano tutti i quattro attori che interpretano i componenti delle due famiglie, peraltro assai diverse tra loro per estrazione sociale ed educazione, nonché i bambini che esprimono molto efficacemente lo spaesamento e la confusione provati di fronte ad una realtà per loro poco comprensibile e sicuramente assai più grande di loro. In definitiva perciò, anche se questo non è forse un capolavoro (perché non è perfetto e non del tutto eccezionale), è un film interessante e toccante allo stesso tempo, un film di dolcezza rara che rimane nel cuore, un film da consigliare, vedere e assolutamente perciò da non perdere. Voto: 7
Ciao! Concordo su "Un tirchio quasi perfetto", io avevo riso un sacco :-)
RispondiEliminaE pensare che io in verità un po' lo sono anche tirchio, tuttavia ora non più :D
EliminaNon ne ho visto neanche uno, comunque grazie per le recensioni!😊
RispondiEliminaGrazie a te, e se dovessi vederne uno spero ti piaccia ;)
EliminaSui due di questi che ho visto (Boston caccia all'uomo e La vendetta di un uomo tranquillo) concordo con quanto hai scritto e con il giudizio finale. Piacevole ma non eccezionale il primo, decisamente interessante il secondo, pur se con situazioni già viste...
RispondiEliminaCiao
Vincenzo
Concordo anch'io con te con quello che hai scritto sui due film ;)
EliminaMi piace sempre leggerti, soprattutto quando devo decidere se guardare o meno un film...darò una possibilità alla La Ragazza del Mondo! La Luce sugli Oceano l'ho mollato a metà film proprio perché non mi coinvolgeva, anzi mi annoiava!
RispondiEliminaGrazie, e spero quindi di esser stato e di essere d'aiuto nella scelta, e che ovviamente ti piaccia come è piaciuto a me, sperando che per quanto riguarda La luce sugli oceani sia stata solo una sporadica distanza (in parte) di pareri ;)
Eliminaho visto pochi film nell'ultimo periodo, ma nessuno di questo mi ispira...
RispondiEliminaalcuni, come "La ragazza del mondo", l'ho evitato come la peste
I periodi di magra capitano a tutti, comunque anch'io leggendo la trama l'avrei evitato senza pensarci due volte, ma non l'ho fatto e fortunatamente mi è andata sufficientemente bene..
EliminaUn tirchio quasi perfetto devo assolutamente vederlo. Adoro Dany Boon! Grazie per avermelo segnalato, fino ad ora non conoscevo questo titolo.
RispondiEliminaFelice di esserti stato d'aiuto, comunque anche a me piace Dany Boon ;)
EliminaSu Un tirchio quasi perfetto potrei fare eccezione.. gli altri li bypasserò senza problemi... ;)
RispondiEliminaPer me potresti farla anche per La vendetta di un uomo tranquillo, ma va bene così ;)
EliminaFather and son è bellissimo :)
RispondiEliminaGià, anche se non è un capolavoro ;)
EliminaMi segno i primi 3 e in caso ripasso per dirti la mia! 😉
RispondiEliminaVa bene ;)
EliminaHo visto solamente La vendetta di un uomo tranquillo e l'ho trovato davvero ben fatto, bravo il regista nel non rendere il protagonista un eroe ma solamente nel narrare il suo desiderio di vendetta senza prendere una posizione precisa.
RispondiEliminaPer quanto riguarda gli altri film, non so se mai li guarderò sinceramente, non mi ispira nemmeno uno di questi - forse forse solo quello con la fikander... Vikander -.
Non a caso speravo che fosse davvero come tu l'avevi giudicato, io sono rimasto un po' più "freddo" nel voto ma alla fine conciliamo su un film non originale, ma proprio ben fatto ;)
EliminaLei dopotutto è sempre un piacere vedere, quindi un sacrificio può essere fatto :)