Ero indeciso se vedere prima il film o la serie, poi quest'ultima è approdata su Sky e non ci sono stati più dubbi, ho visto la serie e ho fatto anche bene, anche se il film prima o poi lo recupero ugualmente, anche solo per vedere le differenze tra i due lavori, tra due mondi, tra due modi simili eppure così differenti di approcciare un racconto, di trarne conclusioni e costruire un universo narrativo partendo da un evento vecchio di quarantacinque anni. Sì perché Trust: Il rapimento Getty, la nuova serie tv antologica della rete via cavo FX (quello di Sons of Anarchy, The Americans e Fargo, per fare qualche nome) andata in onda in Italia (e conclusasi settimane fa) su Sky Atlantic, è incentrata sulla stessa vicenda, la stessa storia portata sul grande schermo pochi mesi fa da Ridley Scott in Tutti i soldi del mondo. Una cosa che certamente potrebbe non piacere a chi si troverebbe davanti, a pochi mesi di distanza, la stessa storia, peraltro vera e quindi dal finale già ben noto. Ma se non si conosce (neppure parzialmente) la suddetta storia o non si è vista la pellicola (come nel mio caso) ci si potrebbe trovarsi di fronte ad una serie sorprendente e appassionante, una serie che meriterebbe molta più attenzione (basta infatti guardare il primo episodio di Trust per capire che la serie merita, e parecchio), non solo perché questa nuova serie ideata, scritta e diretta, almeno nei primi episodi, da Simon Beaufoy e Danny Boyle, già coppia da Oscar per The Millionaire, è una serie che eccelle in tutti i campi, ma perché essa offre l'incredibile possibilità (già avvenuta in passato ma non a così pochi mesi di distanza) di vedere come due diversi approcci affrontano lo stesso episodio. La serie difatti, offre la perfetta opportunità per capire quali possano essere oggi le differenze tra cinema e serie tv (anche se in questo suddetto caso non posso fare ancora nessun confronto). Una differenza che sta principalmente nella sua durata (non a caso in Trust le cose sono molto differenti e i tempi molto più dilatati), e il dubbio in questo caso è, soprattutto dopo averla vista, può riuscire un film ad approfondire una vicenda così controversa, complessa e ricca di sfumature come questa?
Perché è chiaro che anche senza aver visto il film, che mentre la pellicola di Scott si potrebbe focalizzare, e tuttavia il film deve pur sempre e necessariamente prendere una strada ben precisa e concentrarsi sulla cosa più importante, ovvero solo sul rapimento, la serie, che accende i riflettori sugli aspetti più intimi, ricreando l'universo all'interno del quale si svolge la vicenda, non lasci da parte nessun aspetto, nessun personaggio, nessuna sfumatura (dove il sequestro risulta essere solo il pretesto da cui partire per raccontare qualcosa di più grande), anche se qui in ogni caso alcune cose potevano essere messe da parte, per esempio inutile (e uno dei pochi evidenti difetti riscontrabili) è la sotto-trama del fidato maggiordomo del magnate Getty. Andando più nello specifico infatti, Trust si preoccupa di scavare a fondo negli scheletri nell'armadio di una famiglia che per decenni ha monopolizzato l'economia mondiale. Petrolio, finanza, immobiliare, arte: i tentacoli di Paul Getty Sr. non hanno confini. Tuttavia, mentre l'attività imprenditoriale regala continui successi al patriarca Getty, non si può dire lo stesso della vita familiare. Figli inadatti ed inadeguati a proseguire l'impero del padre, cortigiane e amanti, droga: il vecchio Paul non ha eredi che lo soddisfino nel suo albero genealogico. E, come se non bastasse, la mafia calabrese decide di rapire il nipote a Roma e di chiedere un grosso riscatto. Ma Paul Getty Sr. non è disposto a sborsare un centesimo. La sceneggiatura perciò, che con il vantaggio di potersi prendere più tempo rispetto al film può approfondire di più il passato (attraverso l'uso di lunghi flashback) di ogni singolo elemento della famiglia e di chi le ruota intorno (cercando così di rispondere alla continua domanda che lo spettatore si pone: com'è possibile tale astio fra i componenti della famiglia?), fa in modo che non ci sia un vero e proprio protagonista e dà spessore ad ogni personaggio che compare sullo schermo, identificandolo e rendendolo riconoscibile al pubblico.
Il Getty di Donald Sutherland è avaro, lussurioso, viziato e ossessionato dal denaro, il figlio John Paul Getty Jr si rifugia nelle droghe nella speranza inutile di ricevere l'approvazione del padre, l'ex moglie Gail (Hilary Swank) è tanto determinata quanto accecata dall'amore incondizionato che prova per il figlio, e il giovane hippy Paul (il talentuoso Harris Dickinson) persegue gli ideali "peace and love" che gli impediscono di provare rancore nei confronti della famiglia che lo ha abbandonato a sé stesso. A fare da contraltare a questo vortice di irrazionalità oltre ai rapinatori (tra cui spicca un Luca Marinelli semplicemente perfetto nel ruolo dello spietato di Primo) c'è la spalla destra del vecchio Getty, Fletcher Chase (Brendan Fraser) che in ben due episodi si fa narratore e sfonda in modo irriverente la quarta parete per parlare direttamente con lo spettatore ed evidenziare (arrivando quasi a ridicolizzarli) i retroscena più scottanti e assurdi dell'intera vicenda. Perché anche se non è assolutamente una novità, anzi, grazie a ciò egli crea un interessante e avvincente ponte tra gli eventi e le inevitabili conseguenze. Sarà perché sono accadute, sarà perché vengono adattate ad un linguaggio cinematografico, ma le storie vere (e la storia della famiglia Getty è ovviamente molto affascinante e intrigante) sono la maggior parte delle volte quelle che sorprendono e catturano maggiormente. Ovviamente non tutte vengono riadattate al meglio, ma il rapimento Getty raccontato in Trust funziona magnificamente, soprattutto per la spettacolare sceneggiatura, sceneggiatura che riesce davvero a rendere al meglio la complessità delle dinamiche di casa Getty. Ogni puntata per questo passa velocemente, anche troppo, ma non lascia insoddisfatti. Proprio perché Beaufoy e Boyle riescono a bilanciare alla perfezione il tempo a disposizione per trattare ogni personaggio. La caratterizzazione di questi infatti, e come detto, è pressoché immediata. Non ci sono particolari crescite e proprio per questo rimane fedele a ciò che racconta, ovvero le vite di persone testarde, boriose, troppo narcisiste per cambiare il loro modo di essere. Troppo presuntuose per ammettere la "sconfitta".
Il tutto sorretto da una certa leggerezza nel raccontare i fatti, che spesso si trasforma in irriverenza verso lo spettatore. Chi osserva deve essere consapevole che non sta guardando la "solita serie". Deve capire fin da subito che se sta cercando il prodotto documentaristico che racconta in modo preciso ciò che è accaduto in quel fatidico 1973, ha sbagliato luogo. Per quello c'è Google. Poiché Trust si distacca subito da tutto ciò che il piccolo schermo ci ha abituati a guardare. Niente di rivoluzionario, sia chiaro, eppure Trust è esempio brillante ed esemplare di equilibrio tra solida scrittura, rispetto per l'evento cronachistico divagazione artistica. E in tal senso non c'è niente di più bello che trovare una serie che ti intrattenga dall'inizio alla fine, prodigandosi in un continuo crescendo. Trust è una di quelle serie. La creazione di Danny Boyle (anche regista dell'ormai cult Trainspotting, e del suo sequel T2: Trainspotting) è infatti la riprova (giacché la qualità in generale della regia ricorda molto più da vicino un film che non una serie tv) che unire elementi provenienti dal mondo cinematografico con le basi della produzione televisiva (che in parte disconosce quindi la tesi della differenza di genere fatta all'inizio) può fare solo che bene, se fatto con criterio. Trust sembra proprio questo: un lunghissimo film che passa in un batter d'occhio. Un altro pregio della serie, va subito evidenziato, è la sapiente separazione fra le scene ambientate in Inghilterra e quelle ambientate in Italia (tra Roma e la Calabria). Tutto ciò è stato possibile grazie alla perfetta scelta delle location e degli attori (perché sono proprio le prove attoriali le fondamenta che sorreggono la pesantissima mole della serie), sia inglesi e americani, sia, soprattutto, italiani (dopotutto Trust è a tutti gli effetti una coproduzione anglo-italiana, ovviamente mediata dagli Stati Uniti). Se da un lato troviamo mostri sacri come Donald Sutherland (odioso e fenomenale nei panni dell'avido John Paul Getty) e Hilary Swank (brava e credibile come sempre), ma anche il finalmente convincente Brendan Fraser (che dopo il piccolo ruolo nella terza stagione di The Affair, si fa nuovamente apprezzare), dall'altro abbiamo un cast italiano che, se possibile, spesso è riuscito a pareggiare in termini di talento.
A cominciare da Luca Marinelli, che qui interpreta Primo, l'ideatore del rapimento del giovane Paul, un personaggio decisamente sopra le righe, in cui non fatichiamo a riconoscere alcuni tratti de lo Zingaro di Lo chiamavano Jeeg Robot. Entrambi i personaggi, infatti, sono due criminali stanchi del provincialismo, e che vogliono fare il proverbiale botto: il salto di qualità. Ma non solo lui, anche Giuseppe Battiston, Francesco Colella, Niccolò Senni e Nicola Rignanese, sono solo alcuni degli attori che tengono alto il nome della recitazione italiana. Rignanese, in particolare, da vita a un intenso scambio di battute con Sutherland nella cornice dei resti di un'antica villa romana. Non dimenticando tra gli attori/attrici meno conosciuti e non, Sophie Winkleman (Le cronache di Narnia: Il leone, la strega e l'armadio), la sexy Verónica Echegui della serie Fortitude, Charlotte Riley (moglie di Tom Hardy), la Hannah New di Black Sails ed infine le belle sorelle gemelle Laura Bellini e Sarah Bellini. L'aspetto più interessante messo in scena in Trust però è l'incontro/scontro tra due culture totalmente opposte. Da una parte (introdotta dalle note di Money dei Pink Floyd) c'è l'anaffettiva dinastia Getty isolata nella fredda (grigia, affaristica, pomposa) e solitaria Inghilterra e dipendente dal denaro, dall'altra c'è Prisencolinensinainciusol di Celentano con la sua Italia (luminosa, piena d'arte, estremamente accogliente e allo stesso tempo estremamente pericolosa), sia quella della dolce vita romana ma soprattutto quella rurale che ha dato i natali alle organizzazioni malavitose, i cui componenti seppur senza scrupoli dimostrano di avere a cuore le tradizioni e soprattutto la famiglia. L'Italia, in particolare, viene fotografata con dei risultati fra i più riusciti e affascinanti degli ultimi anni. Roma e le campagne della Calabria, in particolare (che ci restituiscono non solo gli anni '70 ma soprattutto il senso di libertà che il giovane aveva conquistato, a caro prezzo, nel momento in cui si era illuso di essersi liberato dal peso della sua famiglia), sono spesso protagoniste assolute della scena, tanto quanto gli attori. Come un velo, il profilmico è quell'elemento che completa e abbellisce l'intera serie. Dai costumi, alle location, agli oggetti di scena. Tutto è perfettamente coerente con quanto si sta guardando. D'altronde, ogni episodio è caratterizzato da regie davvero ispirate e musiche sempre incalzanti e ben contestualizzate.
La serie fa anche una scelta molto coraggiosa, ovvero abbraccia e porta avanti, sebbene in modo parziale, la teoria che il giovane Getty potesse essere, almeno inizialmente, d'accordo con i rapitori allo scopo di estorcere soldi al nonno e saldare debiti accumulati a causa della droga. Si tratta di un dettaglio importante che rende più affascinante la storia e più tridimensionali non solo la vittima stessa ma anche i suoi rapitori. A tal proposito è molto interessante notare come gli autori abbiano voluto far vedere come spesso i rapitori si rivelino più umani dei familiari del giovane Paul. Affascinati dal candore del ragazzo i rapitori si chiederanno spesso quanta poca umanità abbia il vecchio Paul verso il proprio nipote. Dopotutto al di là dei pregi, la serie deve tutto al surrealismo di una vicenda familiare in cui spesso la realtà ha superato l'immaginazione. Merito di Simon Beaufoy e Danny Boyle, certo, ma anche del format televisivo che ancora una volta conferma di essere un'alternativa valida, spesso più distesa, minuziosa e ricca nei contenuti, rispetto al cinema. Perché Trust è infatti l'ennesima conferma che la tv non ha più nulla da invidiare al cinema: sceneggiatura compatta senza buchi narrativi, eccellente riproduzione del contesto storico e culturale e ottime interpretazioni sia internazionali che italiane sono arricchite dalla firma di Danny Boyle, che trasferisce anche sul piccolo schermo le caratteristiche tipiche della sua filmografia, dall'importanza affidata alla musica di rendere a modo suo iconica ogni scena (come l'utilizzo del Nessun Dorma durante la preparazione del pagamento), fino all'uso dello split screen e di modalità di ripresa che alternano piani fissi, camera a mano e inquadrature dalle angolazioni più disparate. Il regista di Trainspotting offrendo difatti un punto di vista alternativo oltre che un'anima rock inedita ad una delle vicende più conosciute al mondo (almeno in parte, ora certamente la conoscono quasi tutti), dimostra come l'originalità non risieda per forza solo nella storia raccontata, ma anche nel modo in cui questa viene messa in scena. Non a caso per questo la serie, che non si incarica di raccontare la verità per filo e per segno, ma di parlare dell'avidità, dell'egoismo, dell'indifferenza non di un solo uomo, ma dell'umanità intera, è così tanto coraggiosa, innovativa ed irriverente che, differenziandosi da altri prodotti del piccolo schermo, riesce a fare centro, anzi, di più, riesce a farsi discretamente, e più, apprezzare. Voto: 8
La serie fa anche una scelta molto coraggiosa, ovvero abbraccia e porta avanti, sebbene in modo parziale, la teoria che il giovane Getty potesse essere, almeno inizialmente, d'accordo con i rapitori allo scopo di estorcere soldi al nonno e saldare debiti accumulati a causa della droga. Si tratta di un dettaglio importante che rende più affascinante la storia e più tridimensionali non solo la vittima stessa ma anche i suoi rapitori. A tal proposito è molto interessante notare come gli autori abbiano voluto far vedere come spesso i rapitori si rivelino più umani dei familiari del giovane Paul. Affascinati dal candore del ragazzo i rapitori si chiederanno spesso quanta poca umanità abbia il vecchio Paul verso il proprio nipote. Dopotutto al di là dei pregi, la serie deve tutto al surrealismo di una vicenda familiare in cui spesso la realtà ha superato l'immaginazione. Merito di Simon Beaufoy e Danny Boyle, certo, ma anche del format televisivo che ancora una volta conferma di essere un'alternativa valida, spesso più distesa, minuziosa e ricca nei contenuti, rispetto al cinema. Perché Trust è infatti l'ennesima conferma che la tv non ha più nulla da invidiare al cinema: sceneggiatura compatta senza buchi narrativi, eccellente riproduzione del contesto storico e culturale e ottime interpretazioni sia internazionali che italiane sono arricchite dalla firma di Danny Boyle, che trasferisce anche sul piccolo schermo le caratteristiche tipiche della sua filmografia, dall'importanza affidata alla musica di rendere a modo suo iconica ogni scena (come l'utilizzo del Nessun Dorma durante la preparazione del pagamento), fino all'uso dello split screen e di modalità di ripresa che alternano piani fissi, camera a mano e inquadrature dalle angolazioni più disparate. Il regista di Trainspotting offrendo difatti un punto di vista alternativo oltre che un'anima rock inedita ad una delle vicende più conosciute al mondo (almeno in parte, ora certamente la conoscono quasi tutti), dimostra come l'originalità non risieda per forza solo nella storia raccontata, ma anche nel modo in cui questa viene messa in scena. Non a caso per questo la serie, che non si incarica di raccontare la verità per filo e per segno, ma di parlare dell'avidità, dell'egoismo, dell'indifferenza non di un solo uomo, ma dell'umanità intera, è così tanto coraggiosa, innovativa ed irriverente che, differenziandosi da altri prodotti del piccolo schermo, riesce a fare centro, anzi, di più, riesce a farsi discretamente, e più, apprezzare. Voto: 8
La storia poi è alquanto interessante, affascinante e brillantemente controversa ;)
RispondiEliminaIt is worth the watch, I loved it.
RispondiEliminaYes, a vision certainly deserves it ;)
EliminaMadonna, in sostanza hanno fatto meglio del film... che è da boicottare per aver tolto Spacey. Avessero inserito Spacey qui sarebbe stato il TOP del TOP :D
RispondiEliminaCast stellare, anche italiano...perfetto :)
Moz-
Non l'ho ancora visto il film (e tuttavia vedrò nonostante il tuo suggerimento) ma ci scommetterei che sarà peggio, anche perché ultimamente Ridley Scott è purtroppo in fase calante, tranne per The Martian...comunque la serie secondo dovresti per questo vederla ;)
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