Come avrete potuto evincere dalle classifiche finali, i film visti nel 2018 sono stati parecchi, lo stesso sicuramente sarà questo nuovo anno (a giorni poi stilerò la mia Promessa cinematografica inerente appunto questo 2019), anno che, come per i peggiori film di ieri, ha visto già un leggero aumento di visioni. Non a caso Gennaio, che si porta dietro anche Dicembre scorso, vede la lista di film aumentare, dai soliti 6 a ben 8. E tuttavia niente di così strano, dopotutto in questi ultimi due mesi di film anche in tv ne hanno fatto parecchi, di questi tra ieri ed oggi per esempio hanno già avuto una visione in chiaro 5 pellicole, di altri questi molti li ho rivisti con piacere, Pomi d'ottone e manici di scopa, Jack Frost, Polar Express, Big Hero 6, Independence Day, Pixels e Zootropolis tra i tanti. E insomma non mi sono fatto mancare niente, come non si è fatto mancare niente anche questo mese "iniziale" di Gennaio, un mese in cui ha nevicato, ha piovuto parecchio, ha fatto freddo (e continuare a fare e proseguirà almeno per un altro mese) ed in cui io personalmente ho vissuto senza particolari scossoni, qualcosa di emozionante c'è stato, qualcosa di negativo anche, ma tutto sommato nella norma, ed a me nella norma va bene. Ma adesso ecco i film "migliori" visti.
Quella raccontata dal regista islandese Dagur Kàri è una storia di solitudine ed emarginazione, la storia di un uomo che vorrebbe uscire dal proprio guscio ma che invece si lascia trascinare dagli eventi. Virgin Mountain (Fúsi), film islandese del 2015 infatti, racconta la storia di un uomo timido e taciturno di 43 anni che vive con sua madre e lavora in aeroporto, dove è vittima di bullismo da parte dei suoi colleghi. Egli ama ascoltare la musica hard rock e passa il suo tempo libero a rievocare battaglie con i soldatini (il nostro protagonista difatti ha uno speciale interesse per la Seconda Guerra mondiale e addirittura possiede un modello in miniatura della battaglia di El Alamein con cui, occasionalmente, gioca con il suo migliore amico Mordur), ma il giorno del suo compleanno, egli riceve in dono dal compagno della madre l'iscrizione a un corso di Country Dance, e sarà qui che conoscerà Sjöfn, una donna triste e sola che aiuterà ad essere felice, e sarà da quel momento che qualcosa nella sua vita definitivamente (anche senza volerlo veramente) cambierà. Virgin Mountain è quindi una favola intima, ma anche una pellicola cruda e delicata allo stesso tempo, ispirata da un personaggio imponente e fragile che incontrerà una persona a lui affine, una persona che come lui ha paura del mondo esterno, così poco indulgente e frivolo. Una pellicola che per questo offre due bellissimi ritratti e lancia un bel messaggio di speranza con la sua narrazione lontana da ogni cliché, che scava con lucidità l'umanità di ogni giorno, un lavoro commovente, che fotografa come la felicità viva attraverso le piccole cose. Una pellicola impreziosita da un umorismo sottile, leggero che accompagna dolcemente il dramma che abita il film e il protagonista, costretto a dover vivere una vita così poco attinente alla sua persona. Una pellicola insomma davvero bella ed interessante, che evita ogni sorta di sentimentalismo e riesce a sorprendere anche con un finale dolce amaro. Fusi infatti (che non abbraccia il proprio cambiamento ma tenta di crescere, di affrontare la propria alterità senza dimenticare il candore che gli appartiene, quel centrino di pizzo bianco così poco comune agli adulti ma affine solo ad un bambino), una volta varcata la soglia della conquista sociale, finirà per provare cocenti amarezze che in qualche modo danno ragione al suo originale ed istintivo annullarsi tra le mura della propria intimità familiare. Questa è la vera forza e sorpresa del film: ammettere ed ufficializzare che le amarezze e le delusioni sono sempre in agguato, in grado forse di rafforzarci e di farci adattare spronandoci a venire allo scoperto, ma lasciandoci quasi sempre disillusi e feriti, anche se in qualche modo più padroni del nostro avvenire, e più cittadini del mondo esteriore fino a poco prima rifuggito o ignorato. Perché certo, l'impianto sgraziato e poetico appare fin troppo ricalcato su luoghi ricorrenti e ambientazioni standardizzate del cinema scandinavo, ma la scarsa originalità e il ricorso a un registro surreale non certo inedito e spiazzante non impediscono al film di Kàri di colpire al cuore con la forza di un one shot secco e ruvido attraverso traiettorie non intuibili e poco rassicuranti. E l'Islanda, più che un silente e distante involucro geografico, è quasi un personaggio aggiunto, oltre che uno stato d'animo in questa pellicola toccante e sincera al punto giusto. Una pellicola in cui ottimi e necessari sono i due protagonisti, Gunnar Jonsson (la mancanza di autonomia e la paura dell'ignoto del protagonista sono veicolate da lui infatti in modo brillante ed efficace, grazie soprattutto alla sua voce stanca e il suo aspetto esteriore, che trasmette sia il suo tormento interiore che la purezza del cuore) e la imperscrutabile Ilmur Kristjandottir, perfetti a rendere le sfaccettature di personalità rispettivamente sole per volontà o forza maggiore, impegnate ognuno a suo modo a guarire da una malattia solo apparentemente fittizia e psicologica che li rende dei diversi davanti alla società classista e crudele, degli emarginati, degli ipotetici "mostri" da tenere alla lontana da bambini o altri esseri indifesi ed innocenti. Una pellicola forse troppo lenta, ma che riesce, come capita spesso nel cinema del nord Europa, a raccontare nonostante questa insita flemma narrativa storie drammatiche in maniera lineare, semplice e senza eccessi, mantenendo quel basso profilo che lo rende interessante e curioso. Virgin Mountain è appunto un esponente di questo genere: interessante, semplice ma particolareggiato, meritevole della visione. Voto: 6,5
Una storia come tante, abbastanza convenzionale per quello che racconta: l'elaborazione del lutto, la depressione e il disagio giovanile all'interno della famiglia sono argomenti già sviscerati in altre decine di pellicole. La differenza lo fa l'impegno, l'emozionalità che traspare dalle interpretazioni di un cast abile e credibile, dalla regia che non si concede distrazioni e da una sceneggiatura che tenta di imprimere quella forza e quella carica emotiva dati da argomenti sempre interessanti e attuali. Una buona dramedy (garbata e non troppo stucchevole) che riesce a intrattenere, coinvolgere ed emozionare in maniera semplice e poco banale. The Bachelors: Un nuovo inizio infatti, film del 2017 scritto e diretto da Kurt Voelker, un film convincente e riuscito, un viaggio dolceamaro (costantemente in equilibrio fra il ricordo di un doloroso passato e il timido slancio verso un futuro incerto ma affascinante) che arriva al cuore dello spettatore, un film che, seppur lontano dal livello di introspezione e intensità raggiunto per esempio da Manchester By The Sea, riesce con una sostanziale scolasticità nella messa in scena e nello sviluppo narrativo, a veicolare un messaggio di speranza e di possibilità di costruire un futuro sulle proprie macerie personali. La struttura narrativa è difatti equilibrata, lineare, attenta a non cadere mai in eccessivi sentimentalismi o in scene di buonismo e retorica del dolore. Una narrazione insomma priva di guizzi originali, ma sincera nel miscelare silenzi e slanci emozionali e nel dare vita a un pungente ritratto degli adulti di oggi, sempre più incapaci di affrontare i propri problemi, e di conseguenza inadeguati nell'aiutare i loro figli a fare altrettanto. Non è un caso che in questa storia, che appunto racconta in modo efficace, lineare e incisivo le difficoltà di un padre, diviso tra la sofferenza per la scomparsa della moglie e i doveri nei confronti del figlio rimasto orfano (di entrambi che quindi si trasferiscono in una nuova città per cercare di rimettere insieme i cocci delle loro vite spezzate), il rapporto tra padre e figlio, è rovesciato: tocca al secondo cercare in ogni modo di scuotere il primo, arrivando persino alla provocazione verbale più estrema e dolorosa. In tal senso magistrale l'interpretazione della coppia J.K. Simmons e Josh Wiggins, che per l'intero arco della storia mostrano alchimia, talento e credibilità nei rispettivi ruoli. Anche Odeya Rush (senza dimenticare la dolce e comprensiva professoressa interpretata da Julie Delpy) merita una menzione per la parte di Lacy, giovane costretta a indossare la maschera della dark e a ricorrere all'autolesionismo per superare il dolore per la separazione dei genitori. E così nell'unione di diverse solitudini e nel superamento del dolore attraverso l'amore, The Bachelors: Un nuovo inizio va esattamente dove ci aspettiamo che che vada fin dall'inizio, accompagnandoci in un viaggio che non ci porta particolari sorprese ma ci regala comunque una sensazione di appagamento e sollievo, lasciandoci a un finale necessariamente sfumato e aperto e a una positività mai ostentata o forzata. Perché nonostante a tratti dia la sensazione di essere eccessivamente misurato e costruito nell'equilibrio fra le diverse componenti emotive, e sebbene permanga costantemente nella fotografia e nella colonna sonora una imposta atmosfera da cinema indie, The Bachelors: Un nuovo inizio si rivela un film convincente e riuscito, capace di colpire e fare riflettere nel racconto della quotidiana lotta agli ostacoli che la vita ci sottopone. Un film schietto e toccante, che senza particolari astrazioni e cerebralismi ci ricorda che ogni giorno è quello giusto per compiere le azioni necessarie a lasciarci alle spalle il dolore e a riprendere il controllo della nostra esistenza. Un film che commuove, conquista, strazia ma che soddisfa, un film realistico e delicato che si fa tanto apprezzare, un film meritevole della visione. Voto: 6+
Tratto purtroppo da una storia vera, storia tratta dall'omonimo romanzo scritto da Nojoud Ali e dalla giornalista Delphine Minoui e che ripercorre anche il vissuto della stessa regista, Khadija Al-Salami, La Sposa Bambina, film del 2014 diretto dalla regista yemenita, narra la vicenda di una bimba (appunto) yemenita di 10 anni andata in sposa ad un uomo più vecchio di lei di 20 anni, subendo abusi e violenze sessuali "legittimati" dal fatto che quest'ultimo era suo marito. La bambina in questione, non riuscendo più a sopportare le continue violenze, riesce a scappare dal villaggio presso cui era stata relegata e ad appellarsi al tribunale della città di Sana'a al fine di chiedere il divorzio dal marito. Il suo caso, primo nella storia in Yemen, viene preso in considerazione ed a cuore da un giudice il quale si adopera con ogni mezzo per togliere la giovanissima protagonista dalla potestà del marito e renderla finalmente una persona libera e concederle la possibilità di vivere la propria esistenza di adolescente, sebbene ormai fortemente provata. Questa pellicola quindi, che affronta appunto un tema scottante, un quasi documentario con il difetto tuttavia di essere troppo didascalico e eccessivamente retorico, denuncia apertamente la pratica di dare in sposa le proprie figlie ancora bambine a uomini più vecchi in cambio di denaro, togliendo loro l'innocenza e la possibilità di vivere serenamente la propria vita come tutti gli altri bambini ed adolescenti nel resto del mondo. Dal film si evince che purtroppo è una consuetudine assai diffusa in certi paesi musulmani e soprattutto nei villaggi dove impera l'ignoranza e la certezza di agire bene nei confronti delle proprie figlie. Oltretutto, oltre agli abusi sessuali, le ragazzine vengono anche sottoposte a duri lavori domestici essendo trattate e divenendo in pratica delle schiave di uomini rudi, ignoranti e violenti. Pertanto questo film risulta molto utile al fine di rendere noto al mondo, denunciandola, la tradizione barbara dei matrimoni combinati in giovanissima età e cercando di debellare per sempre questo antico e radicato uso. Ma se la storia colpisce, dopotutto l'opera induce sicuramente lo spettatore alla riflessione, anche se si spera che soprattutto sia di aiuto al fine di raggiungere la libertà di scelta e l'emancipazione femminile fortemente proibite in certe parti del mondo, la suddetta pellicola non tantissimo. Perché anche se la denuncia che il film porta avanti potrebbe di certo rappresentare un possibile punto di svolta, la questione viene affrontata in maniera un po' troppo didascalica ed, a tratti, inverosimile (sembra un film "cucito" apposta per essere apprezzato sulla sponda nord del Mediterraneo), in più si assiste all'affrancamento della bimba in una maniera troppo veloce e troppo "semplicistica". E tuttavia, seppur il tutto è chiaramente pensato e semplificato per esigenze cinematografiche, e poiché l'intento del regista è, appunto, solo quello ci denunciare un fatto quanto mai deplorevole e nulla di più, va comunque apprezzato il tentativo di aprire una finestra su un mondo che, complici le guerre perenni che ne affliggono il popolo e il territorio, fatica a trovare una vera e propria evoluzione sociale. Un tentativo estremamente interessante e quanto mai realistico che mi ha fatto veramente salire tanta rabbia per come in certi posti del mondo al giorno d'oggi le usanze e le tradizioni prevalgano ancora sulla ragione ed il buon senso. Voto: 6
Di sicuro non esagera ma di certo neanche delude, anche se pecca dal punto di vista dell'originalità e, soprattutto, della prevedibilità, ma tutto sommato tiene botta fino alla fine miscelando l'avventura e la drammaticità, per tre quarti della durata, con il romanticismo e il sentimento della parte conclusiva, Il domani tra di noi (The Mountain Between Us), nuovo film (del 2017) del regista di Paradise Now. Il film infatti e dopotutto, diretto da Hany Abu-Assad, tratto dal romanzo The Mountain Between Us di Charles Martin, che mescola il melodramma classico con il survival, consegna allo spettatore tutto ciò che promette in partenza: due grandi star, avventura e sentimenti, tutto mixato in maniera semplicistica (ma neanche troppo ad essere sinceri) per regalare agli spettatori due ore di intrattenimento un po' romantico e un po' avvincente che magari alla fin fine non sanno né di carne né di pesce, ma comunque riescono a saziare. Il film difatti, che si basa sulla sopravvivenza e dai risvolti sentimentali, che narra appunto la storia di Alex (Kate Winslet), una dinamica fotoreporter, e di Ben (Idris Elba), un pacato neurochirurgo che si incontrano in aeroporto dopo aver appreso che il loro volo è stato cancellato a causa di una forte turbolenza, e che siccome entrambi devono assolutamente prendere un'aereo entro l'indomani affittano un velivolo con conducente che, dopo aver aggirato la tempesta, viene colpito da un ictus perdendo irreversibilmente i controlli dell'aereo e facendolo precipitare nel bel mezzo delle montagne, tra la natura incontaminata, e in questa situazione i due, con caratteri decisamente opposti, saranno costretti a collaborare e a unire le forze per riuscire a sopravvivere, lo fa in un modo non eccessivamente drammatico, anzi, si prende anche abbastanza alla leggera in maniera direi gradevole. Naturalmente il cuore del film sono loro, le superstar Idris Elba e Kate Winslet. Lui è sopravvissuto alle strade di Baltimora in The Wire, e recentemente pure alla fine di tutte le cose in Thor: Ragnarok. Lei, lo sappiamo, a suo tempo scampò per un pelo al naufragio del Titanic. Sopravvivere, insomma, è una cosa che entrambi sanno fare bene, e insieme lo fanno benissimo, fra sguardi e intese davvero coinvolgenti, grazie anche alla sceneggiatura di Chris Weitz (About a Boy, Star Wars: Rogue One) scontata, ma graduale e calibrata. Certo, è quel tipo di film dove si dicono cose tipo "Il cuore è solo un muscolo" ma Il domani tra di noi riesce ad evitare con intelligenza il didascalico, il più delle volte, per lo meno. Certo può essere un po' stucchevole ma è comunque una buona storia, il regista fa un buon lavoro (non è nulla di eccezionale ma fa il suo dovere), anche dal punto di vista visivo (a colpire infatti è di sicuro la fotografia e i paesaggi mozzafiato, belle anche le musiche). Sono circa 2 ore di film e nonostante non sia certo ricco di emozioni devo ammettere che è riuscito ad intrattenermi dall'inizio alla fine senza farsi pesare. Lo trovo particolarmente adatto per una serata tranquilla senza troppe pretese. Un buon film, nulla di più, nulla di meno. Un film, che di certo non è un capolavoro ma intrattiene, un film che grazie alla buona prova dei due protagonisti offre una visione godibile e interessante quanto basta per non annoiare. Voto: 6
Avevo già in mente di recuperarlo il più prima possibile, soprattutto dopo aver intravisto qualcosina in Pets: Vita da animali (di cui a quanto pare è già in programma il sequel), ma non c'ero ancora riuscito, poi Mediaset l'ha mandato in prima visione prima dell'Epifania ed è così che ho finalmente visto il settimo lungometraggio della prolifica Illumination Entertainment, casa di produzione che da Cattivissimo me in avanti ha sfornato quasi ogni anno film d'animazione di qualità altalenante ma successo crescente. Come questo Sing, film d'animazione del 2016 diretto da Garth Jennings, un prodotto semplice e fresco, non troppo cerebrale o innovativo nei temi, ma ugualmente coinvolgente e spassoso, che tuttavia non mi ha del tutto convinto. Infatti, iniziamo subito col dire quello che Sing, che racconta del koala Buster Moon proprietario di un bellissimo teatro, purtroppo con gli anni caduto in disgrazia, che siccome si ritrova al verde e pieno di debiti decide di indire una grande gara di canto, una gara che complice un errore di stampa relativo al premio finale attira alle audizioni una folla numerosissima di "persone comuni" che sognano di cambiare la propria vita, non ha: non ha la profondità dei prodotti Pixar, né una sceneggiatura brillante come il disneyano Zootropolis (tanto per citare un altro film ambientato in un mondo animale). Anzi, bisogna dire che nella sostanza Sing ha ben poco di originale: la storia è delle più classiche e come tale riporta svolte piuttosto prevedibili, i personaggi ricalcano il topos hollywoodiano degli antieroi che si riscattano perseguendo con tenacia le proprie passioni, la morale (avere fiducia in sé stessi) è trita e ritrita. La stessa idea di base, quella del contest musicale, si aggrappa chiaramente al successo di talent show come X Factor, The Voice ecc. e la colonna sonora è composta da canzoni molto conosciute presso il grande pubblico (si va da Frank Sinatra a Taylor Swift). Eppure è indubbio che Sing sia semplicemente un film d'animazione irresistibile. Garth Jennings, già regista di moltissimi videoclip innovativi, sa bene come giocare con la colonna sonora e in generale con l'argomento "musica", non solo nelle scene prettamente musicali (le esibizioni dei concorrenti), ma lungo tutto il film, quando echeggia l'atmosfera della vecchia Broadway, o quando ci trascina in rocamboleschi voli e inseguimenti degni di una pellicola d'azione, di volta in volta mostrandoci il mondo dal punto di vista di un animale diverso (molte inoltre le sequenze esilaranti). I personaggi, per quanto come detto non siano particolarmente originali, ispirano tutti una grande simpatia e tenerezza, essi infatti, tutti diversi e ben delineati, talvolta con dei caratteri volutamente in contrasto con il loro aspetto, come il topolino spaccone dal timbro blues o l'elefantina timida dalla voce angelica, sono la forza trainante della pellicola, anche se il vero punto di forza è la musica, la colonna sonora, piena di grandi brani, addirittura tra la variegata scelta di brani musicali che arricchiscono il film, c'è il brano originale Faith, scritta da Stevie Wonder e interpretata da Ariana Grande, che ha ricevuto una nomination ai Golden Globes, mentre la parte orchestrale è curata nientemeno che da John Williams. Pertanto, il film diventa piacevole non solo a guardarsi ed a seguirsi ma soprattutto per il sentire le canzoni famose e ben ritmate. Stellare il cast di doppiatori in lingua originale, prescelti proprio per le doti canore (da Matthew McConaughey a Scarlett Johansson, da Taron Egerton a Reese Whiterspoon fino a Seth MacFarlane), mentre nella versione italiana, pur ben adattata, non si contano nomi noti. E tuttavia, siccome tutte le linee narrative trovano il loro prevedibile compimento e il lieto fine buonista è dietro l'angolo, non indimenticabile è questo film, un film che avrebbe potuto "fare il botto" osando di più dal punto di vista della trama e dei valori messi in gioco, ma che comunque funziona e, soprattutto, si fa amare. Voto: 6,5
Questa è la vera storia di "Gola profonda", e no, non si parla di Linda Lovelace, protagonista dell'omonimo porno-cult, ma dell'uomo (Mark Felt, vice-direttore dell'FBI) "silenzioso" che, nell'America che si apprestava a rieleggere Richard Nixon per il secondo mandato, portò alla luce e fu la fonte anonima (la "Gola profonda", appunto) del famoso scandalo conosciuto come Watergate. Peter Landesman, giornalista investigativo prima che regista, lo aveva già dimostrato nel suo film d'esordio, Parkland, confermandolo poi nel successivo Concussion (Zona d'ombra con Will Smith): l'oggetto del suo cinema è da ricercarsi sempre dietro le pieghe delle verità, negli angoli nascosti di vicende realmente accadute. Ispirato ai libri dello stesso Mark Felt e di John O'Connor, The Silent Man (The Mark Felt: The Man Who Brought Down the White House) potrebbe essere perciò considerato "il dietro le quinte del dietro le quinte" di Tutti gli uomini del Presidente, opera che mai come in questi anni di cinematografia (si pensi anche a The Post di Steven Spielberg) sta tornando alla ribalta. Più nello specifico, però, il regista è interessato a soffermarsi sull'uomo dietro il "sussurratore" e, soprattutto, sul momento cruciale vissuto all'interno dell'FBI all'indomani della morte di J. Edgar Hoover (che guidava il Bureau dal 1935): la Casa Bianca colse la palla al balzo per poter finalmente mettere mano sull'istituzione che, fino a quel momento, da statuto era sempre stata indipendente e libera da qualsiasi forma di controllo governativo. È questo, senza dubbio, l'aspetto più interessante del film, che si concentra sul difficile momento di Felt (i più lo immaginavano sarebbe stato il naturale successore di Hoover) chiamato a dover sottostare a L. Patrick Gray (Marton Csokas), nuovo direttore e uomo vicino a Nixon, primo informatore della Casa Bianca allo scoppio del caso Watergate. Peccato che la sceneggiatura talvolta fin troppo verbosa, che cerca di condensare concetti e informazioni (anche molto tecniche) dentro sguardi e momenti di alta tensione dialogica, non sempre sia perfettamente chiara ed efficace. Misurate e ben costruite invece le dinamiche di doppiogiochismo, di detto e non detto all'interno delle claustrofobiche stanze del potere, che trovano sostegno in un azzeccatissimo cast collaterale (tra gli altri Michael C. Hall e Josh Lucas). E se la storia già scritta ha tempi narrativi impegnativi ma coerenti, la parte dedicata al Felt meno noto al pubblico (in ogni caso ottimamente interpretato, grazie soprattutto al suo imponente e statuario fisico, da Liam Neeson, il suo carisma è innegabile, come L'uomo sul treno ha confermato) è però segnata da una superficialità di fondo che impedisce all'elemento umano del film di venir fuori, i drammi e la quotidianità (della moglie Diane Lane con la quale condivide brevi e tormentati momenti di vita privata) raccontata che volevano porsi come base e motivazione dell'agire civile del protagonista mancano di consistenza (non bastasse in quel periodo conduceva indagini private per ritrovare la figlia, interpretata da Maika Monroe, poco più che adolescente, fuggita di casa chissà dove), e il troppo poco tempo dedicatogli inficia così la definitiva riuscita dell'opera. Piuttosto lineare e ben documentato sulla parte giornalistico-documentaria The Silent Man si assesta dunque sulla medietà dei film del genere, a conti fatti non ci si può però esimere dal rammarico per una storia di grande forza civile e morale, potenzialmente elevabile a capolavoro cinematografico stile Alan J. Pakula, e purtroppo limitata da qualche errore di scrittura e talvolta da un eccessivo didascalismo narrativo. Perché The Silent Man, nonostante una suggestiva fotografia e nonostante in generale sia un buon film, ha l'unica pecca di avere al suo interno molte informazioni difficili da cogliere da chi non ha mai sentito parlare dello scandalo Watergate, ma anche a chi qualcosa già conosce. Voto: 6
Se un figlio si ammala gravemente quali diventano le priorità per un genitore che ha messo sempre la carriera al primo posto? E' quello che succede al protagonista del film Quando un Padre (A Family Man), film del 2016, diretto da Mark Williams che, continuamente oberato di impegni lavorativi e soprattutto di inventare continue strategie al fine di battere la concorrenza (tanto più quando l'avversario in questione è costituito da una donna, Alison Brie), si trova a dover affrontare la dolorosa realtà di avere il proprio bambino seriamente malato di leucemia. Il papà nel corso della terribile malattia comincerà così a dedicarsi maggiormente alla propria famiglia che, invece, ha sempre trascurato per il lavoro, ed "in primis" ovviamente al figlioletto malato. Riscoprirà la gioia di avere degli affetti familiari sinceri, di quanto invece sia arido e spietato, seppure necessario, il mondo del lavoro e pertanto ad iniziare una nuova e più serena esistenza. Il film diretto dal produttore statunitense qui al debutto alla regia, non presenta troppe sorprese: la storia è un "drammone" che mescola il tema del lavoro e dello stress da successo con quello della famiglia e della malattia del figlio, quest'ultimo, con il rischio (inevitabile) di essere ricattatorio. Gerard Butler, poi, nei panni del padre/protagonista è efficace e scontato al tempo stesso: gli vengono bene le parti da uomo con un alto senso di sé (fino a risultare irritante) cui la vita costringe ad abbassare le penne, ma è un profilo umano che si è visto mille volte, e che il possente Re Leonida stesso ha già incarnato (Dane ricorda a tratti un altro suo personaggio, quello di un film diretto da Gabriele Muccino negli Usa ovvero Quello che so dell'amore). Quando un padre è comunque un prodotto (pur con molti limiti) che può piacere e anche intenerire un pubblico semplice ma non ottuso, perché maneggia aspetti reali della vita, pur se in certi passaggi si desidererebbe maggior finezza. Dane pensa solo al lavoro, e lo fa per assicurare un buon tenore di vita alla famiglia non pensando che moglie (fin troppo flemmatica di fronte alle sue scenate, interpretata da Gretchen Mol) e figli preferirebbero stare con lui, ma incarna bene l'uomo americano inserito in una società che non fa sconti a nessuno. Il rapporto a distanza con l'ingegnere disoccupato interpretato da Alfred Molina (la figura più interessante) regala alcuni momenti di verità, soprattutto nel finale. E ovviamente la malattia di Ryan mette alle strette i due genitori e anche lo spettatore (come si fa a non soffrire di fronte a un bambino con la leucemia?), ma senza esagerare. Insomma, ripeto, una pellicola piena di tematiche dolorose e toccanti il cuore dello spettatore e passaggi comuni (lieto fine annesso) che però la rendono apprezzabile, sia pure non in maniera originale. Perché certo, il film risulta piuttosto impersonale e dalla sceneggiatura fin troppo schematica e prevedibile, ma il film nella sua semplice struttura narrativa, un film in cui c'è da segnalare la presenza nel cast di Willem Dafoe, è abbastanza efficace e soprattutto "politicamente corretto" e consente delle interessanti riflessioni. Voto: 6
Diretto da Francesco Bruni, Tutto quello che vuoi, è un film (del 2017) garbato e rassicurante, tuttavia non particolarmente originale e del tutto prevedibile. Dopo il successo del film francese Quasi amici di Olivier Nakache del 2011, la tematica del rapporto tra anziano e badante va di moda, anche qui è evidenziato il contrasto tra l'educazione (all'antica, ahimè) dell'anziano Giorgio (il bravissimo Giuliano Montaldo) e la rozzezza del ragazzo Alessandro (il bravo ed efficace Andrea Carpenzano). Il film è girato con un budget ridottissimo, un villino a Roma che ben rispecchia la differenza tra la tipologia residenziale "signorile" e quella popolare. Giorgio è un poeta elegante intellettuale, nato a Pisa 85 anni fa, colpito da una forma di Alzheimer. Era stato amico di Sandro Pertini (di cui porta sempre con sé una sua foto) e aveva combattuto a fianco degli Alleati nell'ultima guerra mondiale. Alessandro, invece, è un ragazzo di 22 anni, rozzo e ignorante (l'unica cosa che legge è il Corriere dello Sport) che ha smesso di studiare e non ha ancora deciso cosa fare della sua vita e, nel frattempo, spaccia nel quartiere. Suo padre (Antonio Gerardi), stufo di vederselo ciondolare dentro casa e incapace a educarlo, gli trova il lavoro di accompagnamento del vecchio signore, diventato ormai un po' sbadato. Alessandro dalle prime ritrosie, poco a poco si incuriosisce delle cose strane e del mondo sconosciuto che Giorgio rappresenta: la storia, la cultura ma anche la fantasia. Nasce e si sviluppa, in tal modo, un'amicizia transgenerazionale e interclassista grazie anche alla disponibilità di Giorgio che accoglie perfino gli amici (inseparabili e nullafacenti) di Alessandro, contento di spezzare così la solitudine causata dalla morte della moglie cinque anni prima. Il regista (sceneggiatore storico di Paolo Virzì, di Mimmo Calopresti e de "Il Commissario Montalbano", alla sua terza regia) nel film svela lentamente come tutti i personaggi rappresentati, anche quelli secondari, e in particolare quelli più burberi o rozzi, siano in fondo persone con anime delicate. Il suo ottimismo è sicuramente un po' eccessivo ma, il tal modo, il film ha il ruolo di risollevare gli animi degli spettatori. Qui infatti si gioca sui toni di una commedia allegra, divertente, con molte situazioni comiche e battute brillanti, ma senza disdegnare i momenti più toccanti, con considerazioni sulla poesia e sulla bellezza come forma di approccio alla vita. Non è un caso difatti che la tesi centrale del film è che una relazione, un incontro significativo può cambiare la vita, e questo è profondamente vero, nonostante le brutture odierne. Ma è un tema trattato con garbo e sensibilità, senza retorica o enfasi. Questo grazie anche agli attori, in primis Giuliano Montaldo, perfetto istrione dotato di grazia e felici lampi nostalgico/poetici, fondamentali per descrivere al meglio il suo personaggio, altrimenti inevitabilmente a rischio macchietta, è davvero una mossa felice. Gli tiene testa, con simpatica ironia e realistica contemporanea indolenza, il giovane Andrea Carpenzano, trasteverino molto greve che riesce a scoprire, grazie a quell'incontro, il lato insospettabilmente nascosto del proprio carattere ove è custodito il dono prezioso della sensibilità. In un ruolo di contorno, la mamma (Claudia) dell'amico e amante del nostro "toy boy" trasteverino, un'ottima Donatella Finocchiaro (bella come non mai) è perfetta nell'incarnare la bipolarità di un sentimento, materno e insieme sessuale, che risalta nel suo segreto ruolo di amante del miglior amico di suo figlio. Ritornando al film invece, un film vincitore di due David di Donatello, dopo tanto divertimento, se forse nel finale gli accadimenti si accumulano e possono sembrare eccessivi (come però è smodata e borderline la vita di Alessandro e dei suoi amici) la virata verso la commozione finale è gestita con abilità ma non furbizia. E quindi nonostante tutto, film davvero carino è questo. Voto: 6
Di sicuro non esagera ma di certo neanche delude, anche se pecca dal punto di vista dell'originalità e, soprattutto, della prevedibilità, ma tutto sommato tiene botta fino alla fine miscelando l'avventura e la drammaticità, per tre quarti della durata, con il romanticismo e il sentimento della parte conclusiva, Il domani tra di noi (The Mountain Between Us), nuovo film (del 2017) del regista di Paradise Now. Il film infatti e dopotutto, diretto da Hany Abu-Assad, tratto dal romanzo The Mountain Between Us di Charles Martin, che mescola il melodramma classico con il survival, consegna allo spettatore tutto ciò che promette in partenza: due grandi star, avventura e sentimenti, tutto mixato in maniera semplicistica (ma neanche troppo ad essere sinceri) per regalare agli spettatori due ore di intrattenimento un po' romantico e un po' avvincente che magari alla fin fine non sanno né di carne né di pesce, ma comunque riescono a saziare. Il film difatti, che si basa sulla sopravvivenza e dai risvolti sentimentali, che narra appunto la storia di Alex (Kate Winslet), una dinamica fotoreporter, e di Ben (Idris Elba), un pacato neurochirurgo che si incontrano in aeroporto dopo aver appreso che il loro volo è stato cancellato a causa di una forte turbolenza, e che siccome entrambi devono assolutamente prendere un'aereo entro l'indomani affittano un velivolo con conducente che, dopo aver aggirato la tempesta, viene colpito da un ictus perdendo irreversibilmente i controlli dell'aereo e facendolo precipitare nel bel mezzo delle montagne, tra la natura incontaminata, e in questa situazione i due, con caratteri decisamente opposti, saranno costretti a collaborare e a unire le forze per riuscire a sopravvivere, lo fa in un modo non eccessivamente drammatico, anzi, si prende anche abbastanza alla leggera in maniera direi gradevole. Naturalmente il cuore del film sono loro, le superstar Idris Elba e Kate Winslet. Lui è sopravvissuto alle strade di Baltimora in The Wire, e recentemente pure alla fine di tutte le cose in Thor: Ragnarok. Lei, lo sappiamo, a suo tempo scampò per un pelo al naufragio del Titanic. Sopravvivere, insomma, è una cosa che entrambi sanno fare bene, e insieme lo fanno benissimo, fra sguardi e intese davvero coinvolgenti, grazie anche alla sceneggiatura di Chris Weitz (About a Boy, Star Wars: Rogue One) scontata, ma graduale e calibrata. Certo, è quel tipo di film dove si dicono cose tipo "Il cuore è solo un muscolo" ma Il domani tra di noi riesce ad evitare con intelligenza il didascalico, il più delle volte, per lo meno. Certo può essere un po' stucchevole ma è comunque una buona storia, il regista fa un buon lavoro (non è nulla di eccezionale ma fa il suo dovere), anche dal punto di vista visivo (a colpire infatti è di sicuro la fotografia e i paesaggi mozzafiato, belle anche le musiche). Sono circa 2 ore di film e nonostante non sia certo ricco di emozioni devo ammettere che è riuscito ad intrattenermi dall'inizio alla fine senza farsi pesare. Lo trovo particolarmente adatto per una serata tranquilla senza troppe pretese. Un buon film, nulla di più, nulla di meno. Un film, che di certo non è un capolavoro ma intrattiene, un film che grazie alla buona prova dei due protagonisti offre una visione godibile e interessante quanto basta per non annoiare. Voto: 6
Avevo già in mente di recuperarlo il più prima possibile, soprattutto dopo aver intravisto qualcosina in Pets: Vita da animali (di cui a quanto pare è già in programma il sequel), ma non c'ero ancora riuscito, poi Mediaset l'ha mandato in prima visione prima dell'Epifania ed è così che ho finalmente visto il settimo lungometraggio della prolifica Illumination Entertainment, casa di produzione che da Cattivissimo me in avanti ha sfornato quasi ogni anno film d'animazione di qualità altalenante ma successo crescente. Come questo Sing, film d'animazione del 2016 diretto da Garth Jennings, un prodotto semplice e fresco, non troppo cerebrale o innovativo nei temi, ma ugualmente coinvolgente e spassoso, che tuttavia non mi ha del tutto convinto. Infatti, iniziamo subito col dire quello che Sing, che racconta del koala Buster Moon proprietario di un bellissimo teatro, purtroppo con gli anni caduto in disgrazia, che siccome si ritrova al verde e pieno di debiti decide di indire una grande gara di canto, una gara che complice un errore di stampa relativo al premio finale attira alle audizioni una folla numerosissima di "persone comuni" che sognano di cambiare la propria vita, non ha: non ha la profondità dei prodotti Pixar, né una sceneggiatura brillante come il disneyano Zootropolis (tanto per citare un altro film ambientato in un mondo animale). Anzi, bisogna dire che nella sostanza Sing ha ben poco di originale: la storia è delle più classiche e come tale riporta svolte piuttosto prevedibili, i personaggi ricalcano il topos hollywoodiano degli antieroi che si riscattano perseguendo con tenacia le proprie passioni, la morale (avere fiducia in sé stessi) è trita e ritrita. La stessa idea di base, quella del contest musicale, si aggrappa chiaramente al successo di talent show come X Factor, The Voice ecc. e la colonna sonora è composta da canzoni molto conosciute presso il grande pubblico (si va da Frank Sinatra a Taylor Swift). Eppure è indubbio che Sing sia semplicemente un film d'animazione irresistibile. Garth Jennings, già regista di moltissimi videoclip innovativi, sa bene come giocare con la colonna sonora e in generale con l'argomento "musica", non solo nelle scene prettamente musicali (le esibizioni dei concorrenti), ma lungo tutto il film, quando echeggia l'atmosfera della vecchia Broadway, o quando ci trascina in rocamboleschi voli e inseguimenti degni di una pellicola d'azione, di volta in volta mostrandoci il mondo dal punto di vista di un animale diverso (molte inoltre le sequenze esilaranti). I personaggi, per quanto come detto non siano particolarmente originali, ispirano tutti una grande simpatia e tenerezza, essi infatti, tutti diversi e ben delineati, talvolta con dei caratteri volutamente in contrasto con il loro aspetto, come il topolino spaccone dal timbro blues o l'elefantina timida dalla voce angelica, sono la forza trainante della pellicola, anche se il vero punto di forza è la musica, la colonna sonora, piena di grandi brani, addirittura tra la variegata scelta di brani musicali che arricchiscono il film, c'è il brano originale Faith, scritta da Stevie Wonder e interpretata da Ariana Grande, che ha ricevuto una nomination ai Golden Globes, mentre la parte orchestrale è curata nientemeno che da John Williams. Pertanto, il film diventa piacevole non solo a guardarsi ed a seguirsi ma soprattutto per il sentire le canzoni famose e ben ritmate. Stellare il cast di doppiatori in lingua originale, prescelti proprio per le doti canore (da Matthew McConaughey a Scarlett Johansson, da Taron Egerton a Reese Whiterspoon fino a Seth MacFarlane), mentre nella versione italiana, pur ben adattata, non si contano nomi noti. E tuttavia, siccome tutte le linee narrative trovano il loro prevedibile compimento e il lieto fine buonista è dietro l'angolo, non indimenticabile è questo film, un film che avrebbe potuto "fare il botto" osando di più dal punto di vista della trama e dei valori messi in gioco, ma che comunque funziona e, soprattutto, si fa amare. Voto: 6,5
Questa è la vera storia di "Gola profonda", e no, non si parla di Linda Lovelace, protagonista dell'omonimo porno-cult, ma dell'uomo (Mark Felt, vice-direttore dell'FBI) "silenzioso" che, nell'America che si apprestava a rieleggere Richard Nixon per il secondo mandato, portò alla luce e fu la fonte anonima (la "Gola profonda", appunto) del famoso scandalo conosciuto come Watergate. Peter Landesman, giornalista investigativo prima che regista, lo aveva già dimostrato nel suo film d'esordio, Parkland, confermandolo poi nel successivo Concussion (Zona d'ombra con Will Smith): l'oggetto del suo cinema è da ricercarsi sempre dietro le pieghe delle verità, negli angoli nascosti di vicende realmente accadute. Ispirato ai libri dello stesso Mark Felt e di John O'Connor, The Silent Man (The Mark Felt: The Man Who Brought Down the White House) potrebbe essere perciò considerato "il dietro le quinte del dietro le quinte" di Tutti gli uomini del Presidente, opera che mai come in questi anni di cinematografia (si pensi anche a The Post di Steven Spielberg) sta tornando alla ribalta. Più nello specifico, però, il regista è interessato a soffermarsi sull'uomo dietro il "sussurratore" e, soprattutto, sul momento cruciale vissuto all'interno dell'FBI all'indomani della morte di J. Edgar Hoover (che guidava il Bureau dal 1935): la Casa Bianca colse la palla al balzo per poter finalmente mettere mano sull'istituzione che, fino a quel momento, da statuto era sempre stata indipendente e libera da qualsiasi forma di controllo governativo. È questo, senza dubbio, l'aspetto più interessante del film, che si concentra sul difficile momento di Felt (i più lo immaginavano sarebbe stato il naturale successore di Hoover) chiamato a dover sottostare a L. Patrick Gray (Marton Csokas), nuovo direttore e uomo vicino a Nixon, primo informatore della Casa Bianca allo scoppio del caso Watergate. Peccato che la sceneggiatura talvolta fin troppo verbosa, che cerca di condensare concetti e informazioni (anche molto tecniche) dentro sguardi e momenti di alta tensione dialogica, non sempre sia perfettamente chiara ed efficace. Misurate e ben costruite invece le dinamiche di doppiogiochismo, di detto e non detto all'interno delle claustrofobiche stanze del potere, che trovano sostegno in un azzeccatissimo cast collaterale (tra gli altri Michael C. Hall e Josh Lucas). E se la storia già scritta ha tempi narrativi impegnativi ma coerenti, la parte dedicata al Felt meno noto al pubblico (in ogni caso ottimamente interpretato, grazie soprattutto al suo imponente e statuario fisico, da Liam Neeson, il suo carisma è innegabile, come L'uomo sul treno ha confermato) è però segnata da una superficialità di fondo che impedisce all'elemento umano del film di venir fuori, i drammi e la quotidianità (della moglie Diane Lane con la quale condivide brevi e tormentati momenti di vita privata) raccontata che volevano porsi come base e motivazione dell'agire civile del protagonista mancano di consistenza (non bastasse in quel periodo conduceva indagini private per ritrovare la figlia, interpretata da Maika Monroe, poco più che adolescente, fuggita di casa chissà dove), e il troppo poco tempo dedicatogli inficia così la definitiva riuscita dell'opera. Piuttosto lineare e ben documentato sulla parte giornalistico-documentaria The Silent Man si assesta dunque sulla medietà dei film del genere, a conti fatti non ci si può però esimere dal rammarico per una storia di grande forza civile e morale, potenzialmente elevabile a capolavoro cinematografico stile Alan J. Pakula, e purtroppo limitata da qualche errore di scrittura e talvolta da un eccessivo didascalismo narrativo. Perché The Silent Man, nonostante una suggestiva fotografia e nonostante in generale sia un buon film, ha l'unica pecca di avere al suo interno molte informazioni difficili da cogliere da chi non ha mai sentito parlare dello scandalo Watergate, ma anche a chi qualcosa già conosce. Voto: 6
Se un figlio si ammala gravemente quali diventano le priorità per un genitore che ha messo sempre la carriera al primo posto? E' quello che succede al protagonista del film Quando un Padre (A Family Man), film del 2016, diretto da Mark Williams che, continuamente oberato di impegni lavorativi e soprattutto di inventare continue strategie al fine di battere la concorrenza (tanto più quando l'avversario in questione è costituito da una donna, Alison Brie), si trova a dover affrontare la dolorosa realtà di avere il proprio bambino seriamente malato di leucemia. Il papà nel corso della terribile malattia comincerà così a dedicarsi maggiormente alla propria famiglia che, invece, ha sempre trascurato per il lavoro, ed "in primis" ovviamente al figlioletto malato. Riscoprirà la gioia di avere degli affetti familiari sinceri, di quanto invece sia arido e spietato, seppure necessario, il mondo del lavoro e pertanto ad iniziare una nuova e più serena esistenza. Il film diretto dal produttore statunitense qui al debutto alla regia, non presenta troppe sorprese: la storia è un "drammone" che mescola il tema del lavoro e dello stress da successo con quello della famiglia e della malattia del figlio, quest'ultimo, con il rischio (inevitabile) di essere ricattatorio. Gerard Butler, poi, nei panni del padre/protagonista è efficace e scontato al tempo stesso: gli vengono bene le parti da uomo con un alto senso di sé (fino a risultare irritante) cui la vita costringe ad abbassare le penne, ma è un profilo umano che si è visto mille volte, e che il possente Re Leonida stesso ha già incarnato (Dane ricorda a tratti un altro suo personaggio, quello di un film diretto da Gabriele Muccino negli Usa ovvero Quello che so dell'amore). Quando un padre è comunque un prodotto (pur con molti limiti) che può piacere e anche intenerire un pubblico semplice ma non ottuso, perché maneggia aspetti reali della vita, pur se in certi passaggi si desidererebbe maggior finezza. Dane pensa solo al lavoro, e lo fa per assicurare un buon tenore di vita alla famiglia non pensando che moglie (fin troppo flemmatica di fronte alle sue scenate, interpretata da Gretchen Mol) e figli preferirebbero stare con lui, ma incarna bene l'uomo americano inserito in una società che non fa sconti a nessuno. Il rapporto a distanza con l'ingegnere disoccupato interpretato da Alfred Molina (la figura più interessante) regala alcuni momenti di verità, soprattutto nel finale. E ovviamente la malattia di Ryan mette alle strette i due genitori e anche lo spettatore (come si fa a non soffrire di fronte a un bambino con la leucemia?), ma senza esagerare. Insomma, ripeto, una pellicola piena di tematiche dolorose e toccanti il cuore dello spettatore e passaggi comuni (lieto fine annesso) che però la rendono apprezzabile, sia pure non in maniera originale. Perché certo, il film risulta piuttosto impersonale e dalla sceneggiatura fin troppo schematica e prevedibile, ma il film nella sua semplice struttura narrativa, un film in cui c'è da segnalare la presenza nel cast di Willem Dafoe, è abbastanza efficace e soprattutto "politicamente corretto" e consente delle interessanti riflessioni. Voto: 6
Diretto da Francesco Bruni, Tutto quello che vuoi, è un film (del 2017) garbato e rassicurante, tuttavia non particolarmente originale e del tutto prevedibile. Dopo il successo del film francese Quasi amici di Olivier Nakache del 2011, la tematica del rapporto tra anziano e badante va di moda, anche qui è evidenziato il contrasto tra l'educazione (all'antica, ahimè) dell'anziano Giorgio (il bravissimo Giuliano Montaldo) e la rozzezza del ragazzo Alessandro (il bravo ed efficace Andrea Carpenzano). Il film è girato con un budget ridottissimo, un villino a Roma che ben rispecchia la differenza tra la tipologia residenziale "signorile" e quella popolare. Giorgio è un poeta elegante intellettuale, nato a Pisa 85 anni fa, colpito da una forma di Alzheimer. Era stato amico di Sandro Pertini (di cui porta sempre con sé una sua foto) e aveva combattuto a fianco degli Alleati nell'ultima guerra mondiale. Alessandro, invece, è un ragazzo di 22 anni, rozzo e ignorante (l'unica cosa che legge è il Corriere dello Sport) che ha smesso di studiare e non ha ancora deciso cosa fare della sua vita e, nel frattempo, spaccia nel quartiere. Suo padre (Antonio Gerardi), stufo di vederselo ciondolare dentro casa e incapace a educarlo, gli trova il lavoro di accompagnamento del vecchio signore, diventato ormai un po' sbadato. Alessandro dalle prime ritrosie, poco a poco si incuriosisce delle cose strane e del mondo sconosciuto che Giorgio rappresenta: la storia, la cultura ma anche la fantasia. Nasce e si sviluppa, in tal modo, un'amicizia transgenerazionale e interclassista grazie anche alla disponibilità di Giorgio che accoglie perfino gli amici (inseparabili e nullafacenti) di Alessandro, contento di spezzare così la solitudine causata dalla morte della moglie cinque anni prima. Il regista (sceneggiatore storico di Paolo Virzì, di Mimmo Calopresti e de "Il Commissario Montalbano", alla sua terza regia) nel film svela lentamente come tutti i personaggi rappresentati, anche quelli secondari, e in particolare quelli più burberi o rozzi, siano in fondo persone con anime delicate. Il suo ottimismo è sicuramente un po' eccessivo ma, il tal modo, il film ha il ruolo di risollevare gli animi degli spettatori. Qui infatti si gioca sui toni di una commedia allegra, divertente, con molte situazioni comiche e battute brillanti, ma senza disdegnare i momenti più toccanti, con considerazioni sulla poesia e sulla bellezza come forma di approccio alla vita. Non è un caso difatti che la tesi centrale del film è che una relazione, un incontro significativo può cambiare la vita, e questo è profondamente vero, nonostante le brutture odierne. Ma è un tema trattato con garbo e sensibilità, senza retorica o enfasi. Questo grazie anche agli attori, in primis Giuliano Montaldo, perfetto istrione dotato di grazia e felici lampi nostalgico/poetici, fondamentali per descrivere al meglio il suo personaggio, altrimenti inevitabilmente a rischio macchietta, è davvero una mossa felice. Gli tiene testa, con simpatica ironia e realistica contemporanea indolenza, il giovane Andrea Carpenzano, trasteverino molto greve che riesce a scoprire, grazie a quell'incontro, il lato insospettabilmente nascosto del proprio carattere ove è custodito il dono prezioso della sensibilità. In un ruolo di contorno, la mamma (Claudia) dell'amico e amante del nostro "toy boy" trasteverino, un'ottima Donatella Finocchiaro (bella come non mai) è perfetta nell'incarnare la bipolarità di un sentimento, materno e insieme sessuale, che risalta nel suo segreto ruolo di amante del miglior amico di suo figlio. Ritornando al film invece, un film vincitore di due David di Donatello, dopo tanto divertimento, se forse nel finale gli accadimenti si accumulano e possono sembrare eccessivi (come però è smodata e borderline la vita di Alessandro e dei suoi amici) la virata verso la commozione finale è gestita con abilità ma non furbizia. E quindi nonostante tutto, film davvero carino è questo. Voto: 6
Ho visto Sing e presto scriverò la recensione! Anche se la storia è un po' prevedibile, il contest musicale è molto divertente e i personaggi sono davvero simpatici!:)
RispondiEliminaSu quello infatti niente da dire, però la storia non emerge, non resta impressa, comunque curioso di leggere la tua di recensione ;)
EliminaNon credo di averli visti, o forse non li ricordo, ma considerando che Gerard Butler mi piace tantissimo e che, per ovvi motivi, sono sensibile al tema della genitorialità, guarderei assolutamente "Quando un padre".
RispondiEliminaSpero di vederlo prima o poi.
Bacio
Me l'avevi "consigliato" tu "Tutto quello che vuoi" perché ti era piaciuto, vabbè :D
EliminaComunque il film con Butler potrebbe emozionarti forse troppo, ma vederlo si può ;)
Ecco. Vedi? La mia memoria.
EliminaMannaggia.
A proposito, riesci a trovarmi la fine di "Before we go" dell'altra sera? Mi sono addormentata sul più bello e sono tristeeeeeeeeeee.
Eh già, mannaggia, ma non è un problema dai ;)
EliminaQui dovresti trovare quello che ti serve https://www.mondofox.it/2019/01/30/before-we-go-trama-finale-spiegazione-film-chris-evans/
avvero nulla che possa interessarmi, tranne Quando un padre, forse...
RispondiEliminaMoz-
Mah, non credevo di potesse interessare quel film, ma ok ;)
EliminaTutto quello che vuoi l'hanno dato poco tempo fa su Rai3..lo volevo vedere, ma poi quella sera non ero in casa o comunque non potevo essere davanti alla tv..lo recupererò.
RispondiEliminaMi piacciono i film che fanno ridere e commuovere :)
E sì, l'ha visto anche Claudia, puoi trovarlo ancora forse su Rai Play, oppure vedilo in altri modi ;)
EliminaSe ti piacciono i film che fanno ridere e commuovere, anche Virgin Mountain può fare al caso tuo :)
Se lo dite voi, io mi fido.
EliminaAdesso vado a cercare il trailer e vedo se me lo ricordo..
Fidati, e il trailer dovrebbe aiutarti, spero ;)
EliminaTroppa roba bypassabile... troppa...
RispondiEliminaPer te certamente, e vabbè :D
EliminaLa sposa bambina.
RispondiEliminaÈ piuttosto "didascalico" e a tratti forse un pò retorico, come noti giustamente tu. Bisogna considerare che è stato pensato e girato per essere distribuito anche in molti paesi musulmani ortodossi. Da qui l'intento "didattico".
Ma sì, è ovvio che sia stato pensato anche per quel motivo, e infatti nonostante questo ho apprezzato quest'opera, che soprattutto sconvolge per la storia e lo spinoso tema.
EliminaEccomi.
RispondiEliminaSostanzialmente concordo su Quando Un Padre, anche se ho trovato più irritante la moglie piuttosto che lui (che esagera - ma non troppo - durante il Ringraziamento con la famiglia di lei).
È scontato, verissimo ma nonostante ciò mi è piaciuto tanto vederlo e sono rimasto totalmente soddisfatto.
Di questi ho visto anche Il Domani Tra Noi e mi ritrovo perfettamente col tuo giudizio. Il lato romantico forse lo avrei evitato ma è ben inserito e non stomaca 😉
Bene, contento ti siano piaciuti entrambi, nonostante gli evidenti difetti ;)
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