Proprio ieri parlavo dei Premi Oscar 2019, ma per chi non lo sapesse (i cinefili sicuramente avranno letto e saputo) il giorno prima sono stati assegnati i Razzie Awards, per la precisione i Golden Raspberry Awards, premi (consistenti in un lampone appoggiato su un nastro Super8, dal modico valore di 5 dollari) assegnati ogni anno, premi che nel corso di una vera e propria cerimonia a Los Angeles, premiano i film, i registi, le canzoni e gli attori peggiori della stagione cinematografica precedente. E così prima di esporvi le mie pellicole peggiori viste in questo mese, vediamo chi sono stati codesti vincitori. Se l'anno scorso a fare incetta di premi è stato il film Emoji - Accendi le emozioni (che non a caso ho evitato), quest'anno sono due le pellicole ad aver ottenuto un consistente numero di nomination per i poco ambiti premi. Parliamo di Gotti - Il primo padrino e Pupazzi senza gloria. A vincere (anzi, a perdere) tuttavia sono stati Holmes & Watson: 2 (de)menti al servizio della Regina con 4 premi, peggior film, peggior regista (Ethan Coen), peggior remake, parodia o sequel e peggior attore non protagonista (John C. Reilly), Donald J. Trump con 2, peggior attore e peggior coppia sullo schermo (lui e la sua meschinità), e con un premio: Cinquanta Sfumature di Rosso per la peggior sceneggiatura, Kellyanne Conway in Fahrenheit 11/9 come la peggiore attrice non protagonista, ed infine, udite udite (perché fa effetto ricevere nello stesso anno la candidatura all'Oscar con un film, e poi ricevere il peggior riconoscimento possibile per un altro), Melissa McCarthy in Pupazzi senza gloria e Life of the Party come la peggiore attrice. Detto questo, ecco a voi i miei Razzie Awards del mese.
La fratellanza (Thriller, Usa 2017): Dopo aver causato accidentalmente la morte di un amico in un incidente d'auto, Jacob finisce in carcere con l'accusa di omicidio colposo. Per sopravvivere ai pericoli della detenzione si schiera con la fratellanza ariana la quale, dopo che l'uomo viene rilasciato per buona condotta, lo costringe a dover compiere un crimine per proteggere la sua ex-moglie e suo figlio. Modesto film carcerario che ricorre a un immaginario di violenza razziale francamente grossolano e già visto. L'estetica dei corpi scultorei, dei tatuaggi e dei neonazisti non trova uno sviluppo originale nel lavoro del regista Ric Roman Waugh (Snitch: L'infiltrato), che appare piuttosto grezzo e bidimensionale anche nella direzione degli attori e nella gestione di atmosfere e messa in scena. Gli elementi cardine di questo prodotto elementare sono la forza muscolare dei personaggi, la tensione congelata in grumi di cattiveria e di vendetta, ma si tratta di elementi che anziché dare forma al dramma carcerario lo appesantiscono a vuoto. Retorico e manicheo nella contrapposizione tra vittime e carnefici, La fratellanza può vantare la prova volenterosa Nikolaj Coster-Waldau, il notissimo Jamie Lannister de Il trono di spade, e nulla più di significativo. Il film infatti, e semplicemente, non vanta un testo forte. L'intuizione di base, la ricerca effettuata sul campo, la critica al sistema carcerario statunitense parevano indirizzarsi verso un orizzonte virtuoso, ma il tutto sfocia nel nulla nel momento in cui l'autore abbandona il territorio studiato per improvvisare un thriller. Dal momento in cui Jacob mette piede fuori dalle celle la pellicola abbandona l'idea di voler sondare la decadenza di un uomo e si converte a contenuti più banali e cinematografici. E insomma, l'impegno riposto nella pellicola è evidente, ma le tematiche toccate avrebbero necessitato di una delicatezza che il regista (più stuntman) non è stato in grado di garantire (purtroppo). Comunque a parte qualche iperbole forzata e dettagli che mettono alla prova la sospensione dell'incredulità (Jacob è assistito dall'avvocato più incompetente della storia), Shot Caller risulta digeribile, ma è evidente sia narrativamente inferiore a molti dei prodotti televisivi e cinematografici già in circolazione. Voto: 5,5
The Lodgers - Non infrangere le regole (Horror, Irlanda 2017): Ho visto già con La vedova Winchester dei fratelli Spierig una ghost story ambientata nella casa più infestata della California, la Winchester House, con The Lodgers – Non infrangere le regole ci spostiamo in quella più infestata d'Irlanda, ma il risultato è completamente diverso, ovvero un film ugualmente e potenzialmente interessante, con atmosfere e scenografie bellissime, ottima fotografia, rovinato però da una sceneggiatura sconcertante e da attori non all'altezza. Con questo film infatti, una fiaba nerissima che può contare su un'ambientazione vivida, con alcune immagini di solido impatto pittorico, un film che racconta di due gemelli costretti a vivere segregati in casa ed a rispettare certe strane regole, il regista Brian O'Malley combina un mezzo pastrocchio che si risolve (letteralmente, è il caso di dirlo) con un gran bel buco nell'acqua. Perché The Lodgers – Non infrangere le regole ha non solo la colpa di essere un brutto film, o un progetto completamente sbagliato, ma addirittura un horror che riesce prima a confondere (passerà almeno un'ora prima che si possa riuscire a capire qualcosa della vicenda) e poi ad annoiare profondamente. Quindi ancora due gemelli maledetti, una casa stregata, un interesse amoroso esterno per lei: nel caso ve lo steste chiedendo no, non siamo in Crimson Peak, ma il discorso è che se nemmeno il vincitore del premio Oscar Guillermo Del Toro era riuscito a dare nuova linfa al topos cinematografico della "maledizione familiare con gemelli annessi" non vedo come e perché possa poterci riuscire il buon O'Malley. Almeno Del Toro aveva arricchito la sua trama banale con quella vivace ambientazione colorata, con quei vestiti eleganti, con le sue idee visive: invece in questo horror gotico (che vuole essere d'atmosfera ma che non riesce ad esserlo) è tutto molto freddo, tutto molto grigio, tutto molto smorto e poco interessante, poco attraente, molto poco originale e soprattutto incredibilmente noioso. La sensazione diffusa è quella di un compitino caotico derivativo al quale sarebbe servita più asciuttezza nel muoversi tra le pieghe dell'horror (tanti gli stereotipi), con svolte visionarie e doppiezze sessuali che nell'ultima mezz'ora si fanno perfino programmatiche e pedestri. Pessimi Bill Milner e Eugene Simon, un po' meglio Charlotte Vega ma semplicemente perché il suo personaggio è caratterizzato un po' meglio e, comunque, è l'unico che, effettivamente, fa qualcosa nel film (piccolo ruolo per l'attore inglese David Bradley, però poco e mal sfruttato). Ma nonostante la buona prova della Vega (della bella attrice spagnola), la confezione di pregio e la messa in scena raffinata, suddetti elementi non bastano a fare di questo film qualcosa per cui valga la pena spendere del tempo. Voto: 4
Two Men in Town (Dramma, Francia, USA, 2014): Gioca di accumuli e rimandi questo film di Rachid Bouchareb. La base di partenza è il poliziesco di produzione italo-francese Due contro la città (Deux hommes dans la ville), scritto e diretto da José Giovanni nel 1973: due pezzi da novanta, Jean Gabin e Alain Delon, alla loro ultima collaborazione, e un ritratto poco allegro del sistema giudiziario transalpino. Alle prese con un'altra coproduzione internazionale dopo il non del tutto riuscito Just Like a Woman, il regista sceglie quindi l'impervia strada del remake, cercando (presumibilmente) di aggiornare e di traslocare geograficamente le suggestioni di quel film: il confine messicano, l'immigrazione clandestina, l'impossibilità della redenzione, l'ottusità e la crudeltà dei tutori dell'ordine e via discorrendo. Narrativamente si intreccia un po' di tutto, dalla coppia senza futuro ex-galeotto afroamericano e messicana onesta e lavoratrice, al (fragile) appiglio religioso di William, aggrappato con tutte le proprie forze a un islam davvero troppo lontano dalla Mecca, fino alle strizzatine d'occhio al western. A prescindere da una perdonabile prevedibilità narrativa, inutilmente sottolineata da una struttura circolare (così l'incipit finisce per fagocitare il finale, visivamente meno efficace), Two Men in Town sembra quasi accontentarsi dell'idea di fondo, di un canovaccio comunque trito e ritrito, e di un cast sulla carta più che interessante. Funziona abbastanza la strana coppia Forest Whitaker/Brenda Blethyn, sembra sottoutilizzato Harvey Keitel (anche Ellen Burstyn), mentre è il caratterista Luis Guzmán l'ago della bilancia, la cartina tornasole di un film che mette insieme troppi cliché e che forza la mano su alcuni decisivi snodi narrativi: emblematica, in questo senso, la sequenza di Teresa (Dolores Héredia) e Terence (Luis Guzmán), protagonisti di un pestaggio scritto e girato a dir poco frettolosamente. Costellato qui e là da qualche spunto poi lasciato evaporare, Two Men in Town non riesce a essere pienamente un western moderno, un poliziesco di frontiera e nemmeno un dramma sociale, finendo per essere sopraffatto dalla propria retorica. Il regista sembra quasi dimenticare le potenzialità dell'ambientazione e alcune basilari necessità narrative di un revenge movie, lasciandoci a bocca asciutta dal punto di vista visivo, e sperperando inoltre due attori talentuosi e una storia potenzialmente accattivante, ci lascia l'amaro in bocca per quello che poteva essere e che non è assolutamente stato. Voto: 5+
Made in Italy (Drammatico, Italia 2018): Vent'anni dopo il suo cult Radiofreccia e il successivo Da Zero a Dieci (2001), Ligabue ci prova di nuovo, raccontando una normale storia di tutti i giorni ambientata nella provincia emiliana e ritrovando il sodale Stefano Accorsi, affiancato questa volta da Kasia Smutniak. Ma nuovamente non fa centro (o almeno non del tutto). Certo, mi aspettavo di molto peggio, ma tuttavia il poco di buono che c'è (tra i pregi la voglia di tentare di uscire da un facile schema e soprattutto un gruppo di attori impegnato a rendere credibili anche i momenti meno felici: Stefano Accorsi e Kasia Smutniak funzionano abbastanza bene, anche se entrambi hanno fatto di meglio, Fausto Maria Sciarappa ha un personaggio non scritto benissimo ma gestito dall'attore con classe, mentre il migliore in campo è Walter Leonardi) non basta a far raggiungere la sufficienza al film, un film ambizioso (il regista infatti riprende titolo e struttura di un suo recente concept album, ovvero un disco in cui, come si faceva una volta, attraverso le canzoni si racconta una storia, il film difatti raccolta le vicende della coppia Riko e Sara accompagnandole con le canzoni di Ligabue quasi come un musical, con effetti spesso da videoclip), discontinuo (con troppi alti e bassi, con troppe citazioni, slogan, spunti, sotto-storie e personaggi, e soprattutto svolte brusche) e difettato. Già nel tentativo di delineare una traccia di trama sorgono le prime difficoltà: Made in Italy vuole essere uno spaccato della vita di un tipico operaio di ceto medio-basso, raccontandone le difficoltà quotidiane dentro e fuori il mondo del lavoro, tra crisi economica e problemi coniugali. La vita e la città che sembrano stare troppo strette a Riko (Stefano Accorsi), che trova nell'adulterio e nelle serate con gli amici uno spiraglio per idealizzare e concretizzare una fuga dal "tanfo" del quotidiano. Ma la sceneggiatura di Ligabue, ahimè, è informe e risulta spesso fumosa, con moralismi banali e mal contestualizzati che si rivelano i punti cardine su cui si regge la storia (tra i difetti del film troppe scene e dialoghi al limite dell'imbarazzante). Di conseguenza, il film appare come uno showreel di scene montate una di seguito all'altra, tutte di varia natura, scandendo malissimo le stagioni che accompagnano la narrazione. L'opera tenta di accendere un'emozione o di trasmettere qualche brivido di felicità, ma si percepisce ampiamente come la genuinità di una bella storia, raccontata di pancia, sia stata uccisa dalla necessità di compiacere quanto più pubblico possibile, cercando di riflettere i disagi di Riko sullo spettatore. Il terzo film del Liga è come un piatto con ottimi ingredienti ma cotto male: lascia il grande rammarico per ciò che sarebbe potuto essere e non è stato. Ed è invece un film che per essere apprezzato nei suoi spunti di interesse, richiede uno spettatore ben disposto e magari tifoso (come sono i fan del cantante di Correggio), e sicuramente, se non si ama il personaggio Ligabue e le sue canzoni, meglio stare alla larga dal film (avrei dovuto seguirlo io il mio stesso consiglio), anche perché il "Ligabue pensiero" quando parla di politica e società è sempre parso molto banale, nelle canzoni e altrove. Va bene la sincerità di fondo, ma non così, non come in questo film. Voto: 5
Detective Dee e i quattro Re celesti (Azione, Cina, Hong Kong, 2018): Sequel diretto (inizia esattamente dove si interrompeva il precedente film) di Young Detective Dee: Rise of the Sea Dragon e strettamente legato in coda al primo film della saga, ma ultimo nella cronologia narrativa, ovvero Detective Dee and the Mystery of the Phantom Flame, Detective Dee: The Four Heavenly Kings arriva a cinque anni di distanza dal precedente capitolo, e purtroppo il film di cui si parla non è qualitativamente lontanamente paragonabile a nessuno dei titoli classici del maestro, anzi, ha una sottilissima essenza cinematografica. Se il primo Detective Dee era tutto sommato un film "verosimile" e il secondo iniziava ad adottare caratteri più irreali, tra mutanti e creature giganti, in questo terzo capitolo le armi più potenti sembrano essere le "magie" e le allucinazioni. E questa scelta porge quindi un lussuoso vassoio d'argento al regista Tsui Hark per lasciarsi andare alle più deliranti visioni carnascialesche e surrealiste votate alla potenza del 3D, solo che nella visione classica, a causa dei molteplici piani visivi e di "strati" in campo abbastanza netti e votati ad una profondità di sguardo probabilmente inedita, il tutto lascia a volte basiti. Come se non bastasse il film, che racconta dei pericoli che Detective Dee deve affrontare quando l'Imperatrice Wu Zetian mossa dal timore che la straordinaria arma che l'Imperatore affida a Dee possa essere usata contro il potere imperiale, assolda potentissimi ed abilissimi stregoni per potergliela rubare, vira troppo in favore di una struttura narrativa e di tematiche tipiche da fantasy (abbondano difatti abbigliamenti e armi multiformi, mostri antropomorfi, draghi volanti, personaggi metà uomini e metà esseri fantastici). Ne scaturisce infatti un film che sicuramente è molto meno aderente alla realtà di quanto fu il primo capitolo con Andy Lau ad esempio, ma che non pecca certo di una spettacolarità che si traduce in puro divertimento sempre nutrito da un senso di meraviglia, non che manchino i tratti politici e sociali all'interno del racconto, con uno sconfinamento anche nella filosofia buddhista, attraverso la sublimazione del rancore che produce mostri di potenza estrema, ma è chiaro che la morale contenuta nel sotto-testo è ben lungi dall'essere preponderante. La figura di Dee, sempre a metà strada tra un antesignano di Sherlock Holmes e un invincibile guerriero, è la personificazione della ragione, l'ago della bilancia che riporta le cose nell'ambito della razionalità, il custode della fedeltà al Trono imperiale, personaggio intorno al quale si potrebbero imbastire a ragione serie infinite di racconti. Detective Dee e i quattro Re celesti è quindi lavoro eccessivo, estremo, nella sua continua ricerca di infrangere barriere tecniche e di linguaggio, ma rimane distante dai migliori lavori di Tsui Hark, perché anche se c'è sempre il divertimento e quel senso di sorpresa e meraviglia che è poi il fine ultimo e il motore del cinema, la delusione arriva. Voto: 5+
Two Men in Town (Dramma, Francia, USA, 2014): Gioca di accumuli e rimandi questo film di Rachid Bouchareb. La base di partenza è il poliziesco di produzione italo-francese Due contro la città (Deux hommes dans la ville), scritto e diretto da José Giovanni nel 1973: due pezzi da novanta, Jean Gabin e Alain Delon, alla loro ultima collaborazione, e un ritratto poco allegro del sistema giudiziario transalpino. Alle prese con un'altra coproduzione internazionale dopo il non del tutto riuscito Just Like a Woman, il regista sceglie quindi l'impervia strada del remake, cercando (presumibilmente) di aggiornare e di traslocare geograficamente le suggestioni di quel film: il confine messicano, l'immigrazione clandestina, l'impossibilità della redenzione, l'ottusità e la crudeltà dei tutori dell'ordine e via discorrendo. Narrativamente si intreccia un po' di tutto, dalla coppia senza futuro ex-galeotto afroamericano e messicana onesta e lavoratrice, al (fragile) appiglio religioso di William, aggrappato con tutte le proprie forze a un islam davvero troppo lontano dalla Mecca, fino alle strizzatine d'occhio al western. A prescindere da una perdonabile prevedibilità narrativa, inutilmente sottolineata da una struttura circolare (così l'incipit finisce per fagocitare il finale, visivamente meno efficace), Two Men in Town sembra quasi accontentarsi dell'idea di fondo, di un canovaccio comunque trito e ritrito, e di un cast sulla carta più che interessante. Funziona abbastanza la strana coppia Forest Whitaker/Brenda Blethyn, sembra sottoutilizzato Harvey Keitel (anche Ellen Burstyn), mentre è il caratterista Luis Guzmán l'ago della bilancia, la cartina tornasole di un film che mette insieme troppi cliché e che forza la mano su alcuni decisivi snodi narrativi: emblematica, in questo senso, la sequenza di Teresa (Dolores Héredia) e Terence (Luis Guzmán), protagonisti di un pestaggio scritto e girato a dir poco frettolosamente. Costellato qui e là da qualche spunto poi lasciato evaporare, Two Men in Town non riesce a essere pienamente un western moderno, un poliziesco di frontiera e nemmeno un dramma sociale, finendo per essere sopraffatto dalla propria retorica. Il regista sembra quasi dimenticare le potenzialità dell'ambientazione e alcune basilari necessità narrative di un revenge movie, lasciandoci a bocca asciutta dal punto di vista visivo, e sperperando inoltre due attori talentuosi e una storia potenzialmente accattivante, ci lascia l'amaro in bocca per quello che poteva essere e che non è assolutamente stato. Voto: 5+
Made in Italy (Drammatico, Italia 2018): Vent'anni dopo il suo cult Radiofreccia e il successivo Da Zero a Dieci (2001), Ligabue ci prova di nuovo, raccontando una normale storia di tutti i giorni ambientata nella provincia emiliana e ritrovando il sodale Stefano Accorsi, affiancato questa volta da Kasia Smutniak. Ma nuovamente non fa centro (o almeno non del tutto). Certo, mi aspettavo di molto peggio, ma tuttavia il poco di buono che c'è (tra i pregi la voglia di tentare di uscire da un facile schema e soprattutto un gruppo di attori impegnato a rendere credibili anche i momenti meno felici: Stefano Accorsi e Kasia Smutniak funzionano abbastanza bene, anche se entrambi hanno fatto di meglio, Fausto Maria Sciarappa ha un personaggio non scritto benissimo ma gestito dall'attore con classe, mentre il migliore in campo è Walter Leonardi) non basta a far raggiungere la sufficienza al film, un film ambizioso (il regista infatti riprende titolo e struttura di un suo recente concept album, ovvero un disco in cui, come si faceva una volta, attraverso le canzoni si racconta una storia, il film difatti raccolta le vicende della coppia Riko e Sara accompagnandole con le canzoni di Ligabue quasi come un musical, con effetti spesso da videoclip), discontinuo (con troppi alti e bassi, con troppe citazioni, slogan, spunti, sotto-storie e personaggi, e soprattutto svolte brusche) e difettato. Già nel tentativo di delineare una traccia di trama sorgono le prime difficoltà: Made in Italy vuole essere uno spaccato della vita di un tipico operaio di ceto medio-basso, raccontandone le difficoltà quotidiane dentro e fuori il mondo del lavoro, tra crisi economica e problemi coniugali. La vita e la città che sembrano stare troppo strette a Riko (Stefano Accorsi), che trova nell'adulterio e nelle serate con gli amici uno spiraglio per idealizzare e concretizzare una fuga dal "tanfo" del quotidiano. Ma la sceneggiatura di Ligabue, ahimè, è informe e risulta spesso fumosa, con moralismi banali e mal contestualizzati che si rivelano i punti cardine su cui si regge la storia (tra i difetti del film troppe scene e dialoghi al limite dell'imbarazzante). Di conseguenza, il film appare come uno showreel di scene montate una di seguito all'altra, tutte di varia natura, scandendo malissimo le stagioni che accompagnano la narrazione. L'opera tenta di accendere un'emozione o di trasmettere qualche brivido di felicità, ma si percepisce ampiamente come la genuinità di una bella storia, raccontata di pancia, sia stata uccisa dalla necessità di compiacere quanto più pubblico possibile, cercando di riflettere i disagi di Riko sullo spettatore. Il terzo film del Liga è come un piatto con ottimi ingredienti ma cotto male: lascia il grande rammarico per ciò che sarebbe potuto essere e non è stato. Ed è invece un film che per essere apprezzato nei suoi spunti di interesse, richiede uno spettatore ben disposto e magari tifoso (come sono i fan del cantante di Correggio), e sicuramente, se non si ama il personaggio Ligabue e le sue canzoni, meglio stare alla larga dal film (avrei dovuto seguirlo io il mio stesso consiglio), anche perché il "Ligabue pensiero" quando parla di politica e società è sempre parso molto banale, nelle canzoni e altrove. Va bene la sincerità di fondo, ma non così, non come in questo film. Voto: 5
Detective Dee e i quattro Re celesti (Azione, Cina, Hong Kong, 2018): Sequel diretto (inizia esattamente dove si interrompeva il precedente film) di Young Detective Dee: Rise of the Sea Dragon e strettamente legato in coda al primo film della saga, ma ultimo nella cronologia narrativa, ovvero Detective Dee and the Mystery of the Phantom Flame, Detective Dee: The Four Heavenly Kings arriva a cinque anni di distanza dal precedente capitolo, e purtroppo il film di cui si parla non è qualitativamente lontanamente paragonabile a nessuno dei titoli classici del maestro, anzi, ha una sottilissima essenza cinematografica. Se il primo Detective Dee era tutto sommato un film "verosimile" e il secondo iniziava ad adottare caratteri più irreali, tra mutanti e creature giganti, in questo terzo capitolo le armi più potenti sembrano essere le "magie" e le allucinazioni. E questa scelta porge quindi un lussuoso vassoio d'argento al regista Tsui Hark per lasciarsi andare alle più deliranti visioni carnascialesche e surrealiste votate alla potenza del 3D, solo che nella visione classica, a causa dei molteplici piani visivi e di "strati" in campo abbastanza netti e votati ad una profondità di sguardo probabilmente inedita, il tutto lascia a volte basiti. Come se non bastasse il film, che racconta dei pericoli che Detective Dee deve affrontare quando l'Imperatrice Wu Zetian mossa dal timore che la straordinaria arma che l'Imperatore affida a Dee possa essere usata contro il potere imperiale, assolda potentissimi ed abilissimi stregoni per potergliela rubare, vira troppo in favore di una struttura narrativa e di tematiche tipiche da fantasy (abbondano difatti abbigliamenti e armi multiformi, mostri antropomorfi, draghi volanti, personaggi metà uomini e metà esseri fantastici). Ne scaturisce infatti un film che sicuramente è molto meno aderente alla realtà di quanto fu il primo capitolo con Andy Lau ad esempio, ma che non pecca certo di una spettacolarità che si traduce in puro divertimento sempre nutrito da un senso di meraviglia, non che manchino i tratti politici e sociali all'interno del racconto, con uno sconfinamento anche nella filosofia buddhista, attraverso la sublimazione del rancore che produce mostri di potenza estrema, ma è chiaro che la morale contenuta nel sotto-testo è ben lungi dall'essere preponderante. La figura di Dee, sempre a metà strada tra un antesignano di Sherlock Holmes e un invincibile guerriero, è la personificazione della ragione, l'ago della bilancia che riporta le cose nell'ambito della razionalità, il custode della fedeltà al Trono imperiale, personaggio intorno al quale si potrebbero imbastire a ragione serie infinite di racconti. Detective Dee e i quattro Re celesti è quindi lavoro eccessivo, estremo, nella sua continua ricerca di infrangere barriere tecniche e di linguaggio, ma rimane distante dai migliori lavori di Tsui Hark, perché anche se c'è sempre il divertimento e quel senso di sorpresa e meraviglia che è poi il fine ultimo e il motore del cinema, la delusione arriva. Voto: 5+
La fuga dell'assassino (Azione, Usa 2017): Già il titolo italiano (anche se neanche eccezionale è quello internazionale, The Shadow Effect) è da una lato fuorviante e dall'altro anticipa troppo di un thriller che vorrebbe fare la differenza con le svolte narrative. Una storia che mescola reale e mistero, senso di colpa e rimozione, esplosioni e analisi dell'animo umano. La parte di azione prende il sopravvento, ma lo fa con scene al limite del risibile e dell'insensato, come già quella iniziale. Il film infatti, diretto da Obin Olson e Amariah Olson, che racconta del trentenne Gabriel che si sveglia sconvolto dopo aver sognato di aver aggredito il governatore dello Stato di Washington e fatto esplodere il palazzo, che per questo finirà per sprofondare in un tunnel dal quale sembra impossibile uscire, giacché per lui realtà e sogno si confonderanno sempre più, mescola moltissimi elementi, ma invece di creare una felice alchimia, fa solo tanta confusione. Le ispirazioni hanno difatti provenienze diverse, però sono anche troppe, in un film dove (tra cloni e manipolazioni genetiche) quasi ogni singolo elemento è già visto altrove e messo a posto a caso, come in un puzzle impazzito. Il risultato è frammentario e confuso e mai giustificato dall'alternarsi di sogno e realtà. Gli sviluppi sono prevedibili e quasi mai credibili, la messa in scena è debole anche nelle parti spettacolari, per non dire dei dialoghi (estremamente insulsi) e la recitazione (non si salva manco uno tra Jonathan Rhys Meyers, Cam Gigandet, Michael Biehn, Brit Shaw e Sean Freeland). Il film cerca (inutilmente) di chiarire tutta la cospirazione, tutta la questione della manipolazione negli ultimi venti minuti, cercando di colmare evidenti buchi nella trama. Una trama senza una direzione precisa (anzi, sconclusionata) e priva di coesione narrativa. Un lavoro che insomma manca di troppe cose, iniziando dal passaggio dall'idea a un'opera realizzata. Un'opera che parte da un'idea tutto sommato apprezzabile ma confezionata male, a cominciare dalla regia e dagli effetti speciali, davvero bassi e poco ispirati, un fanta-thriller inadeguato ed eseguito malissimo. Una pellicola che nonostante cerchi di parlare di temi "importanti" si lasci dimenticare facilmente, quest'ultimi infatti sono solo piccole pezze precarie sul tessuto sbrindellato di un film trascurabile. Voto: 2
L'incredibile vita di Norman (Drammatico, USA, Israele, 2016): Gli ultimi film che ho visto di Richard Gere mi sembrano un po' inconsistenti. Invecchiando Gere ha anche imparato a recitare, ma mi pare che siano proprio i film nei quali recita che non vanno. Franny di Andrew Renzi del 2015, ad esempio poteva essere una tematica anche interessante e Gere ce l'ha messa tutta, ma il film era proprio scarso, idem anche The Dinner e quasi quasi anche Ritorno al Marigold Hotel, un film comunque sufficientemente riuscito. Qui poi è totalmente fuori luogo che non si riesce proprio a vederlo in un personaggio ebreo, un ebreo, anzi, un faccendiere. L'idea per questo poteva suggerire forse un film comico, o almeno divertente, oppure un film decisamente drammatico dove la mancanza di autostima fa soffrire il protagonista che la cerca disperatamente negli altri cercando di essere utile. Norman è un imbroglione con manie di grandezza che si intrufola nei meandri della politica e dei businessmen cercando di metterli a contatto e risolvendo con bugie e piccoli inganni varie questioni. Finirà per diventare amico di Lior Ashkenazi che diventerà Primo Ministro d'Israele che lo nomina ambasciatore a New York. Ma poi gli antipacifisti vogliono fare le scarpe al Primo Ministro e lo accusano di corruzione proprio per aver accettato favori da Norman (e questa sarebbe la sua incredibile vita?). Un finale agrodolce (dove una spiegazione, che rimetta a posto tutti i pezzi del mosaico, spieghi la storia, e metta ordine e significato a quanto visto, non c'è) di un film noioso e troppo lento. L'incredibile vita di Norman è il terzo film di Joseph Cedar (il primo in inglese), un newyorkese trasferitosi a sei anni in Israele. Qui è la prima volta che la Charlotte Gainsbourg la si vede recitare "normalmente" senza quell'aura di erotismo di cui la cinematografia europea l'ha sempre graziata. Il film, non si può negare, è intelligente e va riconosciuto che il regista è abile nell'analisi psicologica dei personaggi. C'è però un problema, cioè che durante la visione ci si annoia: tanto nel primo tempo, abbastanza nel secondo e tutta la storia è avvolta da un velo di tristezza. Il film poi è troppo parlato e risulta piuttosto noioso. Richard Gere inoltre fa simpatia ma non fa ridere. E insomma ennesimo suo film inconsistente. Voto: 4
L'incredibile vita di Norman (Drammatico, USA, Israele, 2016): Gli ultimi film che ho visto di Richard Gere mi sembrano un po' inconsistenti. Invecchiando Gere ha anche imparato a recitare, ma mi pare che siano proprio i film nei quali recita che non vanno. Franny di Andrew Renzi del 2015, ad esempio poteva essere una tematica anche interessante e Gere ce l'ha messa tutta, ma il film era proprio scarso, idem anche The Dinner e quasi quasi anche Ritorno al Marigold Hotel, un film comunque sufficientemente riuscito. Qui poi è totalmente fuori luogo che non si riesce proprio a vederlo in un personaggio ebreo, un ebreo, anzi, un faccendiere. L'idea per questo poteva suggerire forse un film comico, o almeno divertente, oppure un film decisamente drammatico dove la mancanza di autostima fa soffrire il protagonista che la cerca disperatamente negli altri cercando di essere utile. Norman è un imbroglione con manie di grandezza che si intrufola nei meandri della politica e dei businessmen cercando di metterli a contatto e risolvendo con bugie e piccoli inganni varie questioni. Finirà per diventare amico di Lior Ashkenazi che diventerà Primo Ministro d'Israele che lo nomina ambasciatore a New York. Ma poi gli antipacifisti vogliono fare le scarpe al Primo Ministro e lo accusano di corruzione proprio per aver accettato favori da Norman (e questa sarebbe la sua incredibile vita?). Un finale agrodolce (dove una spiegazione, che rimetta a posto tutti i pezzi del mosaico, spieghi la storia, e metta ordine e significato a quanto visto, non c'è) di un film noioso e troppo lento. L'incredibile vita di Norman è il terzo film di Joseph Cedar (il primo in inglese), un newyorkese trasferitosi a sei anni in Israele. Qui è la prima volta che la Charlotte Gainsbourg la si vede recitare "normalmente" senza quell'aura di erotismo di cui la cinematografia europea l'ha sempre graziata. Il film, non si può negare, è intelligente e va riconosciuto che il regista è abile nell'analisi psicologica dei personaggi. C'è però un problema, cioè che durante la visione ci si annoia: tanto nel primo tempo, abbastanza nel secondo e tutta la storia è avvolta da un velo di tristezza. Il film poi è troppo parlato e risulta piuttosto noioso. Richard Gere inoltre fa simpatia ma non fa ridere. E insomma ennesimo suo film inconsistente. Voto: 4
Cold Skin (Thriller, Spagna, Francia, 2017): Pecca di un'ambiguità iniziale dello script, ricompensata, solo in parte, dalla suggestiva location d'epoca e non solo, con le splendide location delle Canarie. La storia, anche da un punto di vista cinematografico, ha molti spunti affascinanti. Tuttavia, il film si muove su un binario drammaturgico che finisce per diventare scontato. La sceneggiatura, infatti, non offre svolte significative, anzi si adagia sul lavoro immaginifico della fotografia, accontentandosi di devolvere l'insieme della resa al finale, peraltro abbozzato. Certo, ben interpretato, ambientato e girato: ma tutto questo contribuisce a rendere più evidente lo spreco. Per una storia ed una pellicola (diretta da Xavier Gens, che a parte Frontier(s) non si fa ricordare per altro) sconclusionata (non si capisce cosa vogliono e perché) e di difficile sopportazione, con uno sviluppo modesto e più prossimo al genere fantastico (o fiabesco, molto simile a The Shape of Water, accostamento che però va preso alla leggera, differenza sostanziale). Comunque, ambientato nel 1914, la trama ha come protagonista Friend. Non sappiamo cos'è successo, quale sia il suo passato, e ciò indebolisce il potenziale di empatia verso il personaggio interpretato da David Oakes (quello di Victoria la serie). Da spettatore, lo conosciamo come un giovane, in fuga da un qualcosa di oscuro, determinato a prendersi un anno sabbatico dalla cosiddetta società "civilizzata". Su un'isola, apparentemente disabitata, nel sud dell'Atlantico, Friend accetta l'impiego di osservatore meteorologico. In realtà, l'isola ha un altro ospite, un certo Gruner (Ray Stevenson), un anziano guardiano del faro, diventato pazzo dagli anni di solitudine. Gruner vive con una misteriosa creatura anfibia. È Aneris (Aura Garrido), una sorta di sirena, resa brutalmente schiava dal guardiano (immaginate bene). Il suo canto disperato richiama di notte i suoi simili: sembrano creature mostruose, la pelle fredda, il sangue blu, che Friend e Gruner combattono di notte, come disperati soldati di trincea. Tuttavia, dietro la minaccia dei mostri, c'è la ciclica malvagità del comportamento umano. Una natura maligna e recidiva, suggerisce il film, esacerbata dagli orrori della Prima guerra mondiale. I significati evidenti (annegati nel buonismo più prevedibile) oscillano così dalla denuncia della prepotenza colonialista alla contraddizione delle teorie darwiniste. Ma dopo mezz'ora di visione diventa impossibile immedesimarsi nella situazione, con queste creature (denominate facce di rospo) dalla pelle ghiacciata (da cui il titolo) e il cuore caldo portate sullo schermo senza la minima atmosfera. Qualche poco riuscito effetto in CGI (le scene con creature in massa) e una colonna sonora che concilia il sonno (le musiche non la fanno da padrone e rimangono un po' sottotono) però, proprio non aiutano a risollevare le sorti di un film mediocre, un film allettante all'inizio, deludente alla fine. Da manicomio il sottotitolo italiano: La creatura di Atlantide. Chi lo ha scelto, non ha certamente visto il film. E, in parte, lo si può capire. Voto: 5+
Bye Bye Germany (Dramma, Germania, Lussemburgo, Belgio, 2017): Sam Garbarski prova a ripetere il tocco magico riuscitogli in Irina Palm: Il talento di una donna inglese, ossia affrontare un tema ispido con coraggio, ci riesce anche in questo film, un film sull'Olocausto che cerca di raccontarci l'orrore vissuto dal popolo ebreo, con grazia e un pizzico di umorismo, un film quindi molto particolare che prova ad unire momenti di ilarità ad attimi di puro pathos, quando i sopravvissuti ricordano le vicende peggiori della loro prigionia, in particolare sono gli eventi vissuti dal protagonista, David Bermann (interpretato da Moritz Bleibtreu) a tenerci incollati allo schermo per conoscere la sua buffa storia, quella di un sospettato di essere stato, nel corso della guerra, quando era nel campo di concentramento, un collaborazionista dei nazisti, quello di un commerciante di biancheria che mentre prova in tutti i modi a scagionarsi, continua il suo business, senza guardare in faccia a nessuno, ma non riesce a gestire i toni e i registri del film, gli manca innanzitutto l'umorismo e la leggerezza per giocare con la commedia su un terreno così scivoloso, e così facendo, il contrasto col lato drammatico del film si perde e il pathos sembra fuori luogo. L'intento della pellicola, c'è da dirlo, è lodevole perché prova a spiegare cosa abbia portato alcuni ebrei (ben 4.000, come apprendiamo alla fine della storia) a decidere di restare in Germania, piuttosto che tentare di rifarsi una vita in America. Sono uomini e donne che scelgono di non lasciare il paese che ha ucciso i loro sogni, le loro speranze, le loro famiglie. Sam Garbarski riesce, in parte, a farci capire che queste persone, nonostante non fosse umanamente pensabile l'idea di restare in Germania, sono rimaste per motivi profondamente legati alla natura umana: chi per possibile profitto, chi per opportunismo, chi per attaccamento a una terra che, nonostante gli abbia portato via molto, ha comunque chiamato casa, però sembra fare il cosiddetto passo più lungo della gamba. Il film infatti è abbastanza strambo, che paradossalmente fa più che ridere che piangere, che a volte annoia e non riesce a rendersi minimamente emozionante. E perciò detto questo Bye bye Germany non può che finire nel dimenticatoio, reo di aver sprecato l'attitudine anti manichea di Moritz Bleibtreu e la bellezza statuaria di Antje Traue in una mistura squilibrata, con un accavallamento di materiale che crea principalmente spifferi, nonostante le premesse avessero tutto il necessario (gli ebrei rimasti in Germania dopo la fine della guerra, gli imbrogli quotidiani, i dubbi e il ricorso a una vicenda clamorosa che tirava in mezzo lo stesso Hitler) per creare uno spartito valido per tutti i palati. In definitiva difatti, è questo un film sbiadito e confusionario. Voto: 5+
Ecco infine i film scartati ed evitati:
Ogni giorno Per il momento passo, poi chissà, perché adesso già leggendo la trama vado in confusione.
Tu mi nascondi qualcosa Leggera proprio leggera, ma anche banale, commedia italiana.
Per sempre la mia ragazza Sapete perché A star is born è un film convenzionale? Perché questo è l'ennesimo film simile già visto decine di volte.
Nut Job - Tutto Molto Divertente Già non era granché il primo, figuriamoci questo sequel.
L'infiltrato Va bene Dolph Lundgren, ma perché fargli fare sempre film banali?
Debt Collector E niente, altro action che più banale non si può, per giunta con Scott Adkins.
Suocero scatenato Da nonno a suocero, e siccome orrido fu quel film, poco allettante è questo qui.
Terapia di coppia per amanti Soltanto un grosso mah, perché già il titolo mette tristezza.
La vendetta di Viktor Revenge movie tranquillamente evitabile.
Show Dogs - Entriamo in scena Non sono più il tipo che vedeva certi film, quel tempo è passato.
Kings Le rivolte di Los Angeles del 1992 il tema di un film sotto certi aspetti controverso e presumibilmente dimenticabile, come dimenticabili parrebbero i capelli di Halle Barry.
Tra sogno e realtà Tra l'inutilità è la dimenticabilità, fate un po' voi.
Sulle ali delle aquile L'ennesima banale storia di un americano prigioniero dei giapponesi.
Il viaggio delle ragazze Commedia al femminile che non aggiunge niente di niente a qualcosa di già visto.
Una festa esagerata Prevedo più che una festa, una cavolata esagerata, quindi passo, e per sempre.
Inferno di cristallo Il titolo mi fa tremare parecchio, non voglio credere sia un remake di qualcosa.
La regina del peccato Thriller canadese intrigante nelle intenzioni, sicuramente prevedibile e puerile alla fine.
Bravo, concordo pienamente sulla recensione del film di Ligabue.
RispondiEliminaOttima la metafora degli ingredienti cucinati male: infatti magari affidando il lavoro a un vero sceneggiatore e a un vero regista...poteva uscire qualcosa di più interessante.
Già, perché di base non è male, però la poca esperienza c'è e si vede.
EliminaPoca esperienza? Ahahahah
EliminaBeh, non è mica un regista di professione, è un cantante dopotutto..
EliminaÈ un cantautore, regista, poeta e scrittore.
EliminaE ho capito, e che ti devo dire? Che preferisco Vasco? :D
EliminaMale, molto male😉
EliminaAlcuni manco mai sentiti, per fortuna.
RispondiEliminaIl film di Liga lo vedrei, però: amo Radiofreccia e ho apprezzato Da zero a dieci (sebbene sia inferiorissimo al primo).
Chissà...
Moz-
Lo so, ho definito cult Radiofreccia proprio per te, perché per me non lo è...
EliminaMade in Italy è un bel film. Non mi trovo per nulla d'accordo con quello che hai scritto, Pietro. Forse è un tono inferiore agli altri due di LL (Radiofreccia sopra tutti) ma di sicuro non l'ho trovato nè discontinuo nè debole. Un ottimo soggetto premiato con il Nastro d'argento lo scorso anno. E ha vinto altri premi. Che dire, Luciano Ligabue, non gode di molte simpatie e spesso gli si da addosso per sport😉
EliminaPs: il concept album non è mai passato di moda, solo che è molto complicato da realizzare. Non è da tutti😁😁😁
So della tua predilezione verso Ligabue, ed è normale che difendi questo film, che come detto è meglio di quello che mi aspettavo, ed è già tanto, che poi meritasse premi o meno, che sia un bel film è soggettivo ;)
EliminaAnche le critiche sono soggettive. E per fortuna.
EliminaEsatto, e non bisogna prendersela poi tanto ;)
EliminaNon ne ho visto nemmeno uno. E vedo che non mi sono persa nulla. Meglio così. ;)
RispondiEliminaDi questi ne sono passati in tv 2, ma dubito li avresti comunque visti essendo praticamente due Fantasy ;)
EliminaSe hai letto Telegram, sai cosa penso dei post di voi cineblogger dedicati agli Oscar, tanto che vi ho dedicato la mia finestra che dà sul mare. Tema: la vastità del cazzo che me ne frega! 😝
RispondiEliminaPiuttosto, ne avrei apprezzato di più uno suo Razzie!
Questi film non sarebbero mai finiti nella mia lista ma dato che li sconsigli, provo a tenermene alla larga, anche se non concordiamo sempre.
Spero di ricordare La Fuga dell'Assassino. Come dici, il titolo è fuorviante e quindi temo di essere fregato. Me lo devo segnare!
Sì, ho letto quel passaggio su Telegram, ma ritieniti fortunato che accade una volta l'anno e che al massimo sono due post :D
EliminaNon a caso ne ho fatto io uno piccolo sui Razzie con questo post mensile ;)
Stavolta proprio su La fuga dell'assassino, che io dico perché?, non credo saremo in disaccordo quando lo vedrai...
Del Detective Dee ho visto il primo film e non mi è piaciuto, quindi questo sequel non lo guarderò! Gli altri film non li conosco eccetto Norman con Richard Gere, ma non l'ho ancora visto. :)
RispondiEliminaSono film che hanno bisogno di esser capiti, ben lontani dalla nostra cultura, perciò ci sta ;)
EliminaSicuramente vedrai ugualmente Norman, però secondo me non ti piacerà, ma non saprei con certezza :)
Concordo su Norman: tremendo!
RispondiEliminaChe dire? condivido ahinoi..
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