Ancora un regista giapponese eccessivo e delirante, dopo i molti maestri (più o meno controversi) che il cinema del Sol Levante ci ha fatto incontrare negli ultimi 15-20 anni. Maestri (ma non dell'animazione) che ho scoperto ed ho conosciuto però solo nell'ultima decade. Un pensiero a certi film di Takeshi Kitano o di Takashi Miike è infatti inevitabile. A proposito di quest'ultimo, tornerà presto su questi schermi, con altre pellicole della sua filmografia, come succederà anche nel caso del regista oggi in oggetto. Parlo ovviamente di Sion Sono, che ho conosciuto tramite lo spiazzante ed incredibile horror Tag, che dopo averne lette da alcune parti, in modo positivo logicamente, ne ho voluto perciò scoprire qualcosa in più. Scoprire ciò naturalmente tramite la sua discreta (in termini numerici) filmografia. Cosa poi non così semplice, non perché complessa (soprattutto in termini tematici, e di questo ne dirò dopo) ma perché di difficile reperibilità, infatti nonostante sia uno dei più apprezzati esponenti della cultura giapponese moderna e uno dei cineasti contemporanei più dirompenti, nel nostro paese Sion Sono è noto solo ad una cerchia ristretta di spettatori e critici, e nessuno dei suoi film è mai stato distribuito in Italia, a parte alcune presentazioni alla Mostra di Venezia. Tuttavia ci son riuscito, con i sottotitoli certo, ma intatto rimane il valore del suo cinema, un cinema che, pur estremamente raffinato, tende alla "popolarità", nel senso più moderno: visionario, provocatorio e torrenziale, mescola psicanalisi e Grand Guignol, mélo e cultura pop, horror e politica, serial killer e dark ladies, Nouvelle vague e Tarantino, una lucida disperazione per il vuoto nel quale si trovano immersi i giovani d'oggi e una testarda impronta anarchica che lo porta a non ripetersi mai, a non ammorbidirsi, ad andare sempre oltre. Ebbene ho visto quattro dei suoi film (come da Promessa), tra i più importanti e conosciuti della sua filmografia, ma altri quattro, quasi sicuramente (ma che non saranno collegati alla Promessa per il 2020), vedrò l'anno prossimo. Intanto beccatevi questi qui e tenetevi forti, Sion Sono dopotutto è un degno erede di Miike, e suoi film si sa, pungenti e disturbanti sono.
Tema e genere: Dal folle e genialoide regista Sion Sono, un primo assaggio della sua estetica spiazzante e disturbante, con un film horror dai toni drammatici incentrato sull'alienazione della società giapponese.
Trama: Una task force della polizia indaga sul dilagare di una allarmante moda che sta prendendo piede tra giovanissimi liceali: quella di mettere in atto inaspettati quanto eclatanti suicidi di massa. Sospettando dapprima una organizzazione che agirebbe per istigazione via internet, vengono messi fuori strada da due cybernaute che stanno studiando il caso e quindi da un gruppo di sadici mitomani tratti in arresto. La verità però sembra più sconvolgente e incredibile di quanto sembri.
Recensione: Nato come primo capitolo di una trilogia sull'alienazione e l'individualismo spinto della società nipponica (con tanto di merchandising, libro e manga al seguito) questo stravagante giallo-horror pittoresco ed eccentrico, si diverte a portarci sulla falsa pista di una detection dai risvolti macabri e surreali per spostarsi infine su quelli di una teoria del complotto che chiama direttamente in causa la responsabilità dei mezzi di comunicazione di massa (internet, tv e telefono) quali veicoli d'elezione per la manipolazione della coscienza collettiva e nemesi di un irreversibile fallimento della coscienza individuale. Se le forme di un falso documentario (camera mobilissima, scene di vita quotidiana, indagine sugli aspetti più controversi della modernità tecnologica) sono solo il paravento per una storia ad incastri che rivela la solita ipertrofia e gusto per l'eccesso del cinema nipponico, le innumerevoli citazioni e l'abilità di condurre il gioco lungo il fil rouge di una pista sbandierata fin dall'incipit e ribadita più volte durante le numerose sequenze rivelatrici sparse per il film, ne fanno un piccolo saggio sul potere di mistificazione delle immagini e più in generale degli stimoli che subiamo continuamente dai subdoli strumenti di convincimento di una dilagante società dei consumi. Quello che se ne ricava in fin dei conti è il primato delle sovrastrutture sociali sul libero arbitrio individuale e sulla possibilità che tutto avvenga senza uno scopo o una ragione precisa. Non c'è il perché insomma, ma solo il come: l'empatia ed una semplice telefonata sono il detonatore di un'assurda epidemia di auto-da-fe eterodiretti. Dove non porta la falsa pista di una banda di sadici mitomani dell'omicidio di massa, portano invece i subdoli ed assai più potenti messaggi subliminali di una (boy)band di ragazzine in pigiama (quando si dice: l'innocenza del diavolo ai tempi dei tormentoni tv e delle videochat). Nella sorpresa finale poi il paradossale ribaltamento di un irriducibile nichilismo esistenzialista, laddove comunque si viri decisamente al fantapolitico ed al pop, il film di Sono finisce per veicolare lo stravagante gusto nipponico di un inaspettato inno alla vita. Non un horror classico quindi, non un film che fa spavento per il sangue o a causa della presenza di un fantasma assetato di vendetta, ma un film che colpisce e stranisce, e tanto.
Regia/Sceneggiatura/Aspetto tecnico: Atmosfere lugubri (efficaci), desolazione e nichilismo la fanno da padrone in Suicide Club, film che ha lanciato il cineasta nipponico a livello internazionale. Si respira infatti e per tutta la pellicola (giacché la morte pervade tutta la pellicola, insidiandosi nell'animo dei personaggi, ben espresso dagli attori, e della società nipponica in generale) un senso di depressione e angoscia, misto a bizzarre e sanguinose scene di morti violente (non ci vengono difatti risparmiati fiumi di sangue, orecchie mozzate et similia, tutto in uno stile per niente fastidioso-invadente e/o splatter ma, anzi, molto ricercato), il tutto accompagnato da un assillante (funzionale) brano j-pop che fa da sfondo all'intera pellicola. Una pellicola in cui Sono, cinico e disincantato, dipinge (e bene) un mondo in cui si perde qualunque motivazione a vivere, e suicidarsi diventa un gioco da provare durante l'intervallo delle lezioni. Continui colpi di scena rendono imprevedibile la sceneggiatura (anche se quest'ultima è complessa, misteriosa e articolata) che offre continuamente nuove possibili soluzioni al caso (labirintica e sostenuta fino alla fine, non lascia un attimo di spazio allo spettatore, nessuna pausa narrativa, nessun punto morto). Esso è infatti trasportato in una faticosa ma necessaria cavalcata verso la risoluzione di un mistero che appare privo di senso.
Cast: Al più attori sconosciuti, alcuni invece già visti in altri lavori, ecco quindi Ryō Ishibashi (The Grudge e The Grudge 2), Akaji Maro (Kill Bill: Volume 1 e Kill Bill: Volume 2) e Nagase Masatoshi (Le ricette della signora Toku e Paterson).
Commento Finale: Una musichetta infantile accompagna il macabro suicidio di massa iniziale, e il sangue schizza a fiotti sui vetri del treno e sui passanti ignari. Parte così Suicide Club, film cult dell'ennesimo visionario regista giapponese, Sion Sono appunto. Degno successore di Takashi Miike, il giovane ex regista di porno scava nell'inconscio umano denunciando il sistema scolastico e la tecnologia. Allucinato oltreché visionario, dotato di una fantasia fuori del comune, egli affronta un problema molto sentito dal popolo nipponico, quello del suicidio, e lo fa in uno stile unico e personale. Sono realizza infatti un'opera complessa, dove ci sono indizi devianti (un rotolo di pelle umana ritrovato in una borsa sul luogo del suicidio di massa), scene del più esplicito gore disgustoso (da ricordare la casalinga che anziché tagliare il formaggio, finisce per tagliarsi in tanti piccoli pezzi la mano) e metafore (il misterioso ed enigmatico finale). Il finale è ipnotico, avvolgente, e anche se non riesce a spiegare ogni cosa, non delude comunque. Resta l'impressione di aver assistito a qualcosa di unico, di sconvolgente, fuori dai binari di una cinematografia ortodossa.
Consigliato: Sì, soprattutto a chi può reggere, agli altri proprio no.
Voto: 7
Trama: Una task force della polizia indaga sul dilagare di una allarmante moda che sta prendendo piede tra giovanissimi liceali: quella di mettere in atto inaspettati quanto eclatanti suicidi di massa. Sospettando dapprima una organizzazione che agirebbe per istigazione via internet, vengono messi fuori strada da due cybernaute che stanno studiando il caso e quindi da un gruppo di sadici mitomani tratti in arresto. La verità però sembra più sconvolgente e incredibile di quanto sembri.
Recensione: Nato come primo capitolo di una trilogia sull'alienazione e l'individualismo spinto della società nipponica (con tanto di merchandising, libro e manga al seguito) questo stravagante giallo-horror pittoresco ed eccentrico, si diverte a portarci sulla falsa pista di una detection dai risvolti macabri e surreali per spostarsi infine su quelli di una teoria del complotto che chiama direttamente in causa la responsabilità dei mezzi di comunicazione di massa (internet, tv e telefono) quali veicoli d'elezione per la manipolazione della coscienza collettiva e nemesi di un irreversibile fallimento della coscienza individuale. Se le forme di un falso documentario (camera mobilissima, scene di vita quotidiana, indagine sugli aspetti più controversi della modernità tecnologica) sono solo il paravento per una storia ad incastri che rivela la solita ipertrofia e gusto per l'eccesso del cinema nipponico, le innumerevoli citazioni e l'abilità di condurre il gioco lungo il fil rouge di una pista sbandierata fin dall'incipit e ribadita più volte durante le numerose sequenze rivelatrici sparse per il film, ne fanno un piccolo saggio sul potere di mistificazione delle immagini e più in generale degli stimoli che subiamo continuamente dai subdoli strumenti di convincimento di una dilagante società dei consumi. Quello che se ne ricava in fin dei conti è il primato delle sovrastrutture sociali sul libero arbitrio individuale e sulla possibilità che tutto avvenga senza uno scopo o una ragione precisa. Non c'è il perché insomma, ma solo il come: l'empatia ed una semplice telefonata sono il detonatore di un'assurda epidemia di auto-da-fe eterodiretti. Dove non porta la falsa pista di una banda di sadici mitomani dell'omicidio di massa, portano invece i subdoli ed assai più potenti messaggi subliminali di una (boy)band di ragazzine in pigiama (quando si dice: l'innocenza del diavolo ai tempi dei tormentoni tv e delle videochat). Nella sorpresa finale poi il paradossale ribaltamento di un irriducibile nichilismo esistenzialista, laddove comunque si viri decisamente al fantapolitico ed al pop, il film di Sono finisce per veicolare lo stravagante gusto nipponico di un inaspettato inno alla vita. Non un horror classico quindi, non un film che fa spavento per il sangue o a causa della presenza di un fantasma assetato di vendetta, ma un film che colpisce e stranisce, e tanto.
Regia/Sceneggiatura/Aspetto tecnico: Atmosfere lugubri (efficaci), desolazione e nichilismo la fanno da padrone in Suicide Club, film che ha lanciato il cineasta nipponico a livello internazionale. Si respira infatti e per tutta la pellicola (giacché la morte pervade tutta la pellicola, insidiandosi nell'animo dei personaggi, ben espresso dagli attori, e della società nipponica in generale) un senso di depressione e angoscia, misto a bizzarre e sanguinose scene di morti violente (non ci vengono difatti risparmiati fiumi di sangue, orecchie mozzate et similia, tutto in uno stile per niente fastidioso-invadente e/o splatter ma, anzi, molto ricercato), il tutto accompagnato da un assillante (funzionale) brano j-pop che fa da sfondo all'intera pellicola. Una pellicola in cui Sono, cinico e disincantato, dipinge (e bene) un mondo in cui si perde qualunque motivazione a vivere, e suicidarsi diventa un gioco da provare durante l'intervallo delle lezioni. Continui colpi di scena rendono imprevedibile la sceneggiatura (anche se quest'ultima è complessa, misteriosa e articolata) che offre continuamente nuove possibili soluzioni al caso (labirintica e sostenuta fino alla fine, non lascia un attimo di spazio allo spettatore, nessuna pausa narrativa, nessun punto morto). Esso è infatti trasportato in una faticosa ma necessaria cavalcata verso la risoluzione di un mistero che appare privo di senso.
Cast: Al più attori sconosciuti, alcuni invece già visti in altri lavori, ecco quindi Ryō Ishibashi (The Grudge e The Grudge 2), Akaji Maro (Kill Bill: Volume 1 e Kill Bill: Volume 2) e Nagase Masatoshi (Le ricette della signora Toku e Paterson).
Commento Finale: Una musichetta infantile accompagna il macabro suicidio di massa iniziale, e il sangue schizza a fiotti sui vetri del treno e sui passanti ignari. Parte così Suicide Club, film cult dell'ennesimo visionario regista giapponese, Sion Sono appunto. Degno successore di Takashi Miike, il giovane ex regista di porno scava nell'inconscio umano denunciando il sistema scolastico e la tecnologia. Allucinato oltreché visionario, dotato di una fantasia fuori del comune, egli affronta un problema molto sentito dal popolo nipponico, quello del suicidio, e lo fa in uno stile unico e personale. Sono realizza infatti un'opera complessa, dove ci sono indizi devianti (un rotolo di pelle umana ritrovato in una borsa sul luogo del suicidio di massa), scene del più esplicito gore disgustoso (da ricordare la casalinga che anziché tagliare il formaggio, finisce per tagliarsi in tanti piccoli pezzi la mano) e metafore (il misterioso ed enigmatico finale). Il finale è ipnotico, avvolgente, e anche se non riesce a spiegare ogni cosa, non delude comunque. Resta l'impressione di aver assistito a qualcosa di unico, di sconvolgente, fuori dai binari di una cinematografia ortodossa.
Consigliato: Sì, soprattutto a chi può reggere, agli altri proprio no.
Voto: 7
Tema e genere: Prendendo spunto da un vero fatto di cronaca, Sion Sono in modo giustamente rimaneggiato, parte con l'ormai classico tema della famiglia disfunzionale (argomento cardine della sua poetica) per poi prendere le strade di un thriller pacato fino ad inanellarsi sui binari dell'horror brutale e grottesco dove tra l'altro trova posto pure il genere dell'ero-guru (erotico grottesco). Dando così vita ad film drammatico e terrificante, ulteriore tassello di una filmografia ricca e stratificata come quella del regista giapponese.
Trama: Shamoto, gestore di un negozio di pesci tropicali, ha una figlia adolescente, Mitsuko, che viene fermata per taccheggio in una drogheria. L'aiuta a risolvere la faccenda Murata, anch'egli gestore di un negozio di pesci tropicali, per il quale Mitsuko inizia a lavorare. In realtà, dietro al suo fare gentile, Murata nasconde segreti inconfessabili che condivide insieme a sua moglie.
Recensione: Sion Sono trova nella realtà uno spunto per tratteggiare ancora una volta un ritratto sconfortante dei mali esistenziali del popolo giapponese contemporaneo: disgregazione famigliare, depravazione sessuale, patologie mentali. Con una freddezza che fa ben più terrore delle sanguinolente immagini messe in scena (pure spaventose), il regista filma la distruzione psicologica del protagonista, giapponese medio con un lavoro tranquillo ed una famiglia normale, che lentamente vede crollare tutto ciò che ha costruito sotto i colpi di una follia cieca di cui è sia vittima che complice. Non si sa proprio per chi fare il tifo in questo film che non vanta nessun personaggio positivo, bensì una schiera di personcine maligne, meschine, o semplicemente pazze. Un abisso senza fondo che può solo precipitare in una violenza talmente efferata da poter essere perpetrata senza suscitare scandalo né rimorso di coscienza. Cold Fish, come sempre capita nei film di Sion Sono, è quindi un'opera complessa e stratifica che si serve intelligentemente di vari generi cinematografici per mostrarci un'umanità allo sbaraglio, forse destinata all'oblio. Perché anche se Cold Fish, per quanto atipico ed originale, rimane comunque un film di genere in grado di sorprendere soprattutto gli amanti dell'horror (gli omicidi sono glaciali ed il tutto risulterà molto disturbante per l'indifferenza e la brutalità con cui vengono perpetuati), per i suoi temi drammatici e sociali, può riuscire a colpire tutti. Più in generale, se con Suicide Club, Sono faceva del suicidio un atto di coraggiosa presa di coscienza di sé, Cold Fish può invece considerarsi un'apologia (satirica ovviamente) dell'omicidio: uccidere sembra infatti essere l'unica esperienza in grado di svegliare l'uomo medio dall'anestesia del tran-tran quotidiano e riscattare il grigiore di una vita anonima passata a chinare il capo e seguire la corrente. Il film, visivamente parlando, non risparmia nulla allo spettatore soverchiandolo con scene di violenza, massacro e sesso abusante (l'ultima mezz'ora è di una potenza visiva che mi ha fatto venire la pelle d'oca). A livello contenutistico viene messa (anche fuor di metafora) molta carne al fuoco (anche in maniera seppur velata, la religione, in qualche modo associata ad un gesto orribile come l'occultamento di un cadavere). Il gioco è quello della dissoluzione di ogni senso etico ed infatti a questo tritacarne non sfugge nessuno: donne manipolatrici e prive di scrupoli, ammansite e ammaliate unicamente da potere e violenza, la nuova generazione (rappresentata dalla figlia) desiderosa di liberarsi il più presto possibile dell'insensata zavorra genitoriale per poter perseguire, senza remora, l'esclusivo principio del piacere. Le figure adulte maschili, per completare il quadretto, sembrano obbedire invariabilmente alla legge del più forte, restituendo anche nei modi e nella recitazione, una cruda ferinità. La quota d'odio che viene sprigionata (la trasformazione di lui è davvero fulgida) è molta e la storia "rimane", non soltanto a causa del raccapricciante impatto visivo.
Regia/Sceneggiatura/Aspetto tecnico/Cast: La regia di Sion Sono è calibratissima nella costruzione narrativa, una lenta ma inesorabile discesa all'inferno, rapida quando serve, pacata nella prima metà e via via sempre più nervosa. La fotografia predilige tonalità scure e ombre, per poi far esaltare un rosso acceso della carne sanguinolenta che inonda l'inquadratura. Colonna sonora funzionale e notevole interpretazione da parte di tutti completano il quadro che, sebbene privo di particolari difetti (tolto forse qualche insistito compiacimento grand-guignolesco nella seconda parte) non brilla per originalità del plot.
Commento Finale: A mio avviso Sion Sono ha il difetto di essere spesso prolisso e ripetitivo, però gli va dato atto di saper affondare il proprio coltello nel ventre dello spettatore che, nel bene o nel male, non rimane mai indifferente. Cold Fish non fa eccezione: ripetitivo fino alla nausea ma assolutamente lucido nel percorrere la strada che porterà il protagonista alla follia, anche con momenti che senza dubbio si possono definire di grande cinema (per lo più concentrati nella parte finale). E insomma altro film che rimane nella mente e nelle viscere.
Consigliato: Non l'ho ancora inquadrato e per di più metabolizzato a Sion Sono, ma se anche voi avete intenzione di guardare Cold Fish armatevi di nervi saldi e fegato d'acciaio.
Voto: 7
Trama: Shamoto, gestore di un negozio di pesci tropicali, ha una figlia adolescente, Mitsuko, che viene fermata per taccheggio in una drogheria. L'aiuta a risolvere la faccenda Murata, anch'egli gestore di un negozio di pesci tropicali, per il quale Mitsuko inizia a lavorare. In realtà, dietro al suo fare gentile, Murata nasconde segreti inconfessabili che condivide insieme a sua moglie.
Recensione: Sion Sono trova nella realtà uno spunto per tratteggiare ancora una volta un ritratto sconfortante dei mali esistenziali del popolo giapponese contemporaneo: disgregazione famigliare, depravazione sessuale, patologie mentali. Con una freddezza che fa ben più terrore delle sanguinolente immagini messe in scena (pure spaventose), il regista filma la distruzione psicologica del protagonista, giapponese medio con un lavoro tranquillo ed una famiglia normale, che lentamente vede crollare tutto ciò che ha costruito sotto i colpi di una follia cieca di cui è sia vittima che complice. Non si sa proprio per chi fare il tifo in questo film che non vanta nessun personaggio positivo, bensì una schiera di personcine maligne, meschine, o semplicemente pazze. Un abisso senza fondo che può solo precipitare in una violenza talmente efferata da poter essere perpetrata senza suscitare scandalo né rimorso di coscienza. Cold Fish, come sempre capita nei film di Sion Sono, è quindi un'opera complessa e stratifica che si serve intelligentemente di vari generi cinematografici per mostrarci un'umanità allo sbaraglio, forse destinata all'oblio. Perché anche se Cold Fish, per quanto atipico ed originale, rimane comunque un film di genere in grado di sorprendere soprattutto gli amanti dell'horror (gli omicidi sono glaciali ed il tutto risulterà molto disturbante per l'indifferenza e la brutalità con cui vengono perpetuati), per i suoi temi drammatici e sociali, può riuscire a colpire tutti. Più in generale, se con Suicide Club, Sono faceva del suicidio un atto di coraggiosa presa di coscienza di sé, Cold Fish può invece considerarsi un'apologia (satirica ovviamente) dell'omicidio: uccidere sembra infatti essere l'unica esperienza in grado di svegliare l'uomo medio dall'anestesia del tran-tran quotidiano e riscattare il grigiore di una vita anonima passata a chinare il capo e seguire la corrente. Il film, visivamente parlando, non risparmia nulla allo spettatore soverchiandolo con scene di violenza, massacro e sesso abusante (l'ultima mezz'ora è di una potenza visiva che mi ha fatto venire la pelle d'oca). A livello contenutistico viene messa (anche fuor di metafora) molta carne al fuoco (anche in maniera seppur velata, la religione, in qualche modo associata ad un gesto orribile come l'occultamento di un cadavere). Il gioco è quello della dissoluzione di ogni senso etico ed infatti a questo tritacarne non sfugge nessuno: donne manipolatrici e prive di scrupoli, ammansite e ammaliate unicamente da potere e violenza, la nuova generazione (rappresentata dalla figlia) desiderosa di liberarsi il più presto possibile dell'insensata zavorra genitoriale per poter perseguire, senza remora, l'esclusivo principio del piacere. Le figure adulte maschili, per completare il quadretto, sembrano obbedire invariabilmente alla legge del più forte, restituendo anche nei modi e nella recitazione, una cruda ferinità. La quota d'odio che viene sprigionata (la trasformazione di lui è davvero fulgida) è molta e la storia "rimane", non soltanto a causa del raccapricciante impatto visivo.
Regia/Sceneggiatura/Aspetto tecnico/Cast: La regia di Sion Sono è calibratissima nella costruzione narrativa, una lenta ma inesorabile discesa all'inferno, rapida quando serve, pacata nella prima metà e via via sempre più nervosa. La fotografia predilige tonalità scure e ombre, per poi far esaltare un rosso acceso della carne sanguinolenta che inonda l'inquadratura. Colonna sonora funzionale e notevole interpretazione da parte di tutti completano il quadro che, sebbene privo di particolari difetti (tolto forse qualche insistito compiacimento grand-guignolesco nella seconda parte) non brilla per originalità del plot.
Commento Finale: A mio avviso Sion Sono ha il difetto di essere spesso prolisso e ripetitivo, però gli va dato atto di saper affondare il proprio coltello nel ventre dello spettatore che, nel bene o nel male, non rimane mai indifferente. Cold Fish non fa eccezione: ripetitivo fino alla nausea ma assolutamente lucido nel percorrere la strada che porterà il protagonista alla follia, anche con momenti che senza dubbio si possono definire di grande cinema (per lo più concentrati nella parte finale). E insomma altro film che rimane nella mente e nelle viscere.
Consigliato: Non l'ho ancora inquadrato e per di più metabolizzato a Sion Sono, ma se anche voi avete intenzione di guardare Cold Fish armatevi di nervi saldi e fegato d'acciaio.
Voto: 7
Tema e genere: Nuovo attacco non molto mascherato ai valori e ai modelli sociali giapponesi attraverso modalità cinematografiche diverse e depistanti da parte di Sion Sono. Si mescola l'horror, il thriller, il dramma erotico, la letteratura, per tracciare solchi di identità femminili.
Trama: La detective Kazuko arriva sul luogo di un orrendo delitto, in una baracca nel distretto a luci rosse di Tokyo: un manichino femminile vestito da scolaretta è costituito in parte da pezzi umani. Per terra c'è un altro manichino, anch'esso in parte fatto di carne: chi e quante sono le vittime? Possono essere collegate alla recente sparizione di due donne, la casalinga Izumi e l'assistente professoressa universitaria Mitsuko?
Recensione: Ancora una volta Sion Sono racconta l'atroce ambiguità della condizione umana nel Giappone contemporaneo, il disagio di un'intera società e la ricerca di un'impossibile catarsi, l'isolamento e la solitudine che si esprimono nella fuga nella prostituzione. Come in Suicide Club o in Cold Fish (e probabilmente in quelli che stanno nel mezzo), la risposta all'alienazione è sempre paradossale. Guilty of Romance sfodera da subito i toni dell'incubo con una brutale ferocia. Percorsi alieni, oscuri e deformi si generano nel seno di un Paese in cui accade troppo poco, in una società che prevede che tutto sia precostituito dall'inizio. Il Giappone è il sepolcro imbiancato suggellato dall'algida espressione della testa di un manichino che al suo interno marcisce e pullula di vermi, uno Stato che ha ingessato la parola e mutilato l'azione. Il castello agognato, ripetuta citazione kafkiana, rimane distante e inaccessibile. La ricerca di un senso sfocia nella negazione di un senso, non vi è percorso né volontà di cammino, poiché non esiste una destinazione. La pellicola (ultimo episodio della "trilogia dell'odio", così definita dallo stesso Sono, iniziata da Love Exposure, da recuperare sicuramente, e proseguita da Cold Fish) è così incentrata sulla figura di tre donne di diverse estrazioni, la moglie di un noto romanziere, una professoressa universitaria e una detective incaricata di una complicata indagine, tutte e tre (di differenti anche stati mentali) accomunate dall'essere insoddisfatte della propria vita coniugale/sessuale, dall'essere fedifraghe e/o dedite a pratiche di soddisfazione dei sensi decisamente poco ortodosse. La trama invece, è organizzata in cinque capitoli più un epilogo, che non rispetta un definito arco temporale ma si sposta con una certa disinvoltura più volte avanti e indietro rispetto al ritrovamento di un cadavere orrendamente mutilato di una delle tre protagoniste. Il film, girato molto bene e con seducenti inquadrature esaltate da colori vivi contrapposti ad un contorno plumbeo e piovigginoso, con coinvolgenti e un po' insistite musiche in cui predomina un violino un po' invadente, si aggroviglia un po' nello svolgimento (o forse non sono riuscito a comprenderlo appieno, complice una visione con un doppiaggio ballerino) e si indebita molto in certe situazioni con alcuni capisaldi del cinema d'ogni tempo: il magnaccia delinquentello con la bombetta non può non richiamare i teppisti kubrickiani di Arancia meccanica, la professoressa dalla doppia vita è un po' una nuova Kathleen Turner del Russell anni '80 China Blue, mentre per il riuscito personaggio della madre di quest'ultima (alla quale si deve un monologo davvero strepitoso sull'origine delle perversioni in capo alla figlia) difficile che il regista non si sia almeno lontanamente ispirato alla Clara Calamai del Profondo Rosso di Dario Argento. Ritengo inoltre che una sforbiciata di una mezz'ora avrebbe giovato al film non sempre così scorrevole come un thriller richiederebbe, ma nel complesso una visione coinvolgente (proprio per le tante tematiche che affronta) la si ha, anche se nella sfera della sufficienza.
Regia/Sceneggiatura/Aspetto tecnico/Cast: Non tutto funziona a pieni giri stavolta, manca un po' di ritmo e forse per la prima volta la sceneggiatura pecca di una certa soglia di prevedibilità. Il film vanta comunque un'eccellente prova attoriale delle protagoniste (tra queste Megumi Kagurazaka, già in Cold Fish), ed una sempre discreta regia, meno esagitata del solito (anche se il suo stile "scheggia impazzita" è ben presente anche in questo lungometraggio). Sion Sono costruisce il suo film in toni kubrickiani (per certi versi il film richiama anche Eyes Wide Shut), sebbene più nella sostanza che nella forma, ma c'è anche un continuo ed esplicito rimando (interessante, ma fino ad un certo punto) al Castello di Kafka, che simboleggia l'impossibilità degli individui di appagare i propri desideri. Il film coinvolge e si lascia seguire, ma la parte thriller/noir non convince, soprattutto però la frammentarietà del tutto non aiuta.
Commento Finale: Sion Sono è il gran picconatore cinematografico della società giapponese. In Guilty of Romance affronta temi come sesso e sessualità e ruolo sociale e strutture famigliari. Lo fa mettendo insieme tessere apparentemente incongrue di un mosaico parecchio complesso, un po' quello che accadeva nel precedente, più che discreto, Cold Fish. Questa volta però il Nostro da l'impressione di piacersi un po' troppo, soffermandosi eccessivamente sui dettagli e finendo con il perdere di vista il quadro più generale. Solo sufficiente nel suo complesso.
Consigliato: E' meno crudo di quanto ci si aspettasse all'inizio, tuttavia la vena erotica sconsiglia la visione ai minori.
Voto: 6
Antiporno (Dramma, Erotico, Giappone, 2016)
Tema e genere: Il rapporto tra il genere femminile ed il sesso è, come già in Guilty of Romance, il tema principale della pellicola. E, come accadeva in quello stesso film, anche in Antiporno (una specie di revival del sottogenere erotico giapponese Roman Porno) il sesso è lo strumento attraverso il quale la donna può essere libera in una società così tremendamente maschilista come quella giapponese.
Trama: Cronaca della quotidianità malata di Kyoko, giovane aspirante artista con la propensione alla pornografia, tra istinti belluini, derive corporali e isterismi violenti che trovano la vittima sacrificale nella mite segretaria Noriko. Ma non tutto è come sembra.
Recensione: Cos'è Antiporno? Antiporno è un grido, un affronto alla società nipponica falsamente benpensante. Una facciata di falso moralismo dietro la quale si cela il degrado etico di una nazione che ha perso il controllo di sé stessa. In tal senso va subito detto che, nonostante vi siano scene di nudo (e inevitabilmente lesbo) piuttosto ripetute, il film prende le distanze dall'erotismo fine a se stesso, ludico e privo di senso. Al contrario, nel rispetto del titolo stesso, sembra prediligere un impianto malinconico, anti-erotico e femminista. Il Roman Porno è prevalentemente appannaggio di un pubblico maschile, spesso attratto dalla visione contrastante di delicate fanciulle tra le grinfie di (sp)orchi brutti e cattivi, ma il regista di Antiporno manifesta fin dalle prime sequenze un'attenzione più ai dettagli e ai contenuti che non al nudo, elemento qui inserito in una scenografia allucinata, resa completamente irreale dall'uso sfolgorante della fotografia. Colori accessi e luccicanti, che vanno dal giallo al verde, spesso in contrasto tra loro (rosso su giallo) come per rendere (tramite immagini) una contraddizioni in termini di tonalità. Una contraddizione che rispecchia il testo. Testo difficilissimo e di improbabile lettura, almeno di improbabile unica lettura. Perché Kyoko, lo si scopre dopo il primo twist spiazzante (il set cinematografico), sembra in realtà rivivere momenti della vita, in uno stato allucinatorio. La perdita della verginità, il controverso rapporto con un padre sposato in seconde nozze, una sorella dall'infausto destino, il desiderio di recitare in un film pornografico: esperienze (passate) che si succedono (mescolandosi) di nuovo sul teatro più triste che esista per una ragazza/oggetto, quello della vita. I piani di lettura (molteplici) e l'insistito linguaggio volgare, in contrasto con una pregevole regia e le affascinanti scene in tono "arcobaleno", rendono Antiporno un film di difficile catalogazione, ovvero né erotico, né drammatico. L'apprezzabile tentativo di prendere le distanze dalla consuetudine del filone, ovvero del corpo femminile visto come oggetto, quando non giocattolo, contrasta con il complicato meccanismo a incastro della sceneggiatura, finendo per confondere troppo spesso lo spettatore. Antiporno si colloca dunque in quel nutrito catalogo di titoli che possono essere valutati o zero o dieci, senza mezze misure. Dall'inguardabile all'eccezionale, pertanto (nel dubbio) sufficientemente interessante.
Regia/Sceneggiatura/Aspetto tecnico/Cast: Sarebbe inutile aspettarsi qualcosa di preciso da Sion Sono, figura poliedrica ed eclettica che ha fatto dell'imprevedibilità uno dei suoi mantra (anche se tornano anche qui temi cari come quello della famiglia). Con Antiporno, il regista giapponese si cimenta questa volta nel pinku-eiga, in un'operazione di rilancio del genere attuata dallo studio di produzione Nikkatsu, che a partire dagli anni '70 aveva realizzato numerose pellicole di questo tipo. Com'è lecito aspettarsi da un autore come Sono, Antiporno (il titolo è un lampante avviso) non si presenta tuttavia solo come un film erotico softcore a basso budget ma prima di tutto come un'indagine, sottile e a tratti imprevedibile, sul ruolo della donna nella società giapponese, sulle imperanti tensioni maschiliste che ne influenzano i processi di legittimazione e sulla sua auto-percezione. Per farlo, Sono si avvale di un impianto visivo iper-pop, infatti i colori elettrici e psichedelici dei muri della location principale rendono il film una delle opere cinematografiche dall'impatto visivo più particolare ed originale degli ultimi anni, che raggiunge il suo apice spettacolare nel finale, un vero tripudio di colori che macchiano la pellicola, trasformandola in un oceano di vernice, con chiazze che parlano di istinto, di irruenza, di violenza e di genio. I colori così accesi, "irreali" e moderni cozzano con la colonna sonora che spazia dalla musica leggera a quella classica, in questo modo, si viene a creare un potpourri stilistico che fonde il pop ed il classico in modo elegante e meraviglioso, come solo Sion Sono poteva fare. In ultimo il cast, perfettamente in parte per quello che si viene a creare.
Commento Finale: Irriverente e provocatorio, Sion Sono realizza con Antiporno un esperimento sicuramente interessante (seppur non del tutto riuscito), nel quale, con il suo stile complesso e multiforme, riesce tuttavia a mettere in luce con chiarezza le contraddizioni più evidenti della società giapponese e in parte anche di quella occidentale. Senza per questo voler essere un'opera esaustiva sul tema, Antiporno risulta in ogni caso un brillante esempio di cinema stimolante, incisivo e che ci porta a riflettere su noi stessi e su ciò che ci circonda.
Consigliato: Ha un impianto teatrale, alcune scene sono effettivamente forti (ma mai deplorevoli), il tema è moderno, lascio a voi.
Voto: 6
Trama: La detective Kazuko arriva sul luogo di un orrendo delitto, in una baracca nel distretto a luci rosse di Tokyo: un manichino femminile vestito da scolaretta è costituito in parte da pezzi umani. Per terra c'è un altro manichino, anch'esso in parte fatto di carne: chi e quante sono le vittime? Possono essere collegate alla recente sparizione di due donne, la casalinga Izumi e l'assistente professoressa universitaria Mitsuko?
Recensione: Ancora una volta Sion Sono racconta l'atroce ambiguità della condizione umana nel Giappone contemporaneo, il disagio di un'intera società e la ricerca di un'impossibile catarsi, l'isolamento e la solitudine che si esprimono nella fuga nella prostituzione. Come in Suicide Club o in Cold Fish (e probabilmente in quelli che stanno nel mezzo), la risposta all'alienazione è sempre paradossale. Guilty of Romance sfodera da subito i toni dell'incubo con una brutale ferocia. Percorsi alieni, oscuri e deformi si generano nel seno di un Paese in cui accade troppo poco, in una società che prevede che tutto sia precostituito dall'inizio. Il Giappone è il sepolcro imbiancato suggellato dall'algida espressione della testa di un manichino che al suo interno marcisce e pullula di vermi, uno Stato che ha ingessato la parola e mutilato l'azione. Il castello agognato, ripetuta citazione kafkiana, rimane distante e inaccessibile. La ricerca di un senso sfocia nella negazione di un senso, non vi è percorso né volontà di cammino, poiché non esiste una destinazione. La pellicola (ultimo episodio della "trilogia dell'odio", così definita dallo stesso Sono, iniziata da Love Exposure, da recuperare sicuramente, e proseguita da Cold Fish) è così incentrata sulla figura di tre donne di diverse estrazioni, la moglie di un noto romanziere, una professoressa universitaria e una detective incaricata di una complicata indagine, tutte e tre (di differenti anche stati mentali) accomunate dall'essere insoddisfatte della propria vita coniugale/sessuale, dall'essere fedifraghe e/o dedite a pratiche di soddisfazione dei sensi decisamente poco ortodosse. La trama invece, è organizzata in cinque capitoli più un epilogo, che non rispetta un definito arco temporale ma si sposta con una certa disinvoltura più volte avanti e indietro rispetto al ritrovamento di un cadavere orrendamente mutilato di una delle tre protagoniste. Il film, girato molto bene e con seducenti inquadrature esaltate da colori vivi contrapposti ad un contorno plumbeo e piovigginoso, con coinvolgenti e un po' insistite musiche in cui predomina un violino un po' invadente, si aggroviglia un po' nello svolgimento (o forse non sono riuscito a comprenderlo appieno, complice una visione con un doppiaggio ballerino) e si indebita molto in certe situazioni con alcuni capisaldi del cinema d'ogni tempo: il magnaccia delinquentello con la bombetta non può non richiamare i teppisti kubrickiani di Arancia meccanica, la professoressa dalla doppia vita è un po' una nuova Kathleen Turner del Russell anni '80 China Blue, mentre per il riuscito personaggio della madre di quest'ultima (alla quale si deve un monologo davvero strepitoso sull'origine delle perversioni in capo alla figlia) difficile che il regista non si sia almeno lontanamente ispirato alla Clara Calamai del Profondo Rosso di Dario Argento. Ritengo inoltre che una sforbiciata di una mezz'ora avrebbe giovato al film non sempre così scorrevole come un thriller richiederebbe, ma nel complesso una visione coinvolgente (proprio per le tante tematiche che affronta) la si ha, anche se nella sfera della sufficienza.
Regia/Sceneggiatura/Aspetto tecnico/Cast: Non tutto funziona a pieni giri stavolta, manca un po' di ritmo e forse per la prima volta la sceneggiatura pecca di una certa soglia di prevedibilità. Il film vanta comunque un'eccellente prova attoriale delle protagoniste (tra queste Megumi Kagurazaka, già in Cold Fish), ed una sempre discreta regia, meno esagitata del solito (anche se il suo stile "scheggia impazzita" è ben presente anche in questo lungometraggio). Sion Sono costruisce il suo film in toni kubrickiani (per certi versi il film richiama anche Eyes Wide Shut), sebbene più nella sostanza che nella forma, ma c'è anche un continuo ed esplicito rimando (interessante, ma fino ad un certo punto) al Castello di Kafka, che simboleggia l'impossibilità degli individui di appagare i propri desideri. Il film coinvolge e si lascia seguire, ma la parte thriller/noir non convince, soprattutto però la frammentarietà del tutto non aiuta.
Commento Finale: Sion Sono è il gran picconatore cinematografico della società giapponese. In Guilty of Romance affronta temi come sesso e sessualità e ruolo sociale e strutture famigliari. Lo fa mettendo insieme tessere apparentemente incongrue di un mosaico parecchio complesso, un po' quello che accadeva nel precedente, più che discreto, Cold Fish. Questa volta però il Nostro da l'impressione di piacersi un po' troppo, soffermandosi eccessivamente sui dettagli e finendo con il perdere di vista il quadro più generale. Solo sufficiente nel suo complesso.
Consigliato: E' meno crudo di quanto ci si aspettasse all'inizio, tuttavia la vena erotica sconsiglia la visione ai minori.
Voto: 6
Antiporno (Dramma, Erotico, Giappone, 2016)
Tema e genere: Il rapporto tra il genere femminile ed il sesso è, come già in Guilty of Romance, il tema principale della pellicola. E, come accadeva in quello stesso film, anche in Antiporno (una specie di revival del sottogenere erotico giapponese Roman Porno) il sesso è lo strumento attraverso il quale la donna può essere libera in una società così tremendamente maschilista come quella giapponese.
Trama: Cronaca della quotidianità malata di Kyoko, giovane aspirante artista con la propensione alla pornografia, tra istinti belluini, derive corporali e isterismi violenti che trovano la vittima sacrificale nella mite segretaria Noriko. Ma non tutto è come sembra.
Recensione: Cos'è Antiporno? Antiporno è un grido, un affronto alla società nipponica falsamente benpensante. Una facciata di falso moralismo dietro la quale si cela il degrado etico di una nazione che ha perso il controllo di sé stessa. In tal senso va subito detto che, nonostante vi siano scene di nudo (e inevitabilmente lesbo) piuttosto ripetute, il film prende le distanze dall'erotismo fine a se stesso, ludico e privo di senso. Al contrario, nel rispetto del titolo stesso, sembra prediligere un impianto malinconico, anti-erotico e femminista. Il Roman Porno è prevalentemente appannaggio di un pubblico maschile, spesso attratto dalla visione contrastante di delicate fanciulle tra le grinfie di (sp)orchi brutti e cattivi, ma il regista di Antiporno manifesta fin dalle prime sequenze un'attenzione più ai dettagli e ai contenuti che non al nudo, elemento qui inserito in una scenografia allucinata, resa completamente irreale dall'uso sfolgorante della fotografia. Colori accessi e luccicanti, che vanno dal giallo al verde, spesso in contrasto tra loro (rosso su giallo) come per rendere (tramite immagini) una contraddizioni in termini di tonalità. Una contraddizione che rispecchia il testo. Testo difficilissimo e di improbabile lettura, almeno di improbabile unica lettura. Perché Kyoko, lo si scopre dopo il primo twist spiazzante (il set cinematografico), sembra in realtà rivivere momenti della vita, in uno stato allucinatorio. La perdita della verginità, il controverso rapporto con un padre sposato in seconde nozze, una sorella dall'infausto destino, il desiderio di recitare in un film pornografico: esperienze (passate) che si succedono (mescolandosi) di nuovo sul teatro più triste che esista per una ragazza/oggetto, quello della vita. I piani di lettura (molteplici) e l'insistito linguaggio volgare, in contrasto con una pregevole regia e le affascinanti scene in tono "arcobaleno", rendono Antiporno un film di difficile catalogazione, ovvero né erotico, né drammatico. L'apprezzabile tentativo di prendere le distanze dalla consuetudine del filone, ovvero del corpo femminile visto come oggetto, quando non giocattolo, contrasta con il complicato meccanismo a incastro della sceneggiatura, finendo per confondere troppo spesso lo spettatore. Antiporno si colloca dunque in quel nutrito catalogo di titoli che possono essere valutati o zero o dieci, senza mezze misure. Dall'inguardabile all'eccezionale, pertanto (nel dubbio) sufficientemente interessante.
Regia/Sceneggiatura/Aspetto tecnico/Cast: Sarebbe inutile aspettarsi qualcosa di preciso da Sion Sono, figura poliedrica ed eclettica che ha fatto dell'imprevedibilità uno dei suoi mantra (anche se tornano anche qui temi cari come quello della famiglia). Con Antiporno, il regista giapponese si cimenta questa volta nel pinku-eiga, in un'operazione di rilancio del genere attuata dallo studio di produzione Nikkatsu, che a partire dagli anni '70 aveva realizzato numerose pellicole di questo tipo. Com'è lecito aspettarsi da un autore come Sono, Antiporno (il titolo è un lampante avviso) non si presenta tuttavia solo come un film erotico softcore a basso budget ma prima di tutto come un'indagine, sottile e a tratti imprevedibile, sul ruolo della donna nella società giapponese, sulle imperanti tensioni maschiliste che ne influenzano i processi di legittimazione e sulla sua auto-percezione. Per farlo, Sono si avvale di un impianto visivo iper-pop, infatti i colori elettrici e psichedelici dei muri della location principale rendono il film una delle opere cinematografiche dall'impatto visivo più particolare ed originale degli ultimi anni, che raggiunge il suo apice spettacolare nel finale, un vero tripudio di colori che macchiano la pellicola, trasformandola in un oceano di vernice, con chiazze che parlano di istinto, di irruenza, di violenza e di genio. I colori così accesi, "irreali" e moderni cozzano con la colonna sonora che spazia dalla musica leggera a quella classica, in questo modo, si viene a creare un potpourri stilistico che fonde il pop ed il classico in modo elegante e meraviglioso, come solo Sion Sono poteva fare. In ultimo il cast, perfettamente in parte per quello che si viene a creare.
Commento Finale: Irriverente e provocatorio, Sion Sono realizza con Antiporno un esperimento sicuramente interessante (seppur non del tutto riuscito), nel quale, con il suo stile complesso e multiforme, riesce tuttavia a mettere in luce con chiarezza le contraddizioni più evidenti della società giapponese e in parte anche di quella occidentale. Senza per questo voler essere un'opera esaustiva sul tema, Antiporno risulta in ogni caso un brillante esempio di cinema stimolante, incisivo e che ci porta a riflettere su noi stessi e su ciò che ci circonda.
Consigliato: Ha un impianto teatrale, alcune scene sono effettivamente forti (ma mai deplorevoli), il tema è moderno, lascio a voi.
Voto: 6
Seguo molto poco il cinema orientale, ma questo sembra interessante. E le tue recensioni sono in ogni caso trascinanti.
RispondiEliminaGrazie, mi fa piacere, mentre su questo regista e cinema dico che è un altro mondo da scoprire ;)
EliminaQuesti sono film che non guarderei mai, ma tu lo sai :-)
RispondiEliminaPer la messa in scena no infatti, eppure le cose che dice sono più che attuali ;)
EliminaCiao! Non conosco questo regista, ma mi sa che non è molto il mio genere :-(
RispondiEliminaEh no, mi sa proprio di no ;)
EliminaIo comunque non ho visto ancora niente, c'è tanto altro che devo anch'io vedere di Sono e di altri giapponesi ;)
RispondiEliminaAvrei scommesso che saresti stato meno critico con gli ultimi due. Ahahha
RispondiEliminaBravo!
Comunque il mio preferito è Suicide Club, molto attuale e verosimile. Purtroppo.
Semplicemente mi son piaciuti di meno, mica l'ho fatto apposta ;)
EliminaSì molto infatti, sfortunatamente.
Mi hai fatto scoprire qualcosa che non sapevo!
RispondiEliminaOra inizierò da Suicide Club (manco come manga lo conoscevo!)
Moz-
Per una volta anche io, grande! :D
EliminaE' un buon inizio, e comunque il manga potrei leggerlo (anche in inglese), tanto saprei già tutto ;)