venerdì 31 agosto 2018

Gli altri film del mese (Agosto 2018)

E' passato anche Agosto, è passata probabilmente anche l'estate, tuttavia il tempo per il cinema e per la musica (a tal proposito il post sui tormentoni e le altre canzoni preferite dell'estate è già programmato) c'è sempre. E proprio questo connubio mi ha dato l'occasione di vedere un film concerto del 2014 diretto da Roger Waters e Sean Evans e basato sul tour The Wall Live (2010-2013) tenuto da Waters, intitolato per l'appunto Roger Waters the Wall. Un film che tuttavia non mi ha lasciato del tutto soddisfatto, anche perché personalmente non ho mai molto amato "The Wall". Troppo cupo, pesante, a tratti retorico. Dei Pink Floyd ho sempre preferito di gran lunga altri album, ma qui si va troppo sul soggettivo. Ciò nonostante, non ho potuto che ammirare la straordinaria messa in scena del concerto di Waters, una botta forte ai sensi, un mix frastornante di emozione e tecnologia, con effetti speciali da paura e quel muro gigantesco che viene lentamente costruito sul palco. Interessante, quindi, lo sviluppo su più livelli: da una parte un on the road con Waters che fa i conti col passato e visita i luoghi dove sono sepolti nonno e padre, entrambi uccisi dalla follia della guerra, dall'altra l'esperienza travolgente del live. Il che permette anche ai non fan di capire meglio le dinamiche e il senso complessivo di un'opera complessa e impegnativa come "The Wall", parabola sulla guerra, il senso di perdita, l'amore e la vita. Waters scava nel profondo della propria storia personale e della propria sensibilità, raccontando il dramma e l'assurdità di ogni conflitto, di ieri e di oggi, scagliandosi contro autoritarismi e condizionamenti. Un messaggio potente e tristemente attuale, in questi tempi di nuovi "muri" e sempiterne lotte. E, poi, la musica. Una superband e canzoni entrate di diritto nella storia del rock: dall'immancabile "Another Brick In The Wall" a "Comfortably Numb". Il tutto girato e mixato con suoni e immagini impeccabili, occhi e orecchie ringraziano per un'esperienza comunque "totalitaria" davvero incredibile. Un'esperienza personalmente non così intensa di quanto mi sarei aspettato ma discretamente soddisfacente, come in parte per i quattro film di questa lista.
Dopo il dramma moderno di Blue Jasmine, la dolce pacatezza di Magic in the moonlight e il nichilismo ironico di Irrational man, torna Woody Allen con una commedia sentimentale degli intrecci e degli equivoci ambientata nei ridenti anni '30. Malgrado le trame ormai siano quasi sempre quelle e le storie risultino molto prevedibili e già viste, il regista americano riesce anche questa volta a confezionare un prodotto godibile e piacevole, a questo giro grazie principalmente ad un'atmosfera nostalgica e sognante, che si rispecchia nei tanti nomi di attori e attrici che Allen cita nel film, nomi che fanno sì che il tono dolceamaro del racconto sia ancora più percepibile nello spettatore, in modo da cogliere il contrasto tra le brillanti e distratte apparenze di certo mondo e il desiderio semplice e sincero di stare con la persona che si ama. A mancare, purtroppo, è anche la vena dissacratoria dei tempi migliori, ma fortunatamente i dialoghi sono sempre curati e brillanti ed anche la storia, nonostante l'effetto minestra riscaldata, riesce a lasciarti a fine visione una sensazione di piacevole appagamento grazie ad un ambientazione ricostruita perfettamente e ad alcuni passaggi fra il divertente e il malinconico. Café Society infatti, un film del 2016 scritto e diretto dal regista Ottantaduenne, una commedia dal sapore agrodolce, ambientata nell'America degli anni Trenta, che segue la storia del giovane Bobby Dorfman (Jesse Eisenberg) che insoddisfatto della sua vita a New York, lascia la gioielleria del padre per trasferirsi a Hollywood, dove suo zio Phil (Steve Carell) è uno dei personaggi più influenti dello showbiz, e dove conosce la segretaria di suo zio, Vonnie (Kristen Stewart, i due tornano a lavorare insieme dopo American Ultra), di cui si innamora, che vedrà però il suo piano di sposarla e portarla a vivere a New York fallire, motivo per cui il ragazzo deciderà di tornare nella sua città da solo per dirigere insieme al fratello gangster un locale che ben presto diventerà il ritrovo più frequentato dall'alta società newyorchese, almeno fino a quando il passato, presto o tardi, non ritornerà, è un film elegante e ricco (non a caso dal primissimo fotogramma balza subito all'occhio l'eleganza della fotografia e la ricchezza delle scenografie), è un film di ampia portata, ricco di personaggi, capace di svolte improvvise e decisi cambi di registro, seppur mantenendo un sottofondo pieno di ironia talvolta drammatica, ma sopratutto è un film romantico (non a caso con questo suo film, Woody Allen ci riporta ai suoi temi più cari, il destino, l'amore difficile e impossibile), eventi e personaggi sembrano difatti fare da sfondo alla storia di Bobby e Vonnie, un amore dal sapore dolceamaro fatto di scelte sbagliate e di sogni ad occhi aperti che è il fil rouge di tutto il film. Un film che, con l'incedere che potremmo definire tipico di un romanzo (ne è un esempio lampante la voce fuori campo che narra e descrive gli eventi), ci offre un piacevole affresco dell'America del 1930 (tra feste meravigliose delle star nelle loro ville sontuose e la vita notturna newyorkese) e ci presenta anche le dinamiche familiari dei Dorfman in tutte le loro complicità e diversità. Woody Allen infatti, che divide la sua storia tra Los Angeles e New York negli anni '30, gioca con i cliché (la noiosa e artefatta vita di Hollywood, la criminalità che muove i fili nella Grande Mela), con le solite meravigliose frecciate a sfondo religioso e con una storia d'amore fatta di sguardi persi e sogni lontani (con un finale malinconico che sembri ricordare il bellissimo La la land). E in tal senso sembrerebbe quindi tutto già visto, eppure anche se la pellicola, tra melò e gangster story procede non sempre con brio fra le complicate vicende che racconta e le spiegazioni di raccordo che la voce fuori campo dello stesso regista, narratore onnisciente, ritiene utile fornire, e anche se essa non aggiunga o non tolga per questo a quanto già detto e dimostrato da Allen nel corso della sua gloriosa carriera, è questa una pellicola che grazie alla sua abilità scenica si fa apprezzare. Perché certo, manca sempre qualcosa e la storia è poco originale, senza grande inventiva e con un finale che ha comunque un senso di incompiuto abbastanza evidente, ma il film, che nel complesso non è male, che può essere visto senza temere che sia lesivo della nostra intelligenza, è un film, fra splendide immagini e personaggi che talvolta riescono a strapparci un sorriso e qualche emozione, gradevole. Un film (dove nessuno è fuori posto) in cui il cast è ben amalgamato (dove troviamo anche Blake LivelyCorey Stoll e Sheryl Lee), dove la regia è sobria e senza sbavature, dove il ritmo è abbastanza sostenuto (grazie soprattutto alle musiche d'epoca e alle citazioni hollywoodiane che parlano a tutti per la loro forza evocativa e la loro squisitezza) e i dialoghi ben scritti. E tuttavia però e nonostante tutto, la suddetta pellicola non rappresenta, a mio avviso, il top della filmografia di Allen, ma comunque è una commedia discreta che certamente non annoia e si lascia guardare. Voto: 6+ [Qui più dettagli]
Vive nella miseria e si mantiene come può, collaborando con venditori ambulanti senegalesi e sfruttatori cinesi di manodopera clandestina. Cresce due figli quasi da solo, perché la moglie, mentalmente instabile, non è in grado di fare la madre e conduce altrove una vita dissoluta. Come se non bastasse, Uxbal scopre di avere un cancro che gli lascerà solo qualche mese di vita. Eppure, la morte fa già parte della sua quotidianità, prima ancora che egli sappia di essere malato: grazie a un dono di natura, l'uomo può parlare con gli spiriti e aiutarli a raggiungere la pace eterna. Difficile individuare una tematica dominante tra le tante vicende che s'intrecciano attorno al protagonista di Biutiful, film del 2010 diretto da Alejandro González Iñárritu, il rapporto conflittuale con la moglie, contrapposto al desiderio di ricostruire una vera famiglia? La ricerca delle proprie radici, che si accompagna al dialogo con la morte (presenza tanto costante quanto scomoda)? L'incontro tra diverse culture, possibile solo nella condivisione di un destino avverso? Dopo la cosiddetta "Trilogia della morte" composta da Amores perros (2000), 21 Grammi (2003) e Babel (2006), Biutiful doveva rappresentare una svolta nella produzione del regista messicano, in realtà, l'unico cambiamento evidente si riscontra a livello tecnico, complice forse la collaborazione con due nuovi sceneggiatori, Armando Bo e Nicolás Giacobone, il regista abbandona qui la struttura a incastro su cui si fondavano le precedenti opere, optando per una narrazione lineare (fatta eccezione per il flashforward iniziale) e concentrandosi per la prima volta su un unico protagonista. Per il resto, egli pare proporre contenuti già affrontati (perché, infatti, non parlare di "Tetralogia della morte"?), secondo una dinamica che, oggi come in passato, lascia qualche perplessità. L'antieroe Uxbal è protagonista di una serie di sventure che sembrano non avere una via d'uscita e, a giudicare da ciò che s'intravede delle vite degli altri personaggi, il male di vivere che lo affligge è una condizione universale. In una vita pressoché priva di punti di riferimento stabili, ci si aspetta che i poteri paranormali di Uxbal abbiano un ruolo fondamentale: così non sembra essere, perché il rapporto con l'aldilà non è approfondito e si perde in una serie di simbologie decisamente ambigue (il gufo, il rumore del mare, le falene sul soffitto, il dono dell'anello e i riflessi dell'uomo nello specchio, che un occhio attento vedrà vivere di vita propria per tutto il corso del film) e gratuite immagini d'ispirazione horror (le anime dei defunti). Lo stesso avviene per gli altri spunti narrativi, presentati piuttosto superficialmente perché mai del tutto sviluppati: l'unico filo logico sembra essere una disperazione senza significato, di cui non conosciamo l'origine né la conclusione. E tuttavia questo è un film intenso e vibrante che sa sfruttare al meglio gli espedienti di un'estetica dell'eccesso a fin di bene e la sua vocazione al racconto allegorico che si faccia corpo e voce del dolore e della struggente bellezza del mondo. Inarritu centra infatti, anche se solamente in parte, il bersaglio. Perché se per la maggior parte della sua durata l'opera in questione non ha saputo coinvolgermi, portandomi spesso e volentieri in uno stato di distacco dalla vicenda che si è spezzato solo negli ultimi e toccanti minuti, la prima ora, il finale (seppur in un film che nel suo essere spietato regala vari pugni sullo stomaco, dal finale mi aspettavo qualcosa di più, l'ultima dissolvenza mi ha lasciato un po' di amaro in bocca) e qualche momento nel mezzo risultano effettivamente emozionanti e profondi. E quindi, anche se gli ingredienti sono troppi e la miscela non è calibrata a dovere, e nonostante non mi ha del tutto coinvolto, giacché il tema del film che ruota attorno alla domanda "se dovessi scoprire di avere un tumore terminale e di avere dunque pochi mesi di vita, come potrei aggiustare tutto quello che non va dopo un'esistenza costellata da errori?" non è stato in grado di farmi riflettere a dovere sull'importante tematica (vuoi per la lunga durata, vuoi per alcune situazioni già viste o per mia colpa), Biutiful, che non è assolutamente un film brutto, è un film bello. Questo grazie sopratutto ad una regia che migliora di pellicola in pellicola, che migliorerà in futuro con due ottimi film, Birdman e Revenant: Redivivo, ad un Javier Bardem stratosferico (degnamente premiato quell'anno a Cannes e candidato all'Oscar come miglior attore protagonista) e ad una Barcellona sporca, povera e ferita lontana dalla città fatta di sole e mare che spesso ci viene proposta dalla tv e dai media. E non importa se non tutto ha funzionato, perché il film merita di essere visto, soprattutto da chi ama il genere. Voto: 6 [Qui più dettagli]
Diretto dal tre volte candidato all'Oscar Stephen Daldry (quello di Billy Elliott e Molto forte incredibilmente vicino, oltre a The Hours e The reader) e sceneggiato dal famoso Richard Curtis (celebre autore di commedie), Trash, film del 2014 ispirato all'omonimo romanzo per ragazzi di Andy Mulligan, è ambientato a Rio De Janeiro (immergendosi così in una realtà di contraddizioni stridenti, un po' come aveva fatto Danny Boyle con l'India di The Millionaire) ed è un interessante miscuglio di generi, dalla storia avventurosa all'action, dal thriller al film socialmente impegnato di denuncia contro la povertà, la degradazione e la corruzione. Quest'ultimo aspetto però passa in secondo piano, restando sempre presente e visibile, rendendo Trash un vero e proprio film di intrattenimento che agli stilemi del thriller unisce quelli favolistici. Lo sguardo che guida lo spettatore nella storia è infatti quello di due/tre bambini di strada che, nonostante la loro condizione miserevole (sono nati e cresciuti in una favela accanto a una discarica e come tanti altri ci lavorano ogni giorno sperando di raccogliere qualcosa di valore con cui comprare da mangiare), conservano sulla vita e sul futuro uno sguardo positivo e avventuroso. Non è estraneo a ciò il fatto che siano animati da una fede autentica e solida, che li accompagna anche nei momenti più difficili e li rende curiosi e coraggiosi abbastanza da sfidare autorità prepotenti e crudeli, come accadrà quando si ritroveranno coinvolti in uno sporco intrigo politico-poliziesco, decidendo perciò di trasformarsi in un trio di giustizieri. Qui difatti i protagonisti sono tre ragazzi che lottano per la giustizia, per l'amicizia e "perché è giusto". Fonte inesauribile di entusiasmo, sono la colonna portante del film, coloro che tra i rifiuti, le discariche e la spazzatura continuano a credere nei loro sogni e fanno tutto il possibile per inseguirli e realizzarli. E per questo che i tre ragazzi Raphael, Gardo e Rat, interpretati da Rickson Teves, Eduardo Luis e Gabriel Weinstein, fanno sorridere il pubblico che non può che parteggiare per loro, per i loro sogni e per il loro senso di giustizia. Trash è infatti un film sulla povertà e sulla corruzione che conquista lo spettatore fin dalle primissime inquadrature, grazie ad un ritmo incalzante (la trama del film è semplice, ciò che la rende accattivante è il modo in cui il film è stato girato) e ad una regia abilissima nel reggerlo, che riesce ad esaltare le qualità dei protagonisti, loro che con la loro agilità saltano sui tetti e corrono per le strade per portare a termine quello che si sono prefissati, con ottimismo e determinazione. Il regista quindi, coglie perfettamente la vita oltreoceano, analizzando dal punto di vista anglosassone (grazie anche alla presenza di Martin Sheen e Rooney Mara, in quest'ultimo caso però state lontani dalla versione doppiata italiana perché con l'accento finto british non si può sentire) le favelas brasiliane senza però mai dimenticare chi sono e da dove vengono i protagonisti della storia (allo stesso tempo, però, evita di appesantire una storia di speranza con dosi di violenza eccessive). Merito anche della sceneggiatura che riesce ad imprimere dialoghi essenziali e mai fuori luogo, che permettono di alternare diligentemente azione, avventura e sentimentalismo.  Perché nonostante Trash si presenti sopratutto come un film di denuncia sociale (e per gran parte del film lo è) ben presto si trasforma in una favola per ragazzi dove la speranza, il sorriso, l'amicizia e un inesauribile ottimismo sono le chiavi del successo. E Stephen Daldry, con la sua abilità e sensibilità, riesce a trasmettere il coraggio di questi ragazzi che credono fermamente nel lieto fine e se lo vanno a prendere. Trash diventa così, grazie anche ad una colonna sonora impeccabile, un film emozionante e coinvolgente, dove la realtà che diventa fiaba fa sia commuovere che riflettere. Certo, non è un film perfetto, ma quei piccoli buchi narrativi (e qualche piccola illogicità) e quel buonismo da lieto fine che fa capolino soprattutto verso la fine del film, gli vengono tranquillamente perdonati a fronte di un'esperienza cinematografica godibilissima, coreografata come la più favolistica delle rappresentazioni (inserendo con abilità nell'impianto drammatico elementi di realismo magico) e messa in scena da tre ragazzi, non professionisti, che riescono a catturare tutti con il loro carisma e spontanea eccezionalità. Quel che ne esce è quindi un'opera forse poco profonda, ma che senza essere moralistica o didascalica, altresì piena di spirito "anarchico" infantile quanto di sorprendente pietas e maturità, è benissimo capace di far sorridere oltre a commuovere e far pensare, anche grazie ad una narrazione fresca e piacevole, e con finale utile al buon umore. Voto: 6,5 [Qui più dettagli]
È un film pieno di vita, Libere, disobbedienti, innamorate, film del 2016 ed opera prima di Maysaloun Hamoud, regista ungherese ma cresciuta vicino Israele. La pellicola infatti, che racconta la società palestinese in modo inedito per il cinema, senza fare riferimenti a guerre e conflitti, che pure fanno perennemente parte della vita quotidiana di chi vive in quei luoghi, che mette in scena i contrasti della situazione che vivono tre donne a Tel Aviv (città socialmente avanzata, ma sempre al centro di contraddizioni tra modernità e tradizione, in tal senso essere donne non aiuta affatto, la condizione femminile è vista come fragile e soggetta a pregiudizi se non a violenze), e tutte alle prese con la costruzione della propria identità nonostante le rigide regole della società in cui vivono, sa rappresentare il disagio che si percepisce nel trovarsi in mezzo ad un incrocio, tra due civiltà che non riescono a dialogare, in cui chi sta in mezzo deve affrontare una scelta cruciale, che risulta difficile ed ugualmente sofferta qualsiasi sia la decisione assunta. In tal senso la pellicola (dopotutto già dal titolo, sia quello italiano Libere, Disobbedienti, Innamorate, che inglese In Between ed israeliano la cui traduzione più o meno è "Tra Terra e Mare", si evince che si sta ad indicare una posizione "di mezzo", non definita e, comunque, in contrapposizione con quella "ufficiale" prestabilita e consentita) può certamente essere interpretata come un invito rivolto alle donne di tutto il mondo di pretendere la propria libertà, di essere emancipata e indipendente nella creazione della propria esistenza. Anche perché le tre giovani (Laila, la bella Mouna Hawa, un'avvocatessa emancipata che beve, fuma, ama ballare e sedurre, Salma, che è una dj lesbica che di giorno lavora in un bar, con genitori fortemente devoti alla tradizione e Nour, la loro nuova coinquilina, una studentessa modello, vittima della sopraffazione maschilista), lontane dagli stereotipi della donna araba, che pagano a caro prezzo la loro indipendenza (poiché ognuna in modo diverso cercheranno di vivere la quotidianità e affermare se stesse), in un mondo maschilista e troppo tradizionale (dove si può perdere il lavoro per un'impuntatura sulla lingua usata) che le vorrebbe solo mogli e madri, non vorrebbero vivere. E tuttavia non chinano il loro capo, con il cuore infranto e il volto rigato dalle lacrime proseguono per la loro strada, alla conquista del loro posto nel mondo. E tuttavia non perfetta è questa pellicola, narrativamente infatti, per farci simpatizzare ai loro destini, la suddetta, calca la mano sui personaggi che si contrappongono loro, che sono caricaturali o violenti. In particolare l'orribile fidanzato di Nour, fanatico islamico, che la stupra e pensa di poterla sposare senza problemi. Un meccanismo di contrapposizione un po' facile, che rischia di far scivolare il film (che ha tra i suoi pregi le tre attrici protagoniste, molto espressive e credibili nei rispettivi ruoli di donne confuse e teneramente alla ricerca della felicità) su binari prevedibili e di sfondare fin troppe porte aperte (in tal senso uno dei pochi personaggi che escono da questo schema è il padre di Noor, che prenderà le sue parti appena saputa della rottura con il fidanzato: forse l'unico uomo decente del film, sicuramente il personaggio più "giusto"). Ma dotato di un ritmo sufficientemente fluido e pregno di argomenti e sentimenti vari e importanti, Libere, Disobbedienti, Innamorate, grazie anche ad uno stile asciutto che coniuga lo spaesamento di una discrasia identitaria giovanile arabo-israeliana con un'invitante colonna sonora, per quanto non proponga una tematica del tutto nuova (a riguardo, sia pure in una forma e con un trama ben diverse, richiama parecchio La Sposa Turca del regista turco Fatih Akin) risulta comunque interessante e ben fatto. Perché anche se la pellicola a volte ammicca sin troppo, e anche se alcune cose risultano poco approfondite, nel complesso il film di Maysaloun Hamoud, che sa concentrarsi sul nocciolo serio e drammatico del problema che scaturisce dal confronto burrascoso tra due modi di pensare e concepire che appaiono antitetici più di quanto sia lecito aspettarsi (alcuni aspetti ci possono sembrare fuori dal mondo ma rispecchiano una mentalità precisa e diffusa)riesce a coinvolgere e far riflettere su quelli che ormai sono nodi stretti, radicati e ancora duri da sciogliere. Pertanto la pellicola è sicuramente consigliabile per indurre lo spettatore a riflettere seriamente su una realtà alquanto deplorevole in cui appunto ancor oggi molte donne ancora purtroppo sono costrette a vivere. Voto: 6 [Qui più dettagli]

16 commenti:

  1. Di questi ho visto solamente Cafè Society: l'ho abbastanza adorato, stranamente, dato che non sono per nulla appassionato di Woody Allen. L'ho trovato delicato, grottesco, con dialoghi azzeccati e sia Eisenberg che la Stewart sono stati ottimi nella parte.

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    1. Se per questo non sono mai stato neanch'io appassionato di Woody Allen, tuttavia i suoi ultimi film, compreso questo, mi stanno particolarmente piacendo, in quest'ultimo caso anche grazie e sopratutto a due attori che insieme fanno faville ;)

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  2. Due cose interessanti: Trash (già il titolo incuriosisce), un romanzo di formazione in trasposizione cinematografica e alla brasiliana; Kirsten Stewart, che a me fa tantissimo sangue, specie quando - come in quello screenshot - è in versione acqua e sapone :)

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    1. Sì, Trash è un film parecchio strano, tuttavia particolarmente interessante ;)
      Non sarà sempre in acqua e nel sapone nel film, però indubbiamente è sempre un piacere da vedere la Stewart :)

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    2. Vi accontentate di poco.
      Se fossi un uomo mi "farebbe sangue" solo Jennifer Aniston o Scarlett Johansson.. :P

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    3. Beh anche loro, non disdegnamo nessuna gran bellezza e oltre :D

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  3. Biutiful ottimo film, anche se comparare Birdman a Revenant lo trovo quanto meno azzardato.. Allen continua nella parabola discendente invece.. e quest'anno lo hanno pure segato.. forse per fargli un inconscio favore...

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    1. Birdman e Revenant sono due film completamente diversi, e comunque non mi sembra per niente azzardato definirli entrambi ottimi, perché a me piacciono entrambi...inoltre non sono d'accordo su Allen, che personalmente è meglio adesso che prima...

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  4. Trash, visto diverso tempo fa, mi piacque parecchio. Biutiful è uno di quei mille film che "sento che dovrei vedere" ma per cui non trovo mai il tempo o la voglia. Cafè Society lo salto volentieri ;)

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    1. Biutiful lo dovevo vedere anch'io da tempo, l'ho recuperato grazie a Premium, altrimenti avrei rimandato ancora.. ;)

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  5. Biutiful è l'unico film di Inarritu che non mi è piaciuto. Anzi, l'ho proprio trovato bruttiful. :)
    Per fortuna con Birdman volerà molto più in alto!

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    1. Difficile definirlo brutto per me, anche perché a volte è un pugno nello stomaco, ma è comunque uno dei suoi "peggiori" ;)

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  6. A Biutiful non avrei dato un soldo bucato e invece mi hai quasi convinto.

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  7. Mi hai lasciato tanti commenti, ed io ti ringrazio, ma contemporaneamente io ti scrivevo su Facebook per dirti una cosa e tu non leggi.
    Come faccio a comunicare con te?
    Uffiiiiiiii!!!

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    1. Ho avuto oggi il tempo per fare il giro...ora leggo e ti rispondo..

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