Se qualcuno ha visto "All Hallow's Eve" ricorderà di certo il personaggio di Art il Clown, se non lo si è visti (tra questi ci sono io) di certo lo ricorderà, e di certo non lo dimenticherà, dopo aver visto Terrifier, film del 2016 diretto da Damien Leone. Il suddetto pagliaccio infatti, non fa assolutamente nulla, a parte starsene per i fatti suoi, eppure basta la sua presenza per caricare la scena di una tensione più inquietante dell'intero minutaggio di Pennywise in It (che ha fatto comunque il suo dovere bene). Perché basta l'inizio, quando Art entra in una pizzeria e si siede, non solo per capire la potenza enorme del personaggio, ma anche per mettere a confronto tutti gli altri (tra cui quel misto di Joker/Pagliaccio che fece la fortuna di 31, il film di Rob Zombie che fu uno dei film consigliati l'anno scorso in occasione di Halloween, di cui questo Terrifier ne è l'ulteriore consiglio di quest'anno) e non avere più dubbi su quale sia il più "terrorizzante". Non a caso il punto di forza del film, un film indipendente e artigianale capace di ridare dignità alla figura del killer clown, riportandolo a quella dimensione grottesca di terrore primordiale (un ghigno malefico stampato su quella maschera piena di significati) e un film che è la pregevole rievocazione dell'horror vintage, regressione all'essenza più brutale ed elementare di un genere tornato a farsi beffe di psicologie e raffinatezze, è proprio Art the clown, psicopatico e feroce villian, che agisce senza alcuna motivazione. Non sappiamo niente di lui, anche se devono essergli successe cose orrende, visto il modo in cui si comporta. Per tutta la durata della pellicola assisteremo a un vasto campionario di torture e umiliazioni di vario genere, che soddisferanno appieno anche gli spettatori più sadici. Il sangue scorre a fiumi da teste spaccate, ferite da arma bianca...e da una ragazza tagliata in due. Eppure non c'è da sorprendersi, dopotutto Terrifier è a tutti gli effetti uno slasher in pieno stile anni '80: sporco, esagerato, grondante sangue ed effetti speciali pratici, che sfoggia una serie di efferatezze estreme molto succulente per gli amanti del genere. Il risultato perciò è un film certamente sopra le righe su diversi fronti, con un'impennata soprannaturale nel finire (forse la sola nota stonata) su cui sorvolare, ma è sicuramente un vero horror moderno ed estremo (che aggirando l'aspetto romantico e nostalgico di molti altri prodotti più commerciali ne amplia la carica ferale) davvero eccezionale, perché capace di regalarci alcuni momenti assolutamente degni di nota.
mercoledì 31 ottobre 2018
Hallowgeek 2018: La paura fa novanta VIII
Avevo già in programma anche quest'anno di proporre la recensione di un film adatto e da consigliare per Halloween, e il programma sarà rispettato, anche se con un po' di ritardo e con un orario differente dalla consueta pubblicazione, ovvero nel primo pomeriggio di oggi, perché prima devo, con questo post a tema, rispondere alla convocazione della Geek League, combriccola di blogger che ha pensato bene di proporre per questa speciale giornata una rassegna di episodi speciali di una serie (animata e non) a tema Halloween da esaminare. E così, sapendo bene che, se c'è una serie in cui è facile pescare a piene mani nel suddetto tema, quella è I Simpson, ho scelto di prendere ad esamina una puntata dei classici annuali di questa straordinaria serie animata, annuali Halloween Special che in America vanno tanto di moda. E così, memore di aver già nominato la puntata speciale de La paura fa novanta VIII del 1997 in occasione della recensione nella Notte Horror del film La Mosca, ho scelto proprio quella per rispondere alla chiamata. Se infatti conoscete almeno un pochino il mondo simpsoniano, sapete che uno no degli elementi che compongono il grandioso successo degli speciali di Halloween de "I Simpson", è l'intelligente uso di citazioni di grandi film. A tal proposito se volete scoprire di più, anche sulla puntata in questione della nona stagione, e conoscere tutte le citazioni od informazioni, questo è il link su cui cliccare, questo è il blog su cui bazzicare, quello di Marco Grande Arbitro di Gioco Magazzino e la sua Simpsonspedia (io mi limiterò a commentare solamente ogni intermezzo). Come dicevo, nei tre intermezzi la più grossa citazione è al bellissimo film "La Mosca", di David Cronenberg, ma gli altri non sono da meno, e rappresentano bene l'anima di questi special, e quindi ecco cosa ne penso della quarta puntata della nona stagione.
martedì 30 ottobre 2018
Gli altri film del mese (Ottobre 2018)
E insomma è passato un altro mese, e l'inverno e il periodo natalizio si avvicina sempre più, il freddo come detto ieri, nel post relativo ai peggiori film (che anticipa appunto questo sugli altri film di questo autunnale mese) è già arrivato, mentre non sono arrivate e non ci sono cose belle da segnalare, tutto nella norma, anche se mi è successo comunque qualcosa di positivo, ovvero che si è rafforzato un legame di amicizia nato in questi mesi, e poiché l'amicizia per me è qualcosa di importante (di vitale e di indispensabile), son contentissimo di averla incontrata (di aver incontrato la sua esuberanza). In tal senso vorrei fare (prima di lasciar spazio alle recensioni delle pellicole visionate) un "elogio dell'amicizia" (a tutti i miei amici vicini e lontani, virtuali e non, veri o presunti), con alcune frasi prese dallo scrittore Paolo Crepet dal suo libro omonimo (che comunque non ho letto). "L'amicizia non fa sconti, è un sentimento onesto: restituisce tutto ciò che si è seminato", "L'amicizia è necessità, mai convenienza. Esigenza dettata dall'intelligenza emotiva", "L'essenziale non lo si coglie quando i conti tornano, ma soltanto quando il sipario cala all'improvviso e non resta che una platea vuota e ci si sente immensamente soli", "Che significato potrebbe avere mai la vita se fosse soltanto un gioco con la propria ombra?", "L'amicizia è un lavoro serio, necessita continuità, dedizione, manutenzione attenta, come accade per tutte le cose rare e preziose" e "L'amicizia non serve per sé ma per entrambi, non è visione egocentrica ma relazione svelata". Bene, ed ora buona lettura.
lunedì 29 ottobre 2018
I peggiori film del mese (Ottobre 2018)
Come ben sapete in occasione di questo classico post mensile è mia consuetudine esporre le cose negative e/o brutte che mi sono capitate in questo mese, ebbene niente di tutto ciò, perché questo mese di Ottobre è stato relativamente tranquillo (a parte ovviamente i primi freddi che mi hanno già portato ad avere costantemente mani congelate da mattina a sera). E quindi non mi resta che lasciarvi al cospetto di queste recensioni di film, lista di film che al contrario di altre volte non contiene pellicole (od una pellicola) pessime/a, ma solo mediocri. Un miglioramento di scelta c'è insomma stato, anche se era lecito aspettarsi da tutti questi otto film (chi più chi meno) qualcosa in più.
The Great Wall (Azione, USA, Cina, 2016): No, da Zhang Yimou proprio non me l'aspettavo un film del genere, un film certamente godibile (anche perché come mero prodotto di intrattenimento, il suddetto funzionerebbe pure, ha una sua logica nella sua illogicità, e mi ha strappato pure qualche sorriso) ma non certo indimenticabile, anzi. Il film infatti, che sembri pescare dalla sua stessa filmografia e che sembri palesemente citare Il Signore degli Anelli e i Power Rangers, che perciò nella sostanza viaggi con il pilota automatico, al di là di alcuni dettagli (scenografie e costumi) importanti, si rivela essere un blockbuster, furbescamente passato per film d'avventura storico ambientato durante il medioevo (ovviamente la grande muraglia di cui si parla è quella cinese, che secondo la pellicola, come vedranno alcuni guerrieri occidentali finiti lì per caso, fu realizzata per tenere lontani non solo i mongoli ma anche qualcosa di più disumano e pericoloso), abbastanza mediocre. Difatti si tratta tristemente del primo "marchettone" (dopotutto si tratta del suo primo film in lingua inglese) del grande regista cinese (sono suoi i bellissimi film Lanterne Rosse, La Foresta dei Pugnali Volanti e Hero tra gli altri) che piega il suo talento alle esigenze commerciali hollywoodiane per il solito polpettone tutto effetti visivi e poca sostanza della Legendary che mescola qui wuxia e fantascienza con risultati indigesti. E al netto di una computer grafica che si rivela non propriamente all'altezza, e di creature dal design non proprio originale, ci si ritrova soprattutto a chiedere quale sia la funzione di Willem Dafoe nel film, un film dove tutti i personaggi (da Matt Damon a Pedro Pascal fino alla bella Tian Jiang) sono tagliati con l'accetta e monodimensionali, figli di una sceneggiatura svogliata (e ampiamente prevedibile). Perché certo, le battaglie sono spettacolari e il divertimento non manca, ma tutto è al limite del trash. In conclusione perciò, The Great Wall, è un difettosissimo blockbuster che (se preso per quel che è) riesce a intrattenere il tempo giusto per farsi odiare o per riempire una serata vuota o noiosa. Tuttavia cinematograficamente parlando è poca cosa. Voto: 5+
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venerdì 26 ottobre 2018
Barry Seal: Una storia americana (2017)
Se fottutamente vera era la storia di Gold: La grande truffa, certamente assurda e clamorosa è la storia di questo film, di Barry Seal: Una storia americana (American Made), film del 2017 diretto da Doug Liman con protagonista Tom Cruise. Il film infatti racconta l'incredibile storia vera di Barry Seal, pilota della TWA che negli anni '80 fece una montagna di soldi lavorando come corriere prima per la CIA, poi per il cartello della droga di Pablo Escobar, poi per tutte e due le organizzazioni contemporaneamente e infine diventando collaboratore ufficiale della DEA. Sì lo so, sembra una storia inventata, eppure questa aggrovigliata storia, che in verità è più ingarbugliata di quanto sembri, anche perché di sfumature la suddetta storia è piena, è proprio vera verissima. Difatti Barry Seal, inteso come il protagonista e il suddetto film, è un personaggio realmente esistito che si trovò, senza saperlo (e forse senza volerlo), coinvolto in qualcosa di più grande di lui che di lì a poco avrebbe cambiato le sorti di un continente e di un popolo intero, qualcosa che il regista, attraverso un'estetica profondamente anni '70 (un'estetica ben efficace tramite una discreta realizzazione tecnica della messinscena) ed una regia avvincente, perfettamente in linea con la storia e gli avvenimenti (ritmi frenetici ben scanditi da continue contestualizzazioni storiche raccontano infatti, avvalendosi anche di filmati di repertorio, i fatti accaduti durante quegli anni), riesce benissimo a raccontare. Costruendo per questo un film biografico decisamente atipico, certamente molto pop, molto intelligente, con qualche difetto ma sicuramente tanto, tanto divertente. Un film non certo originale, di taglio abbastanza Scorsesiano, tanto che Barry Seal non è poi tanto dissimile dal Jordan Belfort del lupo di Wall Street, tuttavia il taglio leggermente satirico e la buona regia del regista statunitense insieme alla convincente prova del di divo hollywoodiano (i due tornano a collaborare dopo il bellissimo Edge of Tomorrow), ne fanno un prodotto di tutto rispetto e piacevole da vedere. Un prodotto altresì ricco ed avventuroso che grazie a dei continui colpi di scena rendono difficile il colpo di sonno.
giovedì 25 ottobre 2018
The Handmaid's Tale (2a stagione)
Nel 2017 (personalmente solo pochi mesi fa, esattamente prima di questa seconda stagione) The Handmaid's Tale aveva trascinato gli spettatori nel mondo distopico immaginato da Margaret Atwood con una crudezza feroce (tale che non serviva comunque essere madri o donne per sentire il timore agghiacciante del mondo tratto dall'omonimo romanzo della scrittrice canadese, un mondo che condivideva le ansie distopiche di George Orwell con il look grigissimo de I Figli degli Uomini e soprattutto col fanatismo religioso di un romanzo di Stephen King) dalla quale non si riusciva a staccarsi per il fascino magnetico di una sceneggiatura attenta, dei temi profondi, della bravura impareggiabile di un cast dove Elisabeth Moss era la luce più calda e brillante in un cielo dove splendevano stelle altrettanto ammirevoli (qui la mia recensione). La storia di Offred e delle altre ancelle vessate dalla teocrazia di Gilead era riuscita ad attirare su di sé le luci della critica e del pubblico anche per la capacità di insinuare il ferale dubbio che la distopia immaginata dalla scrittrice canadese oltre trent'anni fa non fosse poi un incubo tanto irrealizzabile in una società moderna dove femminicidi e discriminazioni sessuali sono ancora troppo presenti. In tal senso e per davvero si ha la sensazione che Gilead sia il posto (in cui tornare non è facile) più orribile, crudele e disumano che l'immaginazione possa mai concepire, una specie di specchio distorto ed estremizzato all'ennesima potenza dell'attuale governo USA. Non a caso il Canada, vicino di casa più piccolo e più verde (e soprattutto più liberale, come vedremo spesso in questa seconda stagione) è visto come il luogo idilliaco da raggiungere. A tal proposito una delle sequenze più riuscite di questo nuovo intermezzo è proprio quella ambientata a Toronto, quando una delegazione dello stato autoritario di Gilead viene invitata per discutere una serie di accordi bilaterali fra i due governi, ebbene, fino a quel momento abbiamo passato talmente tanto tempo nei confini di questa spregevole nazione estremista da iniziare a considerarla distante anni luce dalla nostra mentalità e soprattutto dal nostro mondo...solo per scoprire che, appena spingiamo la testa fuori, è proprio del nostro mondo che si sta parlando. E' quasi destabilizzante come viene bilanciato il rapporto fra Gilead e il Canada: quella che fino ad allora avevamo considerato una fantascienza distopica viene immediatamente trapiantata nel nostro presente. In quella scena c'è tutta la forza politica di The Handmaid's Tale, perché la serie non ci sta raccontando un ipotetico domani, ci sta raccontando l'oggi. E ci rendiamo conto che in questo momento, nel mondo in cui viviamo, ci sono donne i cui diritti vengono calpestati ancora di più rispetto a quanto accada nell'immaginario stato dei Comandanti.
mercoledì 24 ottobre 2018
Song to Song (2017)
Speravo in un cambiamento, un'evoluzione, o quantomeno un lieve discostamento. Niente da fare. Siamo sempre fermi nello stesso identico punto. Perché esattamente come il suo predecessore, questo film dice poco. Perché già con il vacuo e noioso Knight of Cups, Terrence Malick aveva iniziato a mostrare primi segni di cedimento, e con Song to Song, film del 2017 scritto e diretto dal leggendario regista statunitense, le cose non sembrano essere migliorate. Certo, rispetto ai film precedenti (soprattutto l'ultimo) la trama è più lineare ed è chiaro fin da principio dove si voglia andare a parare, ma mai come in questo film tutti gli attori sono ridotti a bellissimi archetipi spersonalizzati, simboli in movimento che in un flusso di coscienza forzatamente poetico si fanno portatori di una morale sintetica e ingannevole, che cerca di sublimare la banalità del messaggio attraverso l'utilizzo della forma. Una forma pretenziosa e ricercata (attraverso immagini sublimemente e lentamente riprese della natura, attraverso location in generale e personaggi, esteticamente sempre molto attraenti) e con numerosi e continui flash back troppo elevata ed affatto necessaria al significato del film (assimilabile nel concetto dell'amore nel suo evolversi e nelle sue diverse sfaccettature ed incongruenze) e pertanto l'opera si appesantisce notevolmente, divenendo "costruita" e poco diretta (d'altronde il regista costruisce questa storia con le stesse ed identiche modalità con cui ha creato le sue pellicole precedenti, ovvero solo tramite immagini e suoni). Insomma un trionfo, quasi eccessivo, dell'estetica che (nuovamente), sì, appaga l'occhio dello spettatore (dopotutto anche qui sempre eccezionale è la fotografia di Emmanuel Lubezki), ma poiché esso viene (nuovamente) ripetuto in continuazione senza aggiungere nulla di nuovo, lo tedia anziché affascinarlo. Perché non possono le immagini sostituire una storia affascinante ma inconcludente come questa, quella di BV (Ryan Gosling), un musicista che cerca il successo con l'aiuto della compagna (Rooney Mara) e del suo produttore Cook (Michael Fassbender, che nel frattempo irretisce la cameriera Rhonda ovvero Natalie Portman) le cui esistenze si intrecciano in un mondo di seduzioni e tradimenti.
martedì 23 ottobre 2018
Ghibli Collection (La tomba delle lucciole, Nausicaä della Valle del vento, La ricompensa del gatto & Principessa Mononoke)
In un calendario già fitto di impegni di pellicole da vedere e recuperare entro l'anno (tra La Promessa e quant'altro), non ho potuto lasciar troppo in disparte (anche se della lunga lista ho già recuperato 3 film, a fronte però di ben 28 pellicole d'animazione) un progetto di recupero che mi stava molto a cuore, parlo ovviamente del The Project Ghibli/Miyazaki e non solo, un progetto che aveva (ed ha) lo scopo di recuperare tutti i film rimanenti della filmografia del famoso studio e del famoso regista (che come dovreste sapere adoro particolarmente). E quindi nonostante gli impegni inderogabili che mi ero e mi sono prefissato di concludere, sono riuscito in una settimana di relativo relax, e grazie alla visione su un canale di Sky di un film che era in lista (parlo del primo di questo post), e grazie al recupero prefissato che mi ha permesso di vedere un film dello Studio candidato all'Oscar (ci sarà un altro prossimamente), ho potuto cominciare a stilare una piccola lista di film da accompagnare a tutto ciò, e la scelta è ricaduta successivamente su due film del maestro Miyazaki (di cui adesso me ne mancano due) e su un film d'animazione, di cui nell'ultimo periodo ho letto parecchie recensioni, che mi aveva particolarmente colpito. E perciò, nonostante tutto, anche il tempo (parecchio) trascorso dalle ultime visioni di molti film della suddetta casa di produzione (che avrà forse pesato su alcuni giudizi) ho visto questi quattro (diciamo tre) iconici film, film che hanno segnato il percorso straordinario di due grandi maestri, che aprirono la strada e continuano ancora oggi ad affascinare milioni di spettatori. Molti appassionati li avranno già visti, altri no, ma ecco cosa ne penso io di questi quattro film dello Studio Ghibli.
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lunedì 22 ottobre 2018
Valerian e la città dei mille pianeti (2017)
Fantascienza avventurosa, colorata, divertente, questo è Valerian e la Città dei mille pianeti (Valérian et la Cité des mille planètes), film del 2017 scritto e diretto da Luc Besson. Quest'ultimo infatti, a ventuno anni da Il Quinto Elemento, torna alla regia di una space opera prendendo spunto da un caro ricordo d'infanzia, il fumetto Valérian et Laureline ideato dallo scrittore Pierre Christin e il disegnatore Jean-Claude Mézières nel 1967, lo fa con 197 milioni di euro di incentivi, budget più alto della storia del cinema francese, con l'obiettivo di creare un prodotto che possa davvero segnare una generazione, e in parte ci riesce. E in tal senso obiettivo ambizioso, quello di Besson, nell'andare a creare un moderno Star Wars. Dopotutto il film è ambientato nel futuro e nello spazio, e racconta di due agenti del governo di Alpha, Valerian e Laureline appunto, che vengono incaricati di stroncare ogni pericolo per quella che era una semplice base orbitante terrestre e che è diventata l'esempio gigantesco di convivenza tra migliaia di esseri differenti tra di loro (e davvero è molto efficace il racconto visivo iniziale di come sia accaduto tutto questo). Ma quando vengono incaricati di svolgere una missione alquanto strana e rischiosa, capiscono che su Alpha c'è molto di più di quello che loro stessi pensavano, e che quindi toccherà a loro scongiurare una fratricida guerra. Peccato che, come negli ultimi Star Wars, seppur dal punto di vista puramente visivo, Valerian e la Città dei Mille Pianeti è uno spettacolo per gli occhi (la sequenza della nascita di Alpha, con la colonna sonora di Space Oddity di David Bowie è fantastica), Alpha, ed in generale tutto il film, sono infatti spettacolari, grazie ad un accorto ed appassionato uso di ogni tecnologia disponibile, dal punto di vista narrativo (e non solo) lasci parecchio a desiderare. Quest'ultimo difatti, nonostante le vicende singolarmente non siano poi neanche tanto male, soffre dello sgangherato motore che lo muove, o almeno parte di esso.
venerdì 19 ottobre 2018
Smetto quando voglio: Ad honorem (2017)
Avrei dovuto davvero alla conclusione della visione del secondo capitolo rapire il produttore e minacciarlo per farmi consegnare subito, in quel momento, una copia del capitolo finale per vedere come finiva, perché non vedevo l'ora di farmi nuovamente un paio di risate e confermare il suo valore, non lo feci, ma dopo 9 mesi (paradossalmente l'intervallo di tempo della loro uscita al cinema) ci sono riuscito, a vedere il film s'intende, e ne sono rimasto piacevolmente colpito. Giunto al capitolo finale, intitolato Smetto quando voglio: Ad honorem, di quella che inaspettatamente è divenuta una trilogia filmica, il buon Sidney Sibilia, sceneggiatore, regista e ideatore di questo caso cinematografico nostrano (poiché caso più unico che raro più che una saga sembra un film unico, giacché questo film del 2017 è il sequel di Masterclass uscito nello stesso anno il quale è, a sua volta, sia il midquel di Smetto quando voglio del 2014, in quanto le vicende del secondo capitolo si svolgono prima della scena finale del primo capitolo, sia il suo sequel, poiché mette la parola fine alle imprese della banda dei ricercatori), riesce infatti a riprendere con destrezza le fila della narrazione, ampliatesi con l'aggiunta di nuovi personaggi e nuove trame nello scorso film, e a chiudere il cerchio in maniera compiuta ed esaustiva, equilibrando come sempre divertimento e riflessione. Il regista dà vita difatti ad una pellicola dinamica, divertente, con la giusta dose di azione, molto coinvolgente, capace di essere al tempo stesso critica ed autoironica. Se il primo capitolo era la classica commedia italiana ed il secondo aveva delle sembianze di un action/western, il finale della saga è un giusto mix tra i due generi, dove vengono sviluppati in maniera esponenziale gli aspetti poco trattati della storia. La regia e il montaggio seguono il modus operandi classico di tutta la trilogia (non a caso chi si è divertito con i precedenti capitoli e si è affezionato agli stravaganti personaggi ritrova in questa simpatica commedia corale tutti gli ingredienti che ne hanno decretato il successo, sebbene l'amaro sarcasmo con cui erano denunciate certe anomalie e illegalità del sistema politico e universitario italiano, è qui un po' più smorzato da una maggiore positività e leggerezza di fondo) ovvero partire dal titolo precedente, chiarirne i vuoti, per poi procedere alla narrazione. Come le tessere di un puzzle, i tre film si incastrano tra loro regalandoci alla fine un quadro completo, senza buchi di trama, delle vicende della banda dei ricercatori.
giovedì 18 ottobre 2018
La mummia (2017)
Molti di noi credo abbiano sussultato alla notizia di un remake de "La Mummia" quando ne fu annunciata la produzione anni fa. Per tanti la trilogia di Stephen Sommers, o perlomeno il capitolo del 1999, è stata infatti una solida impronta nell'infanzia che ha regalato e, forse, inventato un senso del mistero, della ricerca dell'occulto e della scoperta che si vorrebbe riscoprire in un film del medesimo genere. È questo che si cerca, a maggior ragione, in un remake/reboot (o qualsiasi altra cosa) che ha sulle spalle il duro compito di non infangare il nome che porta, ed è questo che non si è trovato nel lungometraggio di Alex Kurtzman che, al suo secondo film dopo "Una famiglia all'improvviso", sceglie la strada più scontata e probabilmente la più sbagliata. I film di Sommers inoltre avevano il pregio di saper divertire, erano un blockbuster di discreto livello in grado di intrattenere bene, qui siamo all'ennesima rappresentazione della mummia ma priva di ironia e con effetti speciali appena discreti. Con La mummia (The Mummy) infatti, film del 2017 diretto dal regista statunitense, ci troviamo davanti ad un film piuttosto insufficiente, in termini di sceneggiatura e di evoluzione narrativa. La storia è piuttosto piatta e, soprattutto nella parte centrale il ritmo cala in maniera vistosa, tanto che rischia di annoiare. L'idea di per se non è male, ma il suo stare in bilico tra film d'azione (a tratto quasi supereroistico) e una sorta di omaggio al cinema horror, lo trasforma in una pellicola insipida e soprattutto scontata, con l'unica eccezione per una brava e intrigante Sofia Boutella (che esalta la sua sete di potere senza sforzo, oltre ad essere incredibilmente seducente), e una serie di effetti speciali piuttosto riusciti. E in tal senso niente di cui sorprendersi, dopotutto La mummia è il classico film dove la storia è costretta a servire uno spettacolo puramente visivo invece che un lavoro di spessore. A tal proposito vorrei raccontarvi la trama (una trama semplice tuttavia piena di scene WTF?!, in cui la cosiddetta "sospensione dell'incredulità" viene abbondantemente superata), ma finirei solo col dirvi con troppi giri di parole che, in fin dei conti, si tratta della classica storia in cui una creatura malvagia viene risvegliata dal sonno eterno e comincia a seminare caos e distruzione. Piuttosto, preferisco passare subito al sodo.
mercoledì 17 ottobre 2018
La storia della principessa splendente (2013)
Ispirato ad uno dei più popolari racconti giapponesi, animato dal celebre (purtroppo ora compianto) Isao Takahata e candidato all'Oscar come miglior film d'animazione nel 2014, La storia della Principessa Splendente è una pellicola (del 2013) tecnicamente, e non solo, molto bella, anche perché grande poesia e attenzione al dettaglio caratterizzano quest'opera, un'opera notevole e quindi profonda, ma che non assurge al capolavoro. Mi sembra esagerata infatti la valutazione della critica verso questo bel film, definito in pratica un capolavoro. Alla regia c'è in effetti un mito, Isao Takahata dello Studio Ghibli appunto, ma non è che qualunque cosa faccia sia automaticamente perfetto (anzi, l'unico che ho visto da lui diretti, Pom Poko, non è tra i miei preferiti in assoluto). Qui difatti, anche se la suddetta è bella e si segue, anche in un film così lungo (anche il finale è molto bello), abbiamo una storia tradizionale, abbastanza semplice e molto dilatata, fino quasi a dare per questo un senso di pesantezza. Certo, tecnicamente è eccelso, anche grazie a un disegno primitivo e dai colori molto tenui davvero affascinanti, ma ha qualche pecca che non si può negare. I tempi lo rendono un film adulto, totalmente inadatto ai più piccoli e a chi cerca film briosi e d'azione, non necessariamente un difetto anche se la lunghezza eccessiva ha provocato qualche momento di noia anche in me. La storia in sé è poi lineare e prevedibile, soprattutto nella seconda parte, anche se anche il primo tempo, nel suo voler raccontare bene i personaggi, risulta un po' lento e alcune azioni e reticenze della protagonista in generale potrebbero non essere del tutto colte. E quindi sicuramente un buonissimo lavoro, un bel film (un sette pieno certamente), però non un capolavoro vero e proprio. In tal senso, anche se Big Hero 6 non era affatto un capolavoro (solo piccolo capolavoro), quest'ultimo ha meritato di vincere l'Oscar, perché io lì c'ho lasciato un pezzo di cuore, qui no. E tuttavia è impossibile non parlare benissimo di questo film.
martedì 16 ottobre 2018
[Games] NFS: Most Wanted, For Honor, Captain Spirit & Aliens vs Predator
Sono passati ben 24 anni dall'uscita del primo Need For Speed. In tutti questi anni la serie ha avuti diversi alti e bassi, ma uno dei titoli che ha riscosso più successo è stato senza dubbio Most Wanted nel 2005. EA decide nel 2012 perciò di riportare in vita lo storico capitolo affidando lo sviluppo a Criterion Games, già autori del precedente NFS: Hot Pursuit e della (magnifica) serie Burnout (sopratutto del penultimo capolavoro che fu Burnout Paradise). E in tal senso Need For Speed: Most Wanted (anch'esso ricevuto in regalo, in questo caso dalla piattaforma Origin più di un anno fa) più che essere considerato un reboot o un sequel, può essere considerato l'erede spirituale di Burnout Paradise, giacché i produttori rimangono fedeli al loro stile senza mezze misure (praticamente è come se avessero solamente aggiunto la presenza della polizia ed un parco auto su licenza), tanto che probabilmente il titolo doveva essere Need for Burnout. E tuttavia, anche se proprio per questo fatto che il suddetto (che figlio di alcune scelte concettuali discutibili è incapace di apportare incisive innovazioni al genere, giacché riprende sostanzialmente la stessa formula di gioco) non riesca a conquistare la vetta dei racing game, e nonostante alcuni difetti (su tutti la scelta rischiosa e non del tutto riuscita di un open world pienamente accessibile da subito), Need for Speed: Most Wanted è un titolo accattivante, divertente e dichiaratamente destinato agli amanti dei racing game di stampo arcade. Di certo non è un capolavoro ma l'intelaiatura è buona: un sistema di controllo semplice ed immediato, una città da esplorare a rotta di collo ed una modalità single player variegata che si affaccia in rete scardinando il confine tra gioco in solitaria e multiplayer (che purtroppo ho potuto provare raramente dati gli anni passati), e poi tecnicamente il gioco è di buona fattura, certamente più dello sciapo e passabile, sia per la storia (trita) che per il suo gameplay stucchevole, capitolo precedente, che non è stato Hot Pursuit, ma The Run, uscito in mezzo ai due, un episodio che non ha convinto pienamente, proprio per la sua lontananza dal mondo di Need for Speed e dalle caratteristiche tipiche di questi giochi. Certo, in verità questo nel complesso decisamente migliore non è (proprio per la sua strana fusione) ma almeno tutto il resto (in parte) è al posto giusto. Ma prima di sapere cosa sì e cosa no, ecco la trama, anche se una vera e propria non c'è, di NFS: Most Wanted, infatti veniamo immediatamente catapultati per le strade dell'immaginaria città di Fairheaven, e il nostro scopo sarà quello di scalare la classifica dei 10 Most Wanted e conquistare le loro macchine (di queste 31, tutte con licenze ufficiali, possono essere sbloccate semplicemente trovandole per strada, in tal senso la città e i dintorni sono liberamente esplorabili). Naturalmente non sarà un'impresa facile, e prima di poter sfidare questi particolari piloti e i loro bolidi dovremo guadagnare diversi Speed Point.
lunedì 15 ottobre 2018
Vittoria e Abdul (2017)
Cinque anni dopo il commovente Philomena, Stephen Frears con Vittoria e Abdul (Victoria & Abdul), film del 2017 diretto dallo stesso regista britannico, porta al cinema di nuovo una storia, dopo Florence, con una donna il cui carisma accentra ogni sguardo su di se, da parte sua Frears continua a concentrarsi, più che sulla storia che circonda i protagonisti, proprio sugli stretti rapporti personali e su cosa le persone sono l'una per l'altra. E in tal senso non è la prima volta che sul grande schermo vengono realizzati film basati su rapporti tra personaggi di spicco e servitù, eppure la pellicola affascina perché è ispirata liberamente a una storia vera, tratta dai diari (ritrovati nel 2010) che la Regina Vittoria scriveva in lingua Urdu, quando era ancora in vita, grazie all'insegnamento di Abdul. Il film infatti, basato sull'omonimo libro di Shrabani Basu, che racconta una storia quasi sconosciuta, perché volutamente tenuta nascosta e venuta alla luce solo poco tempo fa, porta in scena la storia della controversa amicizia tra la regina Vittoria alla fine del suo regno e un suo attendente di origine indiana, Abdul Karim, selezionato per la sua bellezza per consegnare una moneta all'imperatrice indiana durante una delle tante cerimonie di cui è fulcro e protagonista. Istruito a dovere sui movimenti da compiere e ammonito sugli sguardi da evitare, Abdul osa però incrociare quello dell'annoiata regina, scatenando un interesse che presto si trasforma in un'amicizia dai tratti decisamente poco convenzionali che durerà molto a lungo, nonostante tutti i tentativi di farlo fallire. Vittoria e Abdul è quindi soprattutto il ritratto di una donna potente e determinata, dopotutto a Stephen Frears (che con The Program convinse ugualmente) piace raccontare le grandi Regine, e sa farlo con eleganza, grazia e perspicacia, come aveva già dimostrato nel 2006 con il bellissimo The Queen e come fa anche in questo suo nuovo film, che vede l'ennesima collaborazione tra il regista e una delle signore del teatro e del cinema inglese, Judi Dench, già protagonista in due suoi precedenti lavori, Lady Henderson presenta e appunto Philomena, ma anche di un'amicizia che ha saputo superare differenze sociali e religiose. E in tal senso il film è diviso in due fasi dal punto di vista narrativo, con una prima parte ironica e divertente con diverse scene che strappano più di una risata, e una seconda che vira invece al sentimentale e commuove, ma nell'insieme si tratta di una piacevole e irriverente commedia.
venerdì 12 ottobre 2018
Assassinio sull'Orient Express (2017)
Mettiamo in chiaro subito una cosa, in questa recensione privilegerò il confronto con la pellicola del 1974, che a mio parere è doveroso, proprio quell'adattamento (davvero ottimo) è per me infatti il migliore per conoscere Agatha Christie (almeno cinematograficamente), certo, questo nuovo rifacimento difatti (più o meno fedele al precedente) risulta comunque interessante e se ne consiglia una visione (anche perché seppur diversa, in fin dei conti è un'esperienza piacevole), ma un'eccellente confezione, bellissime e superbe riprese e una regia solida e di mestiere non bastano a fare di questo film, Assassinio sull'Orient Express (Murder on the Orient Express), film del 2017 diretto, co-prodotto e interpretato da Kenneth Branagh, un'opera di un certo livello. Purtroppo il problema è nella (nuova) sceneggiatura e (di conseguenza) nell'impianto narrativo del romanzo (qui effettivamente non incisivo come nel precedente, perché se geniale è la risoluzione del giallo, non tanto giustificabile la scelta finale). Complessivamente è un film discreto ma senza spessore e senza personalità. Un remake algido nell'esecuzione e sontuoso nella fotografia e nelle ottime riprese. E tuttavia, pur non essendo una pellicola originale ed eccezionale in sé, essa possiede tutte le carte in regola per venire pienamente apprezzata, anche se alcuni dettagli alla fine non convincono in questo film che in realtà sarebbe potuto essere assai peggiore. Il film infatti cerca una propria strada, che trova solo in parte, lasciando l'amaro in bocca, non solo per il finale troppo triste. Perché certo, confrontarsi con la scrittrice di gialli più famosa al mondo è sempre difficile, e fare un remake di un'opera che è quasi un capolavoro (sto parlando appunto ed ovviamente del film omonimo del 1974, diretto da Sidney Lumet) lo è ancor di più, ma la non del tutta efficace attualizzazione dell'opera da parte del regista avviene non senza negative conseguenze. Tra queste l'atmosfera del film, che cambia radicalmente, se nel film del 1974 c'era un clima in fin dei conti allegro, con un Poirot sicuro di sé che dava peraltro spazio a godibilissimi siparietti comici, troviamo in questa pellicola un Poirot triste e tormentato, quasi "dannato" per questa sua caratteristica di vedere il mondo diviso in due. L'atmosfera è quindi (troppo) cupa e pesante in confronto a quella speranzosa e gioviale dell'originale.
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giovedì 11 ottobre 2018
Riverdale (1a stagione)
Tutti ne parlano, tutti la amano: Riverdale è la serie del momento e io, non potevo non vederla e non recensirla, e questo nonostante all'inizio una mia certa titubanza mi avesse spinto nell'evitare o non prendere in considerazione affatto la visione di questo ennesimo teen drama, giacché non bastava che la serie sembrasse qualcosa di già visto (o qualcosa di poco stuzzicante nonostante le sole 13 puntate complessive), ma il fatto che la suddetta fosse targata The CW e il produttore fosse Greg Berlanti, lo stesso delle ormai, personalmente stantie (soprattutto Arrow e Flash), serie DC Comics, mi lasciava parecchio perplesso. E invece, complice la ricerca di qualcosa di "leggero" da vedere durante questi ultimi mesi, complice i paragoni cominciati lo scorso anno e proseguiti quest'anno con Twin Peaks, paragoni più che giustificati dalle ambientazioni, l'atmosfera, le dinamiche e la narrazione quasi identici (e una attrice in comune), anche se in realtà, a posteriori, sembra più un bizzarro miscuglio di richiami a Dawson's Creek e Pretty Little Liars (quest'ultimo perché a indagare sono ragazzi), è scattata la scintilla, a dirla tutta senza troppe aspettative e pretese. E in modo abbastanza inaspettato la sorpresa è stata totale, e in tal senso meglio non sottovalutare Riverdale e soprattutto non pensare a Riverdale solo come un teen drama. Il tono della serie infatti, serie basata sui personaggi protagonisti dai fumetti (che ovviamente non ho letto e neanche mai conosciuta) della casa editrice Archie Comics, è tutt'altro che scanzonato, anzi, fa leva su quella morbosità da piccola cittadina universalmente applicabile dove il pettegolezzo e l'apparenza la fanno da padroni. L'etichetta di teen drama quindi sfuma verso il drama a tutto tondo della più classica tradizione televisiva americana. Da un lato infatti si recuperano alcuni stilemi dei capisaldi del genere teen drama (alcuni già accennati), dall'altro gli sceneggiatori riescono a compenetrare gli elementi adolescenziali con le vicende degli adulti (con le immancabili famiglie in lotta) fra cui spicca un Luke Perry (Dylan in Beverly Hills 90210) in grande spolvero nei panni del padre di Archie. Ne viene così fuori una serie (divenuta in pochissimo tempo, una delle serie più viste dagli americani) forse non irrinunciabile ma brillantemente godibile e convincente da meritare parecchi applausi.
mercoledì 10 ottobre 2018
Borg McEnroe (2017)
Ho sempre seguito tutti gli sport, specialmente in televisione, ma tra quelli che ho sempre seguito meno c'è il tennis, tanto che prima di vedere Borg McEnroe, film del 2017 diretto da Janus Metz, non ero a conoscenza né dei personaggi/atleti (solo piccole informazioni), né della loro rivalità e né della partita che consacrò entrambi alla leggenda. Soprattutto non sapevo cosa aspettarmi, e in tal senso il film non delude le aspettative, tuttavia il film, che sia sotto l'aspetto della ricostruzione sportiva sia per una sceneggiatura debolissima sconfina spesso nel patetico, proprio non m'è piaciuto. Colpe di sceneggiatura, prima di tutto, ma anche la regia del danese Janus Metz appare alquanto impersonale, frettolosa, diligente solo a mettere insieme scene che facciano piacere alla vista, fregandosene dell'onestà del racconto. Prendendo infatti spunto da una tra le più famose e celebrate rivalità sportive, il regista firma un film molto semplice e lineare, mirato a ricostruire le gesta degli atleti ma anche a fornire una caratterizzazione emotiva più profonda e toccante, che indaghi la passione nutrita dai due rivali. Borg McEnroe si muove così in maniera prevedibile attraverso l'ormai consolidato climax sportivo mirato a focalizzare l'attenzione su un'unica partita che diventa cardine per la carriera e la vita dei due atleti. Romanzando di gran lunga i fatti raccontati e abbondando quasi sempre con la retorica, il film diverte e intrattiene senza tuttavia provare mai a suggerire un'idea di cinema personale. Egli difatti procede con il pilota automatico per l'intera durata del suo lavoro sapendo di poter contare sul fascino sportivo della sfida raccontata e sulle personalità dei suoi protagonisti, antitetiche (glaciale e controllato uno, sopra le righe e irascibile l'altro) e ben incarnate dai due interpreti, aderenti ai loro personaggi dal punto di vista fisico e nel temperamento complessivo. Peccato che il tutto venga solo abbozzato e mai trattato con la dovuta cura, soprattutto i momenti più caldi (i caratteri "opposti" ma comunque simili dei due, il passato di uno, la ferita affettiva dell'altro) che rimangono così sempre ingabbiati dentro logiche narrative più esili seppur funzionali alla ricostruzione drammaturgica.
martedì 9 ottobre 2018
Boxtrolls: Le scatole magiche (2014)
Dopo la felicissima esperienza fatta con il bellissimo Kubo e la spada magica non vedevo l'ora di recuperare (oltretutto era già in lista) il precedente film della Laika, quel Boxtrolls: Le scatole magiche (The Boxtrolls), film d'animazione del 2014 realizzato in stop-motion, diretto da Graham Annable e Anthony Stacchi, che si basa sul romanzo illustrato Arrivano i mostri! (Here Be Monsters!) di Alan Snow, che fu candidato agli Oscar 2015 come miglior film d'animazione, premio che però poi vinse l'altrettanto bellissimo Big Hero 6, cosa che purtroppo non è questo film. Perché se anche il film allo stesso tempo riesce ad essere perspicace nella prospettiva dei personaggi, non solo caratterialmente parlando, ma specie nel menefreghismo di alcuni di essi, il film non a caso è ambientato in epoca vittoriana, considerata tra una delle più buie e nitide di sempre (guarda caso film in stop motion in epoca vittoriana è La Sposa Cadavere, che testimonia l'intolleranza di certa gente, specie degli aristocratici, dopotutto in questo film, il sindaco della cittadina in questione è la rappresentazione del menefreghismo generale, specie nella figlia che, nonostante tende ad avere un rapporto col padre, non ci riesce), perché se anche il film non delude e risulta comunque riuscito (perché visivamente affascinante), esso è certamente un film lievemente inferiore ai due precedenti a questo, ovvero Coraline e La Porta Magica e Paranorman, ed ovviamente a quel piccolo gioiello di Kubo (seppur è venuto dopo), poiché il film è poco poco più lento rispetto ai primi due (e al successivo) della Laika, che avevano un ritmo più fluido, ed è inoltre molto prevedibile. E tuttavia, nonostante ciò, ho apprezzato lo stesso ciò che è scaturito. Giacché Boxtrolls: Le scatole magiche, conferma la straordinaria firma autoriale che la Laika (che si propone da sempre di unire sperimentazione e tradizione) riesce a imprimere sui suoi lavori. Infatti, sia Coraline che ParaNorman avevano una cifra stilistica comune che oggi si ripete pienamente anche in Boxtrolls. Innanzitutto, caratteristica comune dei prodotti Laika è l'essere realizzati in stop-motion 3D, poi deve esserci essenzialmente un gusto per il macabro e il goticheggiante, ed è quello che accade, qui difatti, ancora una volta, è il sottofondo inquietante a farla da padrone, complice la grafica in stile grottesco sul modello Tim Burton e le sceneggiature scure ed inquietanti (anche se pur ricordando quello stile ne da però una versione più comica, soft e meno noir).
lunedì 8 ottobre 2018
Animali fantastici e dove trovarli (2016)
Solo il più ingenuo dei Babbani poteva pensare che il mondo magico e remunerativo creato da J. K. Rowling avesse terminato il suo percorso sul grande schermo nel 2011 con l'ultimo episodio di Harry Potter. Se i fan di J. R. R. Tolkien sono rimasti sorpresi quando Peter Jackson ha tirato fuori una trilogia da un romanzo breve come Lo Hobbit, è ancor più spiazzante l'idea di trarre ben cinque film dal compendio magizoologico della scrittrice inglese, uno dei libri di testo di Hogwarts. La nuova serie spin-off interamente diretta da David Yates infatti, già regista degli ultimi quattro Harry Potter (e di The Legend of Tarzan), che si prepone di rileggere l'ultimo secolo di storia americana e mondiale in chiave fantasy (e con lo stesso tono dark degli ultimi quattro capitoli di Harry Potter, i più "maturi"), e in cui inevitabilmente forte è il legame con la saga potteriana, pur trovandoci in un'altra epoca e in un altro continente, non mancano difatti riferimenti a nomi e luoghi già conosciuti, ci porta a conoscere da vicino il personaggio di Newt (finora solo poco più di un nome) e le avventure che lo vedono protagonista all'epoca della scrittura della sua guida, giacché diverse storyline si intrecciano a partire dall'arrivo del protagonista a New York. E in tal senso sgombriamo subito il campo da ogni possibile equivoco, Animali fantastici e dove trovarli (Fantastic Beasts and Where to Find Them), film del del 2016 diretto dal regista britannico, è un bel film (indubbiamente apprezzabile e piacevole), che sicuramente avrà mandato in brodo di giuggiole i fan storici della saga e avrà incantato le nuove generazioni, ma il suo risultare sottile in molti aspetti, fa sì che non riesca a coinvolgere il pubblico con la sua magia (che qui, quella vera e propria, manca). Infatti la profusione degli effetti speciali (nonostante essi siano di ottima fattura), la trama in fin dei conti poco consistente, i colpi di scena alcune volte abbastanza prevedibili e l'interpretazione degli attori non proprio eccezionale, non mi ha fatto apprezzare fino in fondo questo film, nonostante alcune scene esilaranti e rese magnificamente (tra tutte quelle all'interno della valigetta di Scamander, dove magicamente ha ricostruito una riserva portatile per le specie di animali da lui catturati, ma anche quelle con protagonista lo Snaso, simpatico cleptomane che crea non pochi inconvenienti).
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giovedì 4 ottobre 2018
Black Mirror (4a stagione)
Ormai è diventato un appuntamento fisso, uno di quelli di cui sentiamo l'esigenza. Nonostante in realtà ci faccia male, ci angosci, ci crei solo paranoie e preoccupazioni. Ma Black Mirror, la serie antologica ideata e scritta quasi totalmente da quel geniaccio di Charlie Brooker, è un qualcosa che serve alle nostre coscienze per fare i conti con quel pezzettino di anima che ogni giorno stiamo vendendo al diavolo della tecnologia. Perché non importa quanto possiamo essere consapevoli e attenti nel nostro uso di cellulari, computer, social e similari, ognuno di noi sa perfettamente di essere sempre più schiavo di oggetti che anno dopo anno non fanno altro che condizionare la nostra vita. Non è un caso forse che la serie in questione già un anno (in verità 2) fa sia stata adottata in esclusiva da Netflix, un altro colosso tecnologico che ha cambiato per sempre il nostro modo di rapportarci con il mondo e, in fondo, di dipendere da quello "specchio nero" che Brooker ci sta raccontando, con molte varianti, dal 2011. Perché a prescindere dalla qualità artistica il grande merito di Black Mirror (che giusto per spiegare a quei pochi che magari non la conoscono, è una serie di puntate auto-conclusive, con un cast sempre diverso e trame totalmente slegate fra loro, l'unico punto in comune è il raccontare futuri dove la tecnologia ha in qualche modo totalmente cambiato il nostro modo di vivere, nella quasi totalità di questi futuri il risultato è catastrofico e si mostrano lati orrendi dell'umanità, tuttavia non è mai stata una regola assoluta e il famoso episodio San Junipero della terza stagione ha aperto in qualche modo un filone nuovo, più filosofeggiante) è proprio questo, anticipare i tempi e raccontare non storie di fantascienza, ma di una realtà possibile e molto più vicina di quanto possiamo immaginare. Perché non ha importanza che la tecnologia sia disponibile o meno, tutto ciò che è presente nelle sceneggiature di Brooker e dei suoi colleghi viene dalla nostra società, dai nostri desideri più o meno inconsci, dai nostro comportamenti che già oggi permettono di capire quale potrebbe essere una futura evoluzione degli strumenti di cui già adesso non riusciamo a fare a meno.
mercoledì 3 ottobre 2018
Gold: La grande truffa (2016)
Tratto da una storia fottutamente vera (come dice il banner) questo Gold: La grande truffa, film del 2016 diretto da Stephen Gaghan, è un film vivo e talvolta sconvolgente, un'avventura piena di torsioni e capovolgimenti che però, talvolta, si impantana nei dettagli. I personaggi sono fantastici, e al centro di questi c'è Matthew McConaughey che brilla in un ruolo che gli richiede di cambiare completamente il suo modo di vedere le cose. Non a caso il protagonista della vicenda è impulsivo e talvolta ingenuo, è innanzitutto un impavido visionario il cui oro simboleggia la possibilità stessa di sognare, di autodeterminarsi, oltre che di imprimere orgogliosamente il proprio nome su un successo, qualsiasi esso sia, ciò si contrappone all'usurata e avida versione utilitaristica del capitalista promossa ultimamente. Il punto nodale del film riguarda quindi non tanto l'inseguimento della ricchezza e l'inevitabile "roller coaster" finanziario connaturato al mondo borsistico (elementi comunque presenti), ma piuttosto l'innata propensione dell'uomo verso la scalata sociale, in barba alla matematica razionalità che il contesto affaristico richiederebbe. E in questo senso, l'istrionica performance di Matthew McConaughey risulta l'arma vincente di Gold: sopra le righe, l'interprete catalizza l'attenzione del pubblico oscurando di fatto i comprimari e spingendo le corde dell'umanità, con quel pizzico di retorica che però non disturba (secondo cui, per un vecchio detto popolare, chi trova un amico trova un tesoro). Si prova empatia per la passione messa in campo dall'eroe, a maggior ragione intuendo il pericolo in agguato (purtroppo incautamente anticipato dal sottotitolo italiano) ma il danno ormai è fatto. E' davvero troppo rivelatore infatti quel titolo italiano che aggiunge all'originale Gold un'informazione fondamentale, cioè che quella che stiamo vedendo è la storia di una truffa, un heist per dirlo all'hollywoodiana. È vero che, trattandosi di una storia vera, è possibile che qualcuno sappia già tutto, ma non si dovrebbe dare tanto per scontato. La scelta di inserire, in modo anche ridondante, un sottotitolo italiano può esser stato riconducibile a motivi di marketing: risulta inevitabile adesso pensare a film usciti prima di questo come La grande scommessa (2015), che raccontava il crollo delle borse del 2008. Filo rosso dell'intera campagna di promozione, poi, è un altro paragone, quello a The Wolf of Wall Street (Martin Scorsese, 2013), sebbene le due pellicole abbiano davvero poco a che fare l'una con l'altra.
martedì 2 ottobre 2018
Tommy Wirkola Filmography: Dead Snow (2009) & Dead Snow 2: Red vs Dead (2014)
Nel 2009 il norvegese Tommy Wirkola, all'epoca sconosciuto (nell'ultimo anno al cinema con il film Seven Sisters) dirige Dead Snow (Død snø), un'esilarante commedia horror con alto tasso di splatter e a base di zombie nazisti a cui seguirà, nel 2014, l'eccellente sequel Dead Snow 2: Red vs Dead, sempre dello stesso regista. Attingendo alla cinematografia horror anni '80 e anche a fatti storici che hanno coinvolto la Norvegia durante la Seconda Guerra Mondiale, Tommy Wirkola (che ha diretto anche Kill Buljo e il suo seguito, due avventure comiche chiaramente ispirate a Tarantino) porta in scena uno zombie movie incredibile popolato da cadaveri con uniforme nazista che, a differenza degli altri morti viventi cinematografici, non si cibano di carne umana e sono dotati di una forza straordinaria. Sepolti sotto la neve, questi feroci e veloci soldati tedeschi infatti emergono alla luce per difendere il loro tesoro trafugato. Queste le basi intorno a cui si evolve la storia dei due capitoli di questa stupefacente saga, che oltre appunto a presentare una nuova figura dello zombie, gode di altissimi livelli di splatter e gore ma non solo, riesce ad alternare umorismo nero a momenti di violenza e ferocia inaudite. Una cattiveria di fondo poi, presente in tutti e due i film, dona maggiore spessore al franchise. Un franchise appunto che si basa su una trama semplice, ma vincente, perché non vi è dubbio che la vicenda (in questo caso nel primo capitolo) si basi su quei canoni elementari che già fecero le fortune di Sam Raimi: la trama di Dead Snow, entità malefiche escluse, ha infatti inizialmente ben più di un punto in comune con la saga de La Casa (1981), citata anche in uno dei numerosi dialoghi cinefili di uno dei personaggi. Un gruppo di giovani più o meno stupidotti che si ritrova isolato dal mondo (anche i cellulari non hanno campo in questa baita di montagna) e che, dopo la mezzora iniziale atta a introdurci alle superficiali dinamiche interpersonali, si trova assalito da orde di zombie inferociti in numero sempre maggiore.
lunedì 1 ottobre 2018
Kingsman: Il cerchio d'oro (2017)
Quattro anni fa al cinema (due anni fa dalla mia visione), Matthew Vaughn aveva spiazzato un po' tutti con Kingsman: Secret Service, action scatenato tratto da un fumetto del Millaworld di Mark Millar e Dave Gibbons capace di svecchiare i film di spionaggio che negli ultimi tempi avevano cominciato a prendersi un po' troppo sul serio puntando sulla "credibilità" del contesto e sulla sofferenza dei protagonisti. Non solo. Legittimò l'allora astro nascente Taron Egerton e lanciò Colin Firth come "uomo d'azione" in uno dei ruoli più brillanti della sua carriera, in totale contrapposizione a quanto eravamo stati abituati in precedenza. Una vera e propria lettera d'amore del regista e sceneggiatore ai film della saga di James Bond, che Kingsman: Il Cerchio d'Oro (Kingsman: The Golden Circle) ha provato a controfirmare grazie anche a un incremento del budget, finendo però per sacrificare (come quasi sempre accade coi sequel) l'ingrediente che rese l'originale così interessante, ovvero l'effetto sorpresa, optando per dare di nuovo al pubblico quello che più o meno si pensava avrebbe dovuto (e voluto) aspettarsi. Non a caso se manca qualcosa a questo film del 2017, è probabilmente la capacità di stupire, perché quella di divertire è rimasta invece prerogativa assoluta di un brand che si è sempre caratterizzato da una fortissima personalità e dalla capacità di proporre una comicità sfrontata, seppur racchiusa nei perfetti abiti sartoriali di un atipico action-movie. Gli ingredienti fondamentali della commedia surreale furono infatti una scelta vincente pescata dal regista (che dopo Kick-Ass di surreale se ne intende eccome) dal suo ampio bagaglio. Inevitabilmente non potevano non essere riproposti per Kingsman: Il cerchio d'oro, tuttavia anche seguendo le orme del primo e impeccabile episodio, e riuscendo per questo ad essere addirittura più adrenalinico e bizzarro, questo sequel è meno efficace soprattutto dal punto di vista narrativo. Dura legge del cinema, il secondo è (quasi) sempre inferiore al primo, legge rispettata, questa volta. Se infatti quel film rivelazione (rivelazione che non poteva certo restare un unicum ed ecco perciò questa seconda adrenalinica avventura che permette agli eleganti agenti segreti in doppiopetto di tornare sul campo per fronteggiare una nuova minaccia ancora più pericolosa della precedente) riuscì a rivitalizzare, in modo assolutamente originale, il genere dello spy-movie, questo lo riutilizza solamente, lasciando nello spettatore uno strano sapore di "già visto".
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