Sono già passati tre anni da quando il "Gigante Buono" ci ha lasciati, parlo ovviamente di Bud Spencer, nostro compagno di gioco e scazzottate, che insieme al suo fidato scudiero Terence Hill, ha allietato la nostra infanzia e continua tuttora a regalarci momenti di svago assolutamente riconoscibile. Ebbene, a 90 anni dalla nascita dell'attore, dalla nascita di Carlo Pedersoli, History l'ha celebrato tramite un documentario (che ovviamente ho visto), intitolato Le mille vite di Bud Spencer. Un documentario che attraverso filmati di famiglia inediti, backstage esclusivi dei suoi film e interviste ai familiari ne ha raccontato la sua incredibile storia, passando attraverso curiosità poco note come il suo passato da imprenditore e pilota d'aerei. Lui che ha vissuto davvero mille vite diverse, anche se con il suo vero nome probabilmente ne ha vissuta solo una, quella più intima e familiare. Ed è quella di cui tratta, oltre a quella prettamente cinematografica, la suddetta emozionante finestra di approfondimento. E insomma è stato davvero bello conoscere certi aspetti che non conoscevo. Tuttavia, ancor più bello è stato, a distanza di un po' di anni dall'ultima volta, rivedere, grazie ad Italia Uno, che ne ha mandato in onda la Extended Version, Shining. A proposito di versioni e quant'altro (di director's cut per esempio), molti non gradiscono che si faccia ciò, ma io penso che se un film sia un capolavoro o un film cult, lo sia a prescindere dalla versione proposta, che questa poi sia nuova o vecchia agli occhi degli spettatori. Infatti, l'aura di film mitico, come è questa pellicola diretta dal maestro Stanley Kubrick ed interpretata magnificamente da Jack Nicholson, è rimasta intatta. Una pellicola certamente non perfetta come 2001: Odissea nello spazio, anche perché molti dubbi ancora lascia, soprattutto sul finale, ma è indubbio non dare a questo film d'atmosfera, musicalmente accattivante e dannatamente inquietante, i propri meriti. E infatti anche se non ha avuto il giusto spazio tra le mie recensioni (mancanza di posto nel calendario già prestabilito) l'avrà (insieme a tutti gli altri film antecedenti gli anni 2000 visti quest'anno) nelle classifiche finali. Perché appunto quest'ottimo film, che ha avuto un sequel in queste settimane (un'anteprima ho avuto grazie sempre ad Italia Uno, andata in onda alla fine del film), iconico come pochi, è fantastico.
venerdì 29 novembre 2019
giovedì 28 novembre 2019
I peggiori film del mese (Novembre 2019)
L'attenzione sui social è già poco alta, ho sbagliato forse a pensare che spingere il "lettore" alla curiosità (senza rimandare visivamente ai titoli facenti parte le liste) ne avrebbe alzata la soglia (in parte pure su blogger e in altri lidi), e così, come potete notare, il banner standard attivo negli ultimi mesi per le liste dei peggiori e degli altri film del mese, è stato sostituto da uno classico. D'ora in poi infatti, anche grazie ad un sito di collage più flessibile dei precedenti che utilizzavo, tutto tornerà all'origine, i banner torneranno ad essere diretti e "coinvolgenti". Un'altra novità è che da questo mese la lista dei film scartati ed evitati conterrà solamente i titoli (e senza rimandi linkati), praticamente non specificherò il motivo per cui ho deciso di non vedere (almeno fino a quando qualcuno mi fa cambiare idea o mi insinua il dubbio) un determinato film. Comunque al di là di tutto questo, ecco le peggiori visioni del mese.
Alla fine ci sei tu (Dramma, Usa 2018)
Tema e genere: Agrodolce commedia romantica sul senso del tempo e della vita.
Trama: La vita di Calvin (un ragazzo ipocondriaco, Asa Butterfield) viene stravolta quando incontra Skye (Maisie Williams) un'adolescente che soffre di una malattia terminale. La sua nuova amica lo assume per aiutarla a completare la sua lista di cose da fare prima di morire, una missione che lo costringerà ad affrontare le sue peggiori paure, e a vivere in maniera nuova l'innamoramento con la bella ma apparentemente instabile Izzy (Nina Dobrev).
Recensione: Alla fine ci sei tu è un film abbastanza intenso, toccante e commovente, da meritare apprezzamenti. Un film che non scivola (quasi) mai in inutili pietismi, evitando (quasi sempre) eccessi d'enfasi e retorica. Una storia quindi emozionante, divertente e commovente al contempo, inno all'amicizia e che celebra il senso profondo della vita. E' soprattutto, infatti, una storia di un'amicizia insolita e poco convenzionale, specie nel modo in cui scaturisce, in un malinteso di fatto e ancor più, si sviluppa, con diversi momenti simpatici, in cui fanno capolino i divertenti confronti-scontri, con i due poliziotti dal cuore tenero. Quanto più la pellicola procede, tanto più il film perde la sua connotazione leggera, collocando sullo sfondo il black humour della prima parte, acquisendo un tono decisamente più drammatico, facendo emergere l'aspetto introspettivo del racconto. Un racconto (di formazione) nel suo complesso godibile, perché discretamente tratteggiato e perciò capace di non annoiare né di lasciarsi andare a buonismi fastidiosi, dal buon impatto emotivo, ben interpretato e ben girato, che ci rammenta, come conti di più la qualità del tempo che abbiamo a disposizione, piuttosto che la sua durata. E quindi qual è il problema del film? E' che di originale ha ben poco, anzi, molte situazioni sembrano ricalcare quel gioiellino che era Quel fantastico peggior anno della mia vita, altre sembrano ricalcare i molti classici film di formazione della cinematografia statunitense degli ultimi anni, altre le classiche commedie romantiche giovanili. Insomma tutto già visto, e in misura forse migliore. Certo, ci sono alcune differenze, ma la base è quella, finale compreso. E così nonostante il film riesca ad intrattenere, e nonostante si lasci vedere, non riesce a distinguersi, risultando così solo un film sì carino ma facilmente (troppo facilmente) dimenticabile.
Regia/Sceneggiatura/Aspetto tecnico/Cast: Il cast mi è sembrato discreto, le interpretazioni convincenti (anche se Maisie Williams pare un po' spaesata, stessa cosa Asa Butterfield, che pare avere sempre la stessa espressione, e non è la prima volta, mentre Nina Dobrev è sempre bella e questo basta, gli altri invece nella media), la regia (firmata da Peter Hutchings, che non mi dice proprio niente) senza macchia, il ritmo degli eventi è fluido (le musiche in tal senso fanno il loro dovere) e i dialoghi alternano battute simpatiche con altre più portati all'emozionalità che un soggetto così deve avere nelle proprie corde. Un soggetto che però, se avesse avuto anche una punta di originalità, sarebbe forse risultato meno dimenticabile del previsto.
Commento Finale: Ormai il tema malattia terminale giovanile sta diventando un genere a parte, visti i tanti titoli che trattano gli stessi temi. Alcuni risultano piuttosto banali, altri invece più coinvolgenti e meno frivoli. Nel caso di Then Came You, possiamo parlare di una via di mezzo tra quella che è la poca originalità del soggetto con la capacità, comunque, di rendersi gradevole e spiritosa, in alcuni momenti. Tuttavia il ricorrere ad una certa (seppur inevitabile) retorica, unita alla non capacità di distinzione, non aiuta la pellicola a stare sulla soglia di galleggiamento.
Consigliato: No, se avete già visto film simili, sì se invece questa potrebbe essere la prima volta.
Voto: 5,5
mercoledì 27 novembre 2019
Le altre serie tv (Novembre 2019)
Guardando la prima stagione della serie Fox The Passage, si ha la sensazione di trovarsi di fronte ad un prodotto che strizza un po' l'occhio a TWD e un po' alla serie targata Guillermo del Toro The Strain. Un virus proveniente dalla Bolivia che trasforma le persone colpite in vampiri succhiasangue. Vampiri che possono comunicare sia tra loro che con le persone non infette. A combattere questa minaccia un team di scienziati che in questo virus sperava di trovare una cura definitiva a tutte le malattie. A guidarli sono il Dottor Jonas Lear (Henry Ian Cusick di Lost) e la dottoressa Nichole Sykes (Caroline Chikezie). Legati a questa vicenda sono anche i due protagonisti della serie, ovvero l'agente federale Brad Wolgast (Mark-Paul Gosselaar) e la giovanissima Amy Bellafonte (Saniyya Sidney). Il team di scienziati infatti dopo alcuni esperimenti su condannati a morte che per sfuggire all'esecuzione hanno deciso di fare da cavie per l'esperimento chiamato Noah iniettandosi il virus per studiarne gli effetti, ha trovato in Amy la possibile soluzione finale. Una persona molto giovane difatti potrebbe controllare l'effetto del virus in modo da limitarne/annullarne gli effetti collaterali. Saranno però alcuni effetti non considerati e la particolare abilità di coloro già infettati a rimettere tutto in discussione e a portare con sé gravi conseguenze per tutti. Virus, trasformazioni, mutazioni, cure e succhiasangue. Ecco gli ingredienti principali di The Passage. Tipici ingredienti, che vanno dall'horror al fantasy e al thriller, anche troppo tipici, perché anche se in questa prima stagione è però forte il fattore umano, quello dei legami tra i vari personaggi, in particolar modo quello che lega l'orfana Amy all'agente Wolgast, sconvolto da un passato familiare molto triste, quello tra Amy e uno degli infetti, lo scienziato Tim Fanning, personaggio chiave di questa stagione, e ultimo, ma non per importanza quello tra il collega di Wolgast, Clark Richards (Vincent Piazza) e un'altra cavia, la bionda sexy Shauna Babcock (Brianne Howey), tutto è stato già visto. E come se non bastasse ciò, a farla da padrone in questa serie dove almeno fortunatamente i vampiri non brillano come in Twilight (hanno la pelle liscia quasi fosse una guaina e somigliano un po' a quelle salamandre strane che si trovano nelle foreste pluviali, il loro vomitare sangue richiama invece altri vampiri già visti in televisione) è la prevedibilità, quest'ultima in aggiunta ad una dose massiccia di stupidità.
martedì 26 novembre 2019
Le mie canzoni preferite (Ottobre/Novembre 2019)
Nell'ultimo post musicale dell'anno, l'ultimo prima della classifica finale che premierà (per il secondo anno consecutivo) i migliori artisti musicali dell'anno corrente (suddetto post che tra poche settimane arriverà), c'è tanta carne al fuoco, dopotutto l'estate musicale è finita (soprattutto è finito il tempo dei tormentoni) ed è tempo di nuovi sound. Infatti Ottobre è cominciato e Novembre è quasi finito, e nuove sonorità si sono affacciate, tuttavia il grosso spetta ad artisti non di primo pelo, che son tornati prepotentemente. Volete sapere di chi sto parlando? Basta cliccare play qui (dove trovate come sempre la playlist completa) oppure ascoltarle una ad una tra due righe o poco più.
E' un omaggio sicuramente, e in quel modo dovrebbe essere visto il video e soprattutto essere ascoltata la canzone,
un interessante remix di Rhythm of the Night, che segna il ritorno dei The Black Eyed Peas
un interessante remix di Rhythm of the Night, che segna il ritorno dei The Black Eyed Peas
lunedì 25 novembre 2019
[Cinema] Fantascienza Vintage (Westworld, Brazil, Solaris, Stalker)
Ci sono film che si è visti ma che poi abbiamo dimenticato (non è questo il caso), e poi ci sono film che si conoscono anche senza averli visti. Con le dovute precauzioni (e di ciò dirò dopo) è questo il caso. Sì perché alcuni sono così famosi che basta nominarli per riconoscere immediatamente di cosa e di chi si sta parlando. Lo sanno bene chi di cinematografia conosce abbastanza, chi come me, da appassionato, è in grado di capirne la portata, in grado di coglierne l'essenza e di conoscerne la nomea. E infatti, questi quattro film di fantascienza scelti per esplicare (e concludere, è l'ultima della lista) la mia promessa cinematografica, sono quattro famosi film di fantascienza, quelli forse tra i più importanti del panorama di genere. Ma andiamo con ordine. Ho scelto di vedere Il mondo dei robot perché dopo aver visto Westworld la serie, mi sono accorto di non avere visto l'originale, in tal senso è giusto fare un riscontro tra i due prodotti, e così ho deciso di recuperarlo. Ho scelto di vedere Brazil, perché pur apprezzando Terry Gilliam, anche se i suoi ultimi lavori mi hanno lasciato un po' perplesso, non avevo ancora visto (pur conoscendone bene l'estetica e la sua natura) il suo film più celebrato, e così non ho perso questa occasione. Avevo già scelto a tempo debito di vedere Stalker di Andrej Tarkovskij, giacché ne avevo sempre sentito parlare, sapevo della sua esistenza (addirittura ne ho sempre colto gli omaggi o le citazioni), però non avevo approfondito, ma era giusto anche recuperare un altro famoso film di fantascienza del celebrato regista russo, un film che, reclamizzato come "La risposta della cinematografia sovietica a 2001: Odissea nello spazio" non avevo ancora visto. E il film è ovviamente Solaris, di cui credo di aver visto però il remake con George Clooney, quindi qualcosa già sapevo, tuttavia sempre ben altra cosa è vedere il materiale originale, e così anche questo film è entrato nel quartetto, nel quartetto di film sempre conosciuti ma mai visti (almeno non interamente) da me.
venerdì 22 novembre 2019
Your Name. (2016)
Tema e genere: Pensate che la vostra vita sia troppo monotona e vorreste trovarvi al posto di qualcun altro che pensate si trovi in una situazione migliore della vostra? Un modo esiste ed è Your Name., film d'animazione giapponese del 2016 scritto e diretto da Makoto Shinkai, tratto dal medesimo romanzo scritto dallo stesso regista del film.
Trama: Taki, liceale di Tokyo, e Mitsuha, la figlia di un sindaco di un paesino di montagna, un giorno scoprono che nel sonno sono finiti misteriosamente e miracolosamente l'uno nel corpo dell'altra e iniziano a comunicare tramite dei promemoria. Mentre goffamente superano le sfide che derivano da questa nuova e inedita situazione, tra i due nasce un legame d'amicizia che ben presto si trasforma in qualcosa di più romantico.
Recensione: Ecco un altro film di un regista giapponese ancora personalmente sconosciuto, come successo con The Boy and the Beast, e come in quel caso (di cui alla regia c'era Mamoru Hosoda) è sicuro che prossimamente recuperi i suoi precedenti lungometraggi d'animazione, ovvero 5 cm al secondo, Il giardino delle parole (quest'ultimo già in lista) e Viaggio verso Agartha (anche se su questo ho un dubbio se l'ho visto o meno), diretti tutti da Makoto Shinkai, ultimamente già nuovamente al cinema con Weathering with You (che ovviamente non mi perderò). E come in quell'occasione mi sono ritrovato a vedere un bel film d'animazione, anzi, di più, perché è una meraviglia per gli occhi e per il cuore l'opera di Shinkai. Un viaggio bellissimo, una ricerca continua dell'altro e contemporaneamente di sé, illuminata da immagini e disegni stupendi, scenografie mozzafiato degne dei migliori direttori della fotografia dei film su pellicola. E dire che, volendo essere gentili, il punto di partenza di Your Name. è quanto di più banale si possa trovare rovistando negli archetipi di anime e manga: il filo rosso del destino e lo scambio di corpi sono temi usati e abusati, per quanto questo film sia la dimostrazione che non ci stanchiamo mai delle vecchie storie, soprattutto se raccontate con garbo ed emozione. Ed è così anche qui, qui dove c'è più della storia d'amore tra adolescenti, c'è la ricerca della consapevolezza di sé stessi specchiandosi negli occhi e nella vita dell'altro e la rappresentazione di una forza unica che trascende ogni difficoltà e ogni dimensione spazio-temporale. L'aggiunta di una vena fantascientifica dona al film un'ulteriore dose di magia ma, e questo è l'unico difetto, lo rende a volte difficile da seguire e un po' troppo ingarbugliato. In ogni caso la scena finale è memorabile ed iconica e potrebbe rimanere impressa in mente per un bel po' di tempo (anche se una simile è rimasta già impressa da tempo, il primo emozionante incontro tra Johnny e Sabrina, se non sapete chi sono, vi tolgo il saluto). Ma andiamo con ordine.
giovedì 21 novembre 2019
[Games] Grid 2
Trama: Un magnate con la passione per le automobili veloci decide di creare una nuova lega, la WSR, dove far correre i migliori piloti del mondo. Il nostro compito è quello di sfidare i più grandi club al mondo per farli partecipare alla nuova lega. Per farlo, ci muoveremo nell'arco di tre stagioni, correndo per gli Stati Uniti, Europa e Asia, per poi partecipare infine ai campionati finali.
Recensione: Codemasters (società di cui racing game sono i loro cavalli da battaglia, è loro il ritorno alle origini del rally, avvenuto con l'ottimo Dirt Rally) ha da poco commercializzato il nuovo capitolo della saga, ma prima ha deciso di pubblicare GRID 2 (ovviamente la versione base) su Steam in modo totalmente gratuito, potevo quindi io non approfittarne? Assolutamente no, e infatti, il sequel di Race Driver GRID, il sequel di un gioco che all'epoca (2008) riuscì a rapire innumerevoli fan, non me lo sono fatto scappare. No perché, non solo tra quei fan c'ero anch'io, ma perché finalmente dopo un po' di tempo dall'ultima volta, mi sono ritrovato a giocare ad un gioco di corse totalmente arcade (il suddetto evita infatti qualsiasi forma di free-roaming, optando di fatto per un comodo menu dove andare a selezionare velocemente la sfida prescelta). Un gioco che si ripropone con gli elementi che caratterizzavano il primo capitolo ma con alcune differenze, e migliorie. Innanzitutto è il più classico canovaccio del tentativo di scalata al successo ad aprirci la porta (senza dubbio il più adatto alle avventure su quattro ruote), ad aprire la porta ad una struttura di gioco abbastanza semplice. Ogni piazzamento in gara porta fan. I fan (nel mondo di GRID 2 infatti non sono i soldi a farla da padrone ma la fama del pilota, fattore cumulabile portando a casa vittorie su vittorie e completando gli obbiettivi degli sponsor) hanno un ruolo importante, poiché più ne acquisiamo più sono gli eventi in cui possiamo partecipare. Le vetture più di 50, nessuna acquistabile. Infatti, l'unico modo per acquistare altre vetture, è quello di ottenerle tramite eventi speciali. Le macchine non possono essere modificate, né al motore né alla scocca, ma possiamo aggiungere decalcomanie e disegni sulle livree delle stesse. Ecco nuovamente invece il sistema del Flashback, infatti, tramite l'apposito tasto possiamo riavvolgere il tempo (molto utile nei casi in cui abbiamo un incidente o sbagliamo qualcosa). Possiamo usare il Flashback al massimo cinque volte, quindi bisogna dosarlo per bene durante l'arco della gara. La durata della carriera si attesta sulle 20 ore di gioco. L'Intelligenza artificiale dei piloti avversari (ognuno provvisto di nome e cognome) risulta efficiente, dando al giocatore un livello di sfida decisamente alto. Difatti i piloti si comportano in maniera realistica, cercando in tutti i modi di ostacolarci. Le location di gioco sono una dozzina o giù di lì, si va da Parigi alla Costa Azzurra, da Dubai a Barcellona.
Recensione: Codemasters (società di cui racing game sono i loro cavalli da battaglia, è loro il ritorno alle origini del rally, avvenuto con l'ottimo Dirt Rally) ha da poco commercializzato il nuovo capitolo della saga, ma prima ha deciso di pubblicare GRID 2 (ovviamente la versione base) su Steam in modo totalmente gratuito, potevo quindi io non approfittarne? Assolutamente no, e infatti, il sequel di Race Driver GRID, il sequel di un gioco che all'epoca (2008) riuscì a rapire innumerevoli fan, non me lo sono fatto scappare. No perché, non solo tra quei fan c'ero anch'io, ma perché finalmente dopo un po' di tempo dall'ultima volta, mi sono ritrovato a giocare ad un gioco di corse totalmente arcade (il suddetto evita infatti qualsiasi forma di free-roaming, optando di fatto per un comodo menu dove andare a selezionare velocemente la sfida prescelta). Un gioco che si ripropone con gli elementi che caratterizzavano il primo capitolo ma con alcune differenze, e migliorie. Innanzitutto è il più classico canovaccio del tentativo di scalata al successo ad aprirci la porta (senza dubbio il più adatto alle avventure su quattro ruote), ad aprire la porta ad una struttura di gioco abbastanza semplice. Ogni piazzamento in gara porta fan. I fan (nel mondo di GRID 2 infatti non sono i soldi a farla da padrone ma la fama del pilota, fattore cumulabile portando a casa vittorie su vittorie e completando gli obbiettivi degli sponsor) hanno un ruolo importante, poiché più ne acquisiamo più sono gli eventi in cui possiamo partecipare. Le vetture più di 50, nessuna acquistabile. Infatti, l'unico modo per acquistare altre vetture, è quello di ottenerle tramite eventi speciali. Le macchine non possono essere modificate, né al motore né alla scocca, ma possiamo aggiungere decalcomanie e disegni sulle livree delle stesse. Ecco nuovamente invece il sistema del Flashback, infatti, tramite l'apposito tasto possiamo riavvolgere il tempo (molto utile nei casi in cui abbiamo un incidente o sbagliamo qualcosa). Possiamo usare il Flashback al massimo cinque volte, quindi bisogna dosarlo per bene durante l'arco della gara. La durata della carriera si attesta sulle 20 ore di gioco. L'Intelligenza artificiale dei piloti avversari (ognuno provvisto di nome e cognome) risulta efficiente, dando al giocatore un livello di sfida decisamente alto. Difatti i piloti si comportano in maniera realistica, cercando in tutti i modi di ostacolarci. Le location di gioco sono una dozzina o giù di lì, si va da Parigi alla Costa Azzurra, da Dubai a Barcellona.
mercoledì 20 novembre 2019
Valhalla Rising - Regno di sangue (2009)
Tema e genere: All'epoca settimo film (terzo in lingua inglese) di Nicolas Winding Refn, Valhalla Rising è la sanguinosa allegoria di un dio, un viaggio epico drammatico metafisico.
Trama: Anno 1000 d.C. - Dopo essersi liberato dalla prigionia cui un gruppo di pagani lo costringeva, Oneye (Mads Mikkelsen), un guerriero muto e dalla forza strabiliante, accompagnato da un giovane ragazzo che parla al posto suo, si imbatte in un gruppo di cristiani. Li seguirà verso la "Terra Santa", percorrendo il suo tragitto verso il destino, verso dissidi interni che ci saranno e pericoli esterni che arriveranno.
Recensione: Non mi aspettavo un film d'azione, avendo visto altri film del regista svedese sapevo di potermi trovare di fronte qualunque cosa (anche se la trama può indurre in errore). Ma mai mi sarei aspettato di ritrovarmi (dopo precedenti non propriamente convincenti, suoi, non lo era forse anche il deludente The Neon Demon?, e soprattutto di altri) nuovamente di fronte ad un film criptico, di fronte ad un film difficile da valutare, perché appunto particolare, con un finale decisamente ermetico e difficile da comprendere totalmente. Sì perché con Valhalla Rising siamo dalle parti del criptico, del poco comprensibile, del difficile. Ci si ritrova (e non scherzo) a grattarsi la testa per capire dove il regista vuole andare a parare. Valhalla Rising è infatti quel tipo di film in cui per quasi tutta la durata non si parla, quello che si dice è poco interessante o quanto meno interpretabile (diviso in sei atti, i dialoghi sono quasi del tutto assenti e la narrazione è affidata tutta all'espressività degli attori), e in cui la maggior parte delle scene d'azione risultano più che altro volte a ridestare l'attenzione del pubblico. Incredibile, non è vero? E' pensare che poi il film realmente narra ciò di cui sopra (intendo la trama). Il regista danese Nicolas Winding Refn trova grande ispirazione nelle atmosfere e nelle ambientazioni nordiche. Gioca con la fotografia (davvero ben realizzata), suggerisce visioni di tipo biblico. Si fa violento, inoltre, attraverso la musica e il sangue (che scorre a fiumi), ma lascia al pubblico l'ultima parola. Difficile capire cosa vorrebbe dire di preciso il regista, e comunque difficile spiegarlo a parole. E forse, per renderlo al meglio si potrebbe suggerire (a chi abbia voglia di vederlo, anche se in questo caso il target è innegabilmente ristretto) di leggere direttamente la Bibbia o le leggende nordiche a cui tutto il film si ispira. Tutto il resto è una specie di delirio visivo dannatamente cupo, criptico in modo testardo e oltretutto lentissimo. Un film che forse bisognerebbe vedere due volte, per capirci realmente qualcosa.
martedì 19 novembre 2019
The Handmaid's Tale (3a stagione)
Tema e genere: Terza stagione per la distopica (drammatica) serie di produzione Hulu tratta dal romanzo Il Racconto dell'Ancella di Margaret Atwood.
Trama: June ha messo al sicuro sua figlia Nichole in Canada insieme all'amica Emily, ma è rimasta a Gilead per cercare di salvare anche la sua prima figlia, Hannah. La situazione a casa Waterford prevedibilmente precipita e June viene affidata a un nuovo comandante, Joseph Lawrence, lo stesso che aveva avuto in affidamento Emily. Lawrence è stato un importante ideologo del regime e tutt'ora riveste una posizione di grande potere, anche se in realtà nutre grandi sensi di colpa. La sua prima preoccupazione però non è la propria coscienza, bensì la salute della moglie, sull'orlo della follia. Nel mentre Serena Waterford inizia a tessere il proprio piano per riavvicinarsi a Nichole.
Recensione: La terza stagione di The Handmaid's Tale si riconferma come uno show di grande effetto e di grande impatto, sia sul piano contenutistico sia sul piano estetico (Gilead è ancora lì, sui piccoli schermi, e da lontano ci osserva, ci minaccia e ci inquieta). Questa stagione infatti (disponibile su TimVision), è il perfetto terzo atto di un racconto la cui evoluzione rispecchia sempre di più i nostri tempi. La prima stagione dell'acclamata serie Hulu aveva colpito per il mondo distopico che era riuscita a portare in scena: dal libro di Margaret Atwood (che a quanto pare starebbe lavorando ad un sequel letterario) alla serie tv, The Handmaid's Tale aveva scosso l'opinione pubblica, acceso dibattiti e fatto pensare che non sarebbe stato possibile essere ancora più cupi. La smentita è arrivata con la seconda stagione, sicuramente non perfetta ma non una passeggiata dal punto di vista emotivo, che è servita a porre le basi per il terzo atto rappresentato, appunto, dalla terza stagione. Se nella seconda stagione la protagonista, ormai chiamata definitivamente con il suo nome di battesimo e non da Ancella, ha affrontato una gravidanza, la rassegnazione e quindi il distacco dalla figlia appena nata, nella terza deciderà di alzare la testa (non è un caso che il suo sguardo ora sia decisamente ben differente da quello che sì è conosciuto). The Handmaid's Tale 3 è difatti la stagione della rivolta, tanto auspicata nelle prime due stagioni ma vista ancora da lontano. Ora, invece, è arrivato il momento di passare dalle parole ai fatti: la prima a pensarla così è proprio la protagonista, che sceglie di non scappare in Canada e salvarsi, ma di affidare la figlia ad Emily (Alexis Bledel) e di restare a Gilead per combattere il nemico dall'interno. Ad aiutarla, oltre ad alcune Ancelle ribelli, anche un insolito alleato, il Comandante Joseph Lawrence (Bradley Whitford), ed alcune Marte.
lunedì 18 novembre 2019
Se la strada potesse parlare (2018)
Tema e genere: Adattamento cinematografico del romanzo del 1974 Se la strada potesse parlare, scritto da James Baldwin.
Trama: Tish e Fonny si amano, lei rimane incinta e lui viene arrestato per un reato che non ha commesso.
Recensione: Se solo potessero parlare, se potessero vedere tutto quel che accade, cosa potrebbero raccontare le strade di Harlem? Forse che finché esisterà un'ingiustizia cieca, un'ignobile intolleranza e un meschino ingranaggio che crea vittime innocenti, la bellezza non basterà a salvare il mondo. Se la strada potesse parlare è uno di quei film che, in sospeso in un dramma familiare, pennellano ed accarezzano la visione con una storia d'amore semplice, tanto essenziale quanto il contesto in cui prende vita. Tra fotografie storiche alla Spike Lee (a tal proposito analogamente al suo ultimo lavoro, BlacKkKlansman, con cui condivide la forma intessuta di immagini di repertorio, è anche un film di denuncia sociale che si propone di sensibilizzare il pubblico sul tema della discriminazione razziale in USA, facendo in modo che si immedesimi nel dramma quotidiano dei suoi protagonisti: una coppia che vede spezzati i suoi progetti di vita matrimoniale a causa dei pregiudizi culturali), estremizzazioni cristiane ed una clandestinità a cielo aperto, Barry Jenkins (artefice del più che discreto Moonlight pochi anni fa), ci descrive una rarefatta Harlem, dove la rivendicazione sociale, ancorché politica, è tanto presente da contagiare una giovane coppia, il cui unico errore fatale è stato difendersi da un assalto mentre compravano delle sigarette (forse troppo rarefatta e un po' troppo melodrammatica, seppur l'ambientazione gli anni settanta delle tensioni a seguito dell'abolizione delle leggi razziali e della pena di morte ancora ampiamente diffusa, è fondamentale ai fini del dramma). L'intera vicenda si articola intorno al giovane ventiduenne "Fonny", a cui da la vita Stephan James, e ad una aggraziata quanto resiliente "Tish", interpretata da KiKi Layne. Una storia di coppia il cui arco trova origine nell'ingenuità dell'infanzia che, poco a poco, subisce un'evoluzione dettata dal destino, nella semplice affermazione di un sentimento che è sempre stato lì in attesa, e che dovrà aspettare aldilà di un vetro per parecchio tempo ancora.
venerdì 15 novembre 2019
The Disaster Artist (2017)
Tema e genere: Tratto dall'omonimo romanzo di Tom Bissell e Greg Sestero, questo film biografico/drammatico (candidato agli Oscar per la migliore sceneggiatura non originale e diretto ed interpretato da James Franco) racconta la storia vera, e tragicomica, della creazione di The Room, una delle pellicole più derise della storia del cinema, un capolavoro trash che ebbe un pesante insuccesso in sala ma che, negli anni, è diventato uno (s)cult imperdibile.
Trama: La strana ma vera storia dell'amicizia tra gli attori Greg Sestero e Tommy Wiseau, che insieme realizzarono The Room, film all'unanimità considerato come il peggiore della storia del cinema.
Recensione: Qual è il film più brutto della storia del cinema? Guardando all'Italia c'è parecchia scelta, uno potrebbe essere per esempio un certo film interpretato da Alberto Tomba, quelli che se ne intendono dicono invece che sia stato The Room (che non ho visto e in verità non so se mai vorrei vederlo, è troppo anche per me che seguo il cinema trash), il film che Tommy Wiseau realizzò agli inizi degli anni 2000, vicenda rocambolesca ricostruita in The Disaster Artist. Un film decisamente strano ma stupefacente, un film in cui c'è James Franco, c'è Seth Rogen, c'è comicità, elementi incredibili al limite dell'assurdo, tuttavia dannatamente veri. Si perché The Disaster Artist, basato appunto sull'omonimo libro di Greg Sestero, si ispira alla vera storia della lavorazione del film The Room, un film talmente brutto da essere entrato nel mito. E così sulla falsariga di altri titoli simili quali Ed Wood e Bowfinger, il film di Franco ci racconta un personaggio eccentrico (un genio visionario o un semplice folle sfigato? a questa domanda non viene data risposta, ma è facile propendere per la seconda ipotesi) e la sua idea di realizzare un film nonostante la totale incompetenza. The Disaster Artist è, quindi, un film nel film, ma è anche la storia d'amicizia tra due uomini, il giovane e sprovveduto attore Greg Sestero (interpretato benissimo dal fratello del regista, il comunque già navigato Dave Franco) e il misterioso e strambo Tommy Wiseau (di lui ancora oggi non si conoscono luogo di nascita, età e provenienza del suo inestimabile patrimonio). Di sicuro però non è un film che vuole fare il verso a quel "stravagante" film, anzi, The Disaster Artist è il mezzo con cui James Franco elude la bruttezza di quel film per indagare sulla sua realizzazione, su come un iniziale entusiasmo produttivo si sia trasformato in un disastro senza pari e, ancor di più, su cosa può essere passato per la testa a Tommy Wiseau (qui interpretato splendidamente dallo stesso Franco) durante tutti quei giorni.
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giovedì 14 novembre 2019
[Cinema] The Conjuring Universe
E' stato probabilmente cinque anni fa quando vidi The Conjuring - L'evocazione, quando non faceva parte di qualcosa di più grande venuto dopo, poi non so perché ma non ho più seguito il "filo del discorso", ho rimandato e rimandato, però dopo 5 film, e grazie alla Promessa, ho potuto finalmente riprenderlo (ripartendo dall'inizio). Ed è così che ho visto i primi capitoli di questa particolare ed agghiacciante saga, denominata successivamente come il "The Conjuring Universe", che è forse una delle saghe horror più di successo degli ultimi anni. Da The Nun ai racconti della vita dei coniugi Ed e Lorraine Warren, tutti i film della serie includono sia eventi storici realmente accaduti, che verità e idee completamente inventate. I vari capitoli sono disseminati di sacrilegi, sedute spiritiche e elementi soprannaturali che possono benissimo funzionare come storie indipendenti, ma che in realtà sono tutte meticolosamente intrecciate (anche se la sensazione che qualcosa non torni c'è ugualmente), attraverso le storie di bambole di porcellana, suore e persino uno zootropio di stagno d'epoca. Cominciato nel 2013 con The Conjuring (appunto) di James Wan (che è rimasto come produttore esecutivo di tutti gli episodi successivi), il The Conjuring Universe ha preso il via dal racconto della vita di Ed e Lorraine Warren, una coppia di Monroe, in Connecticut, realmente vissuta e che ha dedicato la sua vita ad investigare sugli eventi soprannaturali. Le loro indagini hanno permesso all'universo cinematografico di espandersi (è tuttora in espansione), introducendo diversi personaggi demoniaci (che pian piano faranno il loro debutto in singolo). Ma i vari episodi della saga non sono mai usciti nelle sale secondo un ordine cronologico preciso. Ed è questo forse l'unico difetto di questa saga, giacché tra spin-off, sequel e prequel ogni tanto ci si perde, proprio perché tutti i capitoli sono uno collegato con un altro o gli altri. In tal senso fa specie che La Llorona - Le lacrime del male (che ovviamente devo ancora vedere, come Annabelle 3, entrambi usciti quest'anno) sia entrato in questo universo cinematografico quasi per caso. Tuttavia alcuni pregi notevoli questa saga ha, soprattutto uno, ed è indubbiamente quello di andare (quasi sempre) oltre la media del genere e dei suoi simili (che si attestano intorno alla mediocrità o giù di lì). Però a tal proposito si spera che non allunghino troppo il discorso, per non depauperare ulteriormente (giacché la base è sempre quella) un mercato già logoro di suo, anche se appunto qui la qualità e quantità è migliore. In ogni caso ecco cosa ne penso io di capitolo in capitolo, visti e recensiti in ordine di uscita.
mercoledì 13 novembre 2019
Widows - Eredità criminale (2018)
Tema e genere: Un heist movie declinato al femminile che ha come punti cardine la miseria umana e la sete di potere. Ma è anche un thriller drammatico, purtroppo però sin troppo smaccato e dalla tesi prevedibile per convincere minimamente.
Trama: A Chicago quattro donne, rimaste vedove dopo l'uccisione dei rispettivi mariti, si uniscono per scampare da debiti e minacce, e organizzano una rapina.
Recensione: Una Chicago attuale ma colma di irregolarità governative, stile Capone d'annata (dove il 18° distretto diventa l'oggetto dei desideri di due sponde, nessuna delle quali dedita a legge e onestà, nessuna delle quali presumibilmente avulsa di quattrini), è la location della quale si serve Steve McQueen per adattare, cinematograficamente parlando, l'omonima (e anonima) serie tv degli anni '80, aiutato dalla sceneggiatura di Gillian Flynn, non una qualunque, già scrittrice del romanzo Gone Girl e poi sceneggiatrice della trasposizione cinematografica diretta da David Fincher, ma non basta, tremenda delusione. Perché certo, non si può dire che manchi il materiale narrativo, in questo guazzabuglio convulso, serioso ed altamente improbabile che segna il ritorno in regia di Steve McQueen, un cineasta fino ad ora assai apprezzato con Shame, Hunger e soprattutto 12 Anni Schiavo, pellicole notevoli in grado di azzerare quasi la sua iniziale imbarazzante omonimia provocata dal suo nome "impegnativo", qui alla sua prima clamorosa débâcle (almeno secondo il presente punto di vista), ma molte, troppe, sono le cose che qui non funzionano: a partire dalla costruzione dei personaggi, concatenati l'un l'altro da un filo di combinazioni e probabilità assurdi. I due, anzi tre (c'è pure il grande vecchio Robert Duvall) politici coinvolti nella sporca vicenda sono così laidi, beceri e corrotti da apparire come caricature quasi comiche, Liam Neeson, marito della protagonista Viola Davis, è un delinquente incallito ed impenitente, ma viene celebrato al funerale con gli onori che si riservano ad un eroe nazionale, la coppia tra l'altro si scopre afflitta in precedenza da un grave lutto da intolleranza razziale (che accozzaglia incontrollata di carne sul fuoco..) mai elaborato che ha finito per dividerli, ancora, come se non bastasse, il colpo messo a segno comporta tutta una serie di circostanze "ad orologeria" tanto fantasmagoriche ed improbabili, che pare trovarci in un film di fantascienza, tanto risultano campate per aria le vicissitudini delle quattro serissime donne coinvolte, casalinghe frustrate e al verde a causa degli scellerati consorti.
martedì 12 novembre 2019
Euphoria (1a stagione)
Tema e genere: Scritta e diretta da Sam Levinson e prodotta dal rapper Drake, Euphoria è l'adattamento dell'omonima versione israeliana andata in onda tra il 2012 e il 2013. Siamo di fronte a un teen drama spregiudicato e a tinte forti pensato per un pubblico adulto, che tocca diverse tematiche complesse. C'è il tema della dipendenza, della sessualità, ci sono le dinamiche genitori/figli, la depressione e la malattia mentale.
Trama: Senza entrare troppo nel dettaglio (per evitare di fare spoiler, anche se poi è facile intuire alcune storie), Euphoria racconta semplicemente le vicende di un gruppo di liceali alle prime armi con droghe, sesso, identità, traumi, amore e amicizia.
Recensione: Primo teen drama di HBO, la serie Euphoria racconta le nuove generazioni in maniera schietta, a volte anche cruda ed estrema, con immagini esplicite dal contenuto sessuale o violento che non la rendono adatta, a dispetto del genere, agli adolescenti o giù di lì. Euphoria (trasmessa in Italia per intero da Sky Box e a puntate su Sky Atlantic da settembre scorso) parla infatti (senza filtri) di droghe, relazioni tossiche, rapporti familiari complicati, depressione e sessualità senza edulcorazioni. Nonostante i personaggi abbiano tra i sedici e i diciotto anni non ci sono prime volte, o sono rare, perché gli adolescenti protagonisti hanno già provato quasi tutto. Ogni puntata si apre con la presentazione di uno di loro, offrendo una panoramica dell'infanzia e della famiglia. Un quadro che evidenzia spesso un trauma in grado di spiegare, almeno in parte, perché sono diventati quelli che sono. Tutto viene filtrato dalle parole di Rue, narratrice e protagonista principale, interpretata dall'attrice Zendaya, nota finora per aver preso parte a prodotti di tutt'altro genere, a cominciare dagli show targati Disney fino all'approdo al cinema con Spider-Man - Homecoming e poi con il musical The Greatest Showman. La serie comincia proprio con la sua storia: la giovane soffre di attacchi di panico sin da bambina e ha cominciato presto a fare uso di droghe. Tale situazione si è aggravata al punto da costringerla a trascorrere l'estate in un rehab dopo essere entrata in coma per un'overdose. Le dipendenze che Euphoria affronta però non sono soltanto quelle da sostanze stupefacenti, riguardano anche la sfera emotiva, legate alla voglia di primeggiare, non deludere le aspettative e al desiderio, che si rivela illusione, di avere il controllo sugli altri e su se stessi. E però non seguiamo solo le vicende di Rue e della sua nuova "amica" Jules (una giovane transgender appena trasferitosi). Euphoria si sofferma puntata dopo puntata sulle storie degli altri protagonisti: facciamo così la conoscenza di Nate e di suo padre Cal, di Maddy, di Cassie e di Kat. I loro percorsi e le loro storie si intrecciano con quella di Jules e Rue. Festa dopo festa, dramma dopo dramma, vediamo l'amicizia tra le due crescere e le protagoniste cambiare, evolversi, avvicinarsi e allontanarsi con gli alti e bassi tipici dell'adolescenza. Parallelamente partecipiamo alle storie degli altri protagonisti, in un'altalena di emozioni che culmina in un finale aperto che getta le basi per la seconda stagione. Perché Rue è sì la figura centrale e a lei viene riservato un po' più di spazio, ma riusciamo a conoscere tutti i protagonisti, tramite un approfondimento psicologico importante (gli adulti sono nel migliore dei casi inutili, nel peggiore dannose e pericolose per i ragazzi che appaiono fragili e soli), e tramite problematiche diverse. Appunto, ciascuno di loro, nella propria storyline, porta avanti una tematica, una problematica specifica. È il modo migliore per perseguire l'intento di tracciare il quadro (certo, non universale) di una generazione (anche se poi non si sa quanto può essere davvero verosimile tutto quello che si vede).
Recensione: Primo teen drama di HBO, la serie Euphoria racconta le nuove generazioni in maniera schietta, a volte anche cruda ed estrema, con immagini esplicite dal contenuto sessuale o violento che non la rendono adatta, a dispetto del genere, agli adolescenti o giù di lì. Euphoria (trasmessa in Italia per intero da Sky Box e a puntate su Sky Atlantic da settembre scorso) parla infatti (senza filtri) di droghe, relazioni tossiche, rapporti familiari complicati, depressione e sessualità senza edulcorazioni. Nonostante i personaggi abbiano tra i sedici e i diciotto anni non ci sono prime volte, o sono rare, perché gli adolescenti protagonisti hanno già provato quasi tutto. Ogni puntata si apre con la presentazione di uno di loro, offrendo una panoramica dell'infanzia e della famiglia. Un quadro che evidenzia spesso un trauma in grado di spiegare, almeno in parte, perché sono diventati quelli che sono. Tutto viene filtrato dalle parole di Rue, narratrice e protagonista principale, interpretata dall'attrice Zendaya, nota finora per aver preso parte a prodotti di tutt'altro genere, a cominciare dagli show targati Disney fino all'approdo al cinema con Spider-Man - Homecoming e poi con il musical The Greatest Showman. La serie comincia proprio con la sua storia: la giovane soffre di attacchi di panico sin da bambina e ha cominciato presto a fare uso di droghe. Tale situazione si è aggravata al punto da costringerla a trascorrere l'estate in un rehab dopo essere entrata in coma per un'overdose. Le dipendenze che Euphoria affronta però non sono soltanto quelle da sostanze stupefacenti, riguardano anche la sfera emotiva, legate alla voglia di primeggiare, non deludere le aspettative e al desiderio, che si rivela illusione, di avere il controllo sugli altri e su se stessi. E però non seguiamo solo le vicende di Rue e della sua nuova "amica" Jules (una giovane transgender appena trasferitosi). Euphoria si sofferma puntata dopo puntata sulle storie degli altri protagonisti: facciamo così la conoscenza di Nate e di suo padre Cal, di Maddy, di Cassie e di Kat. I loro percorsi e le loro storie si intrecciano con quella di Jules e Rue. Festa dopo festa, dramma dopo dramma, vediamo l'amicizia tra le due crescere e le protagoniste cambiare, evolversi, avvicinarsi e allontanarsi con gli alti e bassi tipici dell'adolescenza. Parallelamente partecipiamo alle storie degli altri protagonisti, in un'altalena di emozioni che culmina in un finale aperto che getta le basi per la seconda stagione. Perché Rue è sì la figura centrale e a lei viene riservato un po' più di spazio, ma riusciamo a conoscere tutti i protagonisti, tramite un approfondimento psicologico importante (gli adulti sono nel migliore dei casi inutili, nel peggiore dannose e pericolose per i ragazzi che appaiono fragili e soli), e tramite problematiche diverse. Appunto, ciascuno di loro, nella propria storyline, porta avanti una tematica, una problematica specifica. È il modo migliore per perseguire l'intento di tracciare il quadro (certo, non universale) di una generazione (anche se poi non si sa quanto può essere davvero verosimile tutto quello che si vede).
lunedì 11 novembre 2019
Black Mirror: Bandersnatch (2018)
Tema e genere: Scritto da Charlie Brooker e diretto da David Slade, pensato come parte del franchise di Black Mirror, Bandersnatch è un film interattivo (cioè un'opera che permette al suo spettatore di scegliere l'avventura che il protagonista sarà costretto a vivere) di Netflix. Un film che, come in quasi tutti gli episodi della serie, ci rapporta con la visione pessimista e decedente della tecnologia e della modernità.
Trama: 1984. Il giovane programmatore britannico Stefan Butler sta progettando di trasformare in un videogame il libro fantasy Bandersnatch. Man mano che procede la sua stessa realtà comincia a farsi via via più aggrovigliata.
Recensione: Dal 2011, la serie antologica britannica Black Mirror continua a portare ansie e paure contemporanee sui nostri schermi, mascherandole con tinte distopiche. E li riporta anche questa volta, tramite un film particolare, tramite un film interattivo (che, in alcuni punti, lascia decidere allo spettatore la direzione in cui far proseguire la trama) ma non innovativo, i primi librogame che hanno adottato questa "tecnica" risalgono ad oltre 30 anni fa e da un decennio a questa parte la cosa si è evoluta ulteriormente nei videogiochi, con la nascita di titoli come Life is Strange o il The Walking Dead della Telltale che hanno lasciato un segno importante nel settore, per la tv però si tratta di un terreno ancora poco esplorato (anche se per Netflix a quanto pare non è questa la prima volta). Black Mirror: Bandersnatch infatti, anche se discostato sul piano tecnico, è parte in tutto e per tutto dell'universo che abbiamo imparato a conoscere, così come anche i temi trattati sono fortemente legati alla tecnologia (passata o presente che sia). Rimangono abbastanza intatte, inoltre, le atmosfere paranoiche e destabilizzanti (e in questo senso non si rimane delusi). Ispirato in parte da vicende reali (come lo sviluppo di un videogioco mai pubblicato dal nome, appunto, Bandersnatch) e altre totalmente fittizie, questo film interattivo vede come protagonista Stefan Butler, un giovane sviluppatore "casalingo" alle prese con la creazione di un videogioco per l'epoca avveniristico. Il progetto però si rivela sempre più impegnativo man mano che si avvicina la data di consegna ed il ragazzo, che ha già problemi di suo ed è seguito da una dottoressa, comincia a perdere gravemente il senno. Ed è così che inizierà a dipanarsi il filone narrativo principale, che riserverà non poche sorprese, che si diramerà in tante biforcazioni, che decideremo noi. A tal proposito una importantissima nota, non avendo Netflix non ho potuto scegliere io, sì perché paradossalmente è stato qualcun altro a farlo per me, infatti ho semplicemente visto le scelte compiute da non saprei chi (forse dalle scelte predefinite della piattaforma streaming?), che mi ha portato comunque a vedere tutti i possibili finali. E mi sono sentito come in parte si sente anche il protagonista del film, con la sensazione di non aver il controllo delle sue azioni. In tal senso ciò che il film vuole proporci per gran parte della sua durata è una riflessione sul libero arbitrio, con alcune digressioni sui viaggi nel tempo e le realtà parallele, e in parte vi riesce.
venerdì 8 novembre 2019
La città incantata (2001)
Tema e genere: Film d'animazione che, liberamente ispirato al romanzo fantastico Il meraviglioso paese oltre la nebbia della scrittrice Sachiko Kashiwaba, scritto e diretto da Hayao Miyazaki, narra le avventure di Chihiro, una bambina di dieci anni che si introduce senza rendersene conto, insieme ai genitori, in una città incantata abitata da yōkai (spiriti). Qui i genitori della bambina vengono trasformati in maiali dalla potente maga Yubaba e la piccola protagonista decide di rimanere nel regno fatato per tentare di liberarli.
Trama: Una bambina di dieci anni, durante il viaggio che la porterà alla sua nuova casa, giunge ad una città popolata di fantasmi. Chihiro, per sopravvivere, dovrà rendersi utile lavorando.
Recensione: Siamo in molti a considerare Hayao Miyazaki uno dei più bravi cineasti d'animazione, nonché fumettista, sceneggiatore e produttore giapponese, fondatore dello Studio Ghibli insieme al collega Isao Takahata. La sua particolare sensibilità verso il mondo dell'infanzia la si può apprezzare nei numerosi film che prediligono temi tanto cari al divenire adulto. Il mio vicino Totoro, Ponyo sulla scogliera, Kiki - Consegne a domicilio, Laputa - Castello nel cielo rappresentano il mondo dell'infanzia, bambini che si preparano a capire le avversità del mondo (e anche questa pellicola, proprio come gli altri film che lo hanno preceduto e che lo hanno seguito, pone al centro della propria narrazione una figura a metà strada tra l'infanzia e l'adolescenza, un essere in divenire che deve ancora capire quale sia la strada da intraprendere, e che ovviamente troverà il suo posto nel mondo). La città incantata (titolo originale "Sen to Chihiro no Kamikakushi"), premio Oscar 2003 (ad oggi l'unico cartone animato giapponese a cui è stato assegnato un Academy Award come miglior film d'animazione), è un vero capolavoro di arte cinematografica d'animazione, in cui la forte sinergia tra i mezzi di comunicazione che Miyazaki usa, crea una vera e propria cultura visiva del genere, con una sintassi ricca di unità crescenti di segni e simbologie che caratterizzano il cinema del cineasta nipponico, che in questo film (che ha più contributo al successo mondiale del suo creatore, che aiuta tutt'oggi a sdoganare i pregiudizi sull'animazione giapponese) trova forse il suo manifesto massimo. Ne La città incantata, infatti, ricorrono tutti quegli elementi che hanno rappresentato una sorta di status quo nella produzione del regista e che ne hanno formato in qualche modo non solo lo stile, ma anche (e soprattutto) la poetica. Da una parte la condanna allo sfrenato consumismo, che in questo caso viene simboleggiato palesemente dalla trasformazione degli ingordi genitori in maiali senza senno, dall'altra l'inno sempre presente alla natura, che in questa pellicola assume come sempre un ruolo avvolgente, quasi allucinatorio. Allucinatorio non a caso, travestito da fiaba per bambini, una grandissima fiaba, e nel miglior senso del termine, di quelle che quando sei bambino ti fanno innamorare per l'ambientazione magica e pittoresca, ma allo stesso tempo ti spaventano per via di una serie di inquietanti avvenimenti che non ti lasciano certo indifferente, ma che ti aiutano ad esorcizzare le tue paure (come quelle della protagonista che imparerà a comportarsi da adulta ed abbandonare tutti i suoi vizi più fastidiosi e le convinzioni sbagliate), questo racconto si rivela difatti altamente allegorico, nonostante ciò, si dimostra adatto a tutte le fasce di età, grazie proprio ad una narrativa interpretabile su più piani di lettura.
giovedì 7 novembre 2019
Il livello della commedia italiana moderna (Test terzo)
E mi ritrovo nuovamente a distanza di un anno (qui il test secondo e qui il primo esperimento) a tastare il polso alla commedia italiana, anche in questa occasione infatti, ho sfruttato le visioni che Sky ha proposto ai suoi abbonati in ambito commedie nazionali, anche se in verità ho semplicemente preso ad esempio le commedie che non avevo ancora visto e che avevo registrato sul mio MySky, per vedere se qualcosa fosse cambiato. Ebbene proprio no, non c'è due senza tre, anche questa volta difatti, una commedia su 4 riesce nel suo intento (come potrete vedere dalle mie recensioni), solo una commedia riesce a raggiungere la sufficienza piena (di più è alquanto raro), tuttavia le altre tre, a parte una da "rimandare", da bocciare non sono e bruttissime non sono. Ma per sapere di quali commedie sto dicendo vi basta leggere, però prima è utile e necessario analizzare un po' la situazione attuale e quella scaturitasi dopo la visione di queste quattro pellicole, che una cosa hanno in comune, sono tutte di stampo grottesco, ovvero surreali, stravaganti e paradossali, ma che appunto non tutte con lo stesso risultato. Allora, innanzitutto bisogna dire che finalmente qualcosa sta cambiando, le banalità e volgarità sono in diminuzione (seppur in verità tante le ho evitate quest'anno di questo stampo), e sempre più produzioni puntano sull'originalità. Purtroppo non tutte riescono nei loro intenti, ma almeno ci provano ed è già tanto. Poi da dire c'è che nonostante tutta questa mediocrità ancora latente, perché alcune commedie italiane viste quest'anno (e finora) non mi hanno convinto, a parte il pessimo (personalmente parlando, a tal proposito tutto è a "titolo" personale) Addio fottuti musi verdi, piccole delusioni da A casa tutti bene e Beata Ignoranza, grandi da Bentornato Presidente, ci sono state alcune belle sorprese, piccoli cadeau da Metti la nonna in freezer, Tutto quello che vuoi, In guerra per amore e soprattutto Orecchie, grandi da Easy - Un viaggio facile facile e Morto Stalin, se ne fa un altro. Insomma non tutto è da buttare, anche se poi delle commedie che si producono ultimamente ne vedo probabilmente un terzo, forse meno. In ogni caso spero di vederne di buone più spesso. Ma concludendo la mia analisi è giusto anche fare i "nomi" alle cose positive scaturite da queste pellicole, ricordate chi spiccava nei due precedenti test? Uno era Edoardo Leo, equilibrista della risata, l'altro fu sorprendentemente Fabio Rovazzi, la genuinità fatta a persona, e in questo è Pif, già apprezzato nell'originale e bel In guerra per amore (di cui sopra, e in tanti altri), che è sempre in grado nelle sue commedie di far ridere e ben riflettere. Come appunto anche in questo caso, dove egli riesce nella sua semplicità ad emozionare con poco. Non ci credete? Prima leggete e poi vedete. Comunque viva la commedia all'italiana, sempre.
mercoledì 6 novembre 2019
Stranger Things (3a stagione)
Tema e genere: Terza stagione della serie fantascientifica creata dai fratelli Duffer e uno dei prodotti di punta di Netflix.
Trama: Ci ritroviamo a Hawkins nel 1985. Qui, poco prima dei festeggiamenti per il 4 luglio, c'è fervore: il mall Starcourt ha stravolto le dinamiche cittadine, e l'assetto sociale e commerciale muta in una forma definitiva. I ragazzi che hanno salvato per ben due volte il mondo dalla minaccia del Sottosopra si ritrovano però ad affrontare un nuovo pericolo.
Recensione: Dopo una prima stagione andata al di sopra delle più rosee aspettative (qui la recensione) e un secondo ciclo di episodio leggermente deludente (colpa soprattutto di una puntata proprio evitabile, qui comunque la recensione), Stranger Things era chiamata a una prova di definitiva maturità, che dimostrasse la capacità dello show di reggersi sulle proprie gambe e di andare oltre al marcato citazionismo e alla genuina e nostalgica passione per le atmosfere anni '80. Al termine degli 8 episodi che compongono la terza stagione, si può affermare che i Duffer Brothers hanno superato brillantemente questa prova, riuscendo nella non facile impresa di riprendere in mano le redini della propria creatura e di assecondarla in maniera limpida e naturale, sfruttando il rapido cambiamento fisionomico e caratteriale dei giovanissimi protagonisti per una profonda e a tratti struggente riflessione sulle gioie e sui dolori dell'adolescenza. La provvidenziale pausa di quasi due anni dal precedente ciclo di episodi ha dato ai Duffer il tempo necessario per rimettere al centro di tutto i propri personaggi e la loro evoluzione, senza però rinunciare alla componente più prettamente orrorifica. Il risultato è una serie che, a un passo dall'implosione, ritrova tutta la propria vitalità, riuscendo a fare nuovamente innamorare il pubblico di Eleven e soci e a unire spettatori di diverse età sotto la bandiera comune della nostalgia anni '80, sfruttata con molteplici citazioni e omaggi al periodo, quasi sempre funzionali al racconto. La terza stagione di Stranger Things ci mostra i ragazzi di Hawkins alle prese con i cambiamenti dovuti alla loro crescita e ai primi amori. Eleven e Mike fanno ormai coppia fissa, scambiandosi dozzine di goffi baci a pochi metri di distanza dal sempre più severo Hopper, Dustin torna dalle vacanze rinvigorito dalla sua nuova ragazza Suzie, che non l'ha seguito ma che lui assicura essere più sexy di Phoebe Cates, mentre Nancy e Jonathan e Lucas e Max rinsaldano i loro rapporti. Con Hawkins scossa dall'apertura di un nuovo modernissimo centro commerciale, presso cui Steve trova un lavoretto come gelataio, il Sottosopra incrocia nuovamente le strade dei protagonisti, a causa di alcuni misteriosi esperimenti condotti in una segretissima base russa. La minaccia soprannaturale è pressoché inalterata rispetto a quella che ha contraddistinto le prime due stagioni della serie, con l'eccezione di un gustoso retrogusto da L'invasione degli ultracorpi (o La cosa, citata esplicitamente dai protagonisti con un dotto paragone fra l'originale e il remake), che porta i personaggi a sospettare di chi li circonda, tutti possibili ospiti del temibile Mind Flayer. I nemici più minacciosi del periodo, ovvero i russi, sono invece volutamente rappresentati con gli stessi stereotipi che li caratterizzavano nel cinema statunitense degli anni '80, da Alba rossa in giù: responsabili dei più disparati complotti governativi, privi di qualsiasi tentennamento o sentimento e talmente malvagi da diventare quasi ridicoli. Questi aspetti avrebbero potuto trasformare una qualsiasi serie contemporanea in un boomerang per i propri creatori, ma non la creatura dei fratelli Duffer, in particolare in questa sua terza ispirata stagione.
Recensione: Dopo una prima stagione andata al di sopra delle più rosee aspettative (qui la recensione) e un secondo ciclo di episodio leggermente deludente (colpa soprattutto di una puntata proprio evitabile, qui comunque la recensione), Stranger Things era chiamata a una prova di definitiva maturità, che dimostrasse la capacità dello show di reggersi sulle proprie gambe e di andare oltre al marcato citazionismo e alla genuina e nostalgica passione per le atmosfere anni '80. Al termine degli 8 episodi che compongono la terza stagione, si può affermare che i Duffer Brothers hanno superato brillantemente questa prova, riuscendo nella non facile impresa di riprendere in mano le redini della propria creatura e di assecondarla in maniera limpida e naturale, sfruttando il rapido cambiamento fisionomico e caratteriale dei giovanissimi protagonisti per una profonda e a tratti struggente riflessione sulle gioie e sui dolori dell'adolescenza. La provvidenziale pausa di quasi due anni dal precedente ciclo di episodi ha dato ai Duffer il tempo necessario per rimettere al centro di tutto i propri personaggi e la loro evoluzione, senza però rinunciare alla componente più prettamente orrorifica. Il risultato è una serie che, a un passo dall'implosione, ritrova tutta la propria vitalità, riuscendo a fare nuovamente innamorare il pubblico di Eleven e soci e a unire spettatori di diverse età sotto la bandiera comune della nostalgia anni '80, sfruttata con molteplici citazioni e omaggi al periodo, quasi sempre funzionali al racconto. La terza stagione di Stranger Things ci mostra i ragazzi di Hawkins alle prese con i cambiamenti dovuti alla loro crescita e ai primi amori. Eleven e Mike fanno ormai coppia fissa, scambiandosi dozzine di goffi baci a pochi metri di distanza dal sempre più severo Hopper, Dustin torna dalle vacanze rinvigorito dalla sua nuova ragazza Suzie, che non l'ha seguito ma che lui assicura essere più sexy di Phoebe Cates, mentre Nancy e Jonathan e Lucas e Max rinsaldano i loro rapporti. Con Hawkins scossa dall'apertura di un nuovo modernissimo centro commerciale, presso cui Steve trova un lavoretto come gelataio, il Sottosopra incrocia nuovamente le strade dei protagonisti, a causa di alcuni misteriosi esperimenti condotti in una segretissima base russa. La minaccia soprannaturale è pressoché inalterata rispetto a quella che ha contraddistinto le prime due stagioni della serie, con l'eccezione di un gustoso retrogusto da L'invasione degli ultracorpi (o La cosa, citata esplicitamente dai protagonisti con un dotto paragone fra l'originale e il remake), che porta i personaggi a sospettare di chi li circonda, tutti possibili ospiti del temibile Mind Flayer. I nemici più minacciosi del periodo, ovvero i russi, sono invece volutamente rappresentati con gli stessi stereotipi che li caratterizzavano nel cinema statunitense degli anni '80, da Alba rossa in giù: responsabili dei più disparati complotti governativi, privi di qualsiasi tentennamento o sentimento e talmente malvagi da diventare quasi ridicoli. Questi aspetti avrebbero potuto trasformare una qualsiasi serie contemporanea in un boomerang per i propri creatori, ma non la creatura dei fratelli Duffer, in particolare in questa sua terza ispirata stagione.
martedì 5 novembre 2019
Possession (1981)
Tema e genere: Controverso film del regista polacco Andrzej Żuławski, ed anche il suo più famoso e scioccante, un film che non ha avuto vita facile (pesantemente censurato), che è divenuto tuttavia un cult del genere horror.
Trama: Berlino, anni '80. Il muro domina la città. Mark, ex agente spionistico, torna a casa dopo l'ultima missione. Il rapporto con la moglie Anna si deteriora. Mark indaga, sospettando un tradimento. Scopre che oltre a un amante "ufficiale", Heinrich, Anna vive una seconda vita con un mistero che non vuole svelare, e che, lentamente, la trascina in un climax di violenza e follia che le fa dimenticare ogni cosa: il figlio Bob, i suoi uomini, la vita stessa.
Recensione: Generalmente stroncato dalla critica (e con valide argomentazioni a supporto), Possession è diventato una chicca per gli amanti del genere horror (per alcuni cinefili vero e proprio capolavoro). Più che a un horror vero e proprio, tuttavia, la trama illogica e piena di risvolti surreali ricorda da vicino le opere di David Lynch: stessa sensazione di straniamento, di angosciante (e a volte fastidiosa) dissociazione. Solo che, se con David Lynch (ed attenzione, ho visto solo Twin Peaks) il contorno affascinava e la storia riusciva ad essere più leggibile, con questo ciò non accade. In tal senso mi sto forse rendendo conto che i film criptici, o almeno quelli troppo criptici, non fanno per me. Non è un caso che negli ultimi anni non abbia visto bene questi tipi di film (e pensare che devo recuperare lo stesso Lynch), infatti ho ben visto Madre! (l'arcano era più comprensibile) ma non ho ben visto sia Il sacrificio del cervo sacro (bisognava conoscere il testo originale), Il filo nascosto e Antichrist, quest'ultimi due lavori di estetica più che di sostanza a parer mio. Ora non che Possession sia allo stesso livello, anzi, è certamente di un livello superiore, però questa favola horror nella forma di un grottesco dramma metafisico di agenti segreti oltrecortina, amanti zen dallo stomaco debole, mogli fedifraghe sensibili alla sensuale fascinazione del male, ultra-corpi dagli occhi verdi ed uno scoppiettante ed amaro finale apocalittico, non mi ha convinto pienamente, tanto da non considerarlo alla stregua di un capolavoro. Tuttavia bisogna ammettere che la storia che questo "maledetto" film racconta (maledetto perché colpito dalla censura e dai tagli in tutti i paesi in cui è stato distribuito, ne esistono diverse versioni: quella italiana di 80 minuti, io ho visto quella di 2 ore), ambientata in una deserta, fredda e divisa Berlino non per caso, il suo lavoro di "disturbo" lo fa alla grande. Eppure la trama di Possession non potrebbe essere, apparentemente, più banale: una giovane coppia, Marc e Anna, in crisi a causa del tradimento di Anna. Un semplice triangolo che si complica nel momento in cui Marc si accorge che il vero amante di Anna non è il fatuo Heinrich, esaltato dalle filosofie orientali (e soprattutto dall'assunzione di qualsiasi sostanza stupefacente che lo conduca sulla via dell'illuminazione sessuale), ma bensì qualcun altro, anzi, qualcos'altro. Qualcos'altro che farà precipitare la situazione, e aprirà anche al marito le porte della follia. Facendo così partire un viaggio appunto folle all'interno degli orrori nascosti della coscienza umana, i quali si sono aperti una strada verso la realtà materializzandosi. I mostri, infatti, non si trovano fuori dall'uomo, ma proprio nella sua parte più nascosta e imponderabile, l'inconscio, l'anima. E quando la reificazione delle nostre paure infine avviene, non le riconosciamo finché non assumono il nostro volto. Il film è perciò una riflessione sul bene e sul male, incarnato qui dalla creatura (una sorta di mostro tentacolare, ideato dall'immaginazione della protagonista e poi da lei realmente partorito in una delle scene più deliranti del film) che possiede Anna e la rende sua schiava.
lunedì 4 novembre 2019
Benvenuti a Marwen (2018)
Tema e genere: Adattamento cinematografico del documentario del 2010 Marwencol, incentrato sulla vita ed i lavori dell'artista e fotografo Mark Hogancamp, che perse la capacità di parlare e di camminare, ma soprattutto la memoria, in seguito ad un pestaggio che lo ridusse in coma.
Trama: Un uomo reduce da un violento pestaggio si chiude in un mondo di fantasia "in miniatura", dove trasforma quanto gli accade in un universo (ai tempi della seconda guerra mondiale) di coraggio ed eroismo.
Recensione: Difficilmente sono rimasto deluso da un film di Robert Zemeckis (a parte forse La leggenda di Beowulf), che tra l'altro ultimamente ci regala pochi film (pochi ma buoni, vedasi The Walk ed Allied), evidentemente si mette al lavoro quando ha delle idee da sfruttare, questo film ne è la prova. Una tragedia umana veramente accaduta trasformata con maestria in una sorta di fiaba contemporanea interpretata da bambole che creano una sorta di realtà alternativa in cui il protagonista fugge per evitare di affrontare quello che gli è successo. Il film infatti, che vede protagonista un grandissimo Steve Carell, è ispirato ad una storia tanto assurda, quanto vera, e tratta della difficile vita di un ex illustratore, divenuto fotografo in seguito ad una violenta aggressione che gli ha cancellato tutti i ricordi del passato e la capacità di disegnare. Un percorso a dir poco tortuoso il suo, l'assenza di memoria lo aiuta a non riattaccarsi alla bottiglia, ma la nuova dipendenza da antidolorifici lo relega in un una nuova prigionia. L'unica possibilità di evasione è Marwen (dalla fusione fra il suo nome, Mark, e quella di una cotta, Wendy), ricostruzione in miniatura di un fittizio villaggio belga popolato da action figures e bambole femminili durante la seconda guerra mondiale dove vive il suo alter ego, il capitano Hogie, pilota americano tratto in salvo dalle abitanti di quel luogo dalla furia dei soldati nazisti. In bilico su un filo, la sua esistenza procede dunque parallela, tormentata dagli incubi che lo riportano alla sera di quell'aggressione (motivata, sembrerebbe, dalla sua passione per le scarpe femminili) e rinfrancata, per certi versi, dalle gesta del suo alter ego in miniatura. Gesta e situazioni immortalate da una serie di fotografie realizzate dallo stesso Mark, divenute poi oggetto di una mostra all'Esopus Space di Manhattan.
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