venerdì 23 novembre 2018

The Zero Theorem: Tutto è vanità (2013)

Con Terry Gilliam ho sempre avuto un rapporto burrascoso, tra (pochi) alti e (tanti) bassi, sarà riuscito con il suo penultimo lavoro datato 2013 (e stranamente distribuito in Italia 3 anni dopo), il suo ultimo è invece da poco uscito al cinema, quel L'uomo che uccise Don Chisciotte di cui si è parlato tanto precedentemente alla sua presentazione e si parla tanto dopo la sua distribuzione (giudizi abbastanza tiepidi), a migliorare questo rapporto? No, mi spiace, purtroppo no. Perché pur volendo essere indulgenti nei confronti di uno dei maestri più visionari che il mondo del cinema ricordi, bisogna ammettere che il film, che parte illudendoci di farci sognare, di ritrovare (anche se in verità le atmosfere e le ambientazioni sono simili) quelle atmosfere e quelle ambientazioni che lo avevano reso celebre con pellicole come "Brazil" e "L'esercito delle dodici scimmie" (e questa volta incentra il suo discorso sulla disperata ricerca di un senso che spinge un uomo alienato a scontrarsi con le sue paure e le sue difficoltà relazionali, nonché a cercare di scalfire un sistema che lo tiene stretto in una morsa e per il quale la speranza è un nemico da eliminare), purtroppo si eclissi e soffochi in se stesso, sepolto da un pesante sovraccarico di suggestioni senza una vera storia a sorreggerlo. Procedendo infatti per trovate visive talvolta sorprendenti e per espedienti comici per allentare il climax ascendente della storia, The Zero Theorem: Tutto è vanità (The Zero Theorem), film del 2013 diretto da Terry Gilliam,  presenta tutte le ossessioni del cinema del regista statunitense, fermo purtroppo a un tempo d'oro che fu e non aggiornato ai tempi correnti. Con il sapore della favola moralistica che trasforma le vecchie ossessioni oniriche in realtà virtuali alternative e che si fonda ancora una volta sull'eroe che si riscopre la via della redenzione dopo essere stato colpito attraverso gli unici due legami affettivi che si era creato, The Zero Theorem sembra essere stato concepito per auto-omaggiarsi e auto-citarsi. E non bastano le ennesime straordinarie trasformazioni di Christoph Waltz e dell'istrionica Tilda Swinton, difficilmente riconoscibile nei panni di una psicoanalista virtuale, a definirlo del tutto riuscito.
Eppure è strano, perché la prima mezz'ora di film, film in cui la cinematografia del regista è presente in uno straordinario impianto visivo, nei personaggi grotteschi al limite del caricaturale e nella presenza di un tema dominante oscuro e superiore che è motore di tutto il film, sembrava quasi portare quest'ultima creatura di Gilliam a sedere degnamente a fianco degli altri due capolavori con la sua firma, la società iperconnessa in cui si muove un immenso Christoph Waltz è iperrealistica, colorata, premonitrice, irridente (è una versione con gli steroidi della nostra) e da sola definisce il livello artistico di quello che stiamo guardando. Peccato che da quel momento, il film si richiuda eccessivamente sul protagonista e, sostanzialmente, si autoconfini in un unico set, quello (mirabilmente fotografato e gravido di simbolismi) della chiesa dove si è isolato il protagonista, dalla quale si affrancherà solo virtualmente, e il Teorema Zero finisca fin troppo a fare da sfondo al rapporto tra lui e Mélanie Thierry (prima) e Lucas Hedges (poi). È come se i personaggi smettessero di essere funzionali alla storia e non viceversa, e se la cosa è voluta mi è piaciuta poco (ma potrebbe benissimo invece funzionare per qualcun altro di voi). Ma andiamo per gradi. In una realtà alternativa, o presumibile prossimo futuro, le città sono un calderone di culture frammentate e tecnologie eterogenee, le quali consentono di controllare costantemente e bombardare di pubblicità i cittadini. In questo contesto, l'informatico Qohen, un Christoph Waltz molto convincente nei panni dell'eccentrico hacker asociale, è impegnato in una ricerca sulla "Teoria Dello Zero", in grado di spiegare il perché della vita, per conto della società Mancom (di cui a capo c'è l'azzeccato Grande Fratello incarnato da Matt Damon), che ne stimola in ogni modo l'attività. Si avvale del supporto morale della provocante Bainsley (la francese Mélanie Thierry, ex-modella apparsa ne La leggenda del pianista sull'oceano, più che valida nell'interpretazione della giovane donna di cui Qohen si innamora) e dell'aiuto del geniale Bob, il giovane figlio del rappresentante della società. Giunto in qualche modo a fine ricerca, apprende il perché dell'interesse verso la sua persona, e i veri scopi della società. Il protagonista però si ribella ad essa, in un finale altamente simbolico ed aperto.
E quindi il film, in cui da segnalare nel cast c'è la presenza di David Thewlis nei panni del soprintendente Joby (meglio conosciuto come Remus Lupin nella serie di Harry Potter), di Ben Whishaw e Peter Stormare (ma tutti poco incisivi e poco "importanti", soprattutto gli ultimi due, nella vicenda), si presenta come un'interessante indagine sul senso dell'esistenza umana. Interessante, sì, ma abbastanza noiosa. Comincerete infatti ad afferrare il significato generale della pellicola, e ad entrare nel mondo che essa vi presenta, solo dopo aver passato i primi 30-40 minuti a ripetervi che non ci state capendo un cazzo. Tuttavia alcuni elementi restano, se non superflui, difficili da interpretare, e diremmo anzi quasi senza senso. Un esempio? La tecnologia inventata da Terry Gilliam per il suo immaginario futuro, che si serve di computer super potenti, schermi ultra-tecnologici e...joypad? L'eccessiva somiglianza visiva che i numeri e le cosiddette "entità" matematiche con cui Qohen opera giorno e notte hanno con Minecraft, piuttosto che con complesse formule fisiche, non rendono affatto l'idea di quanto sia difficile lo sforzo mentale che l'hacker compie, cercando di dimostrare il teorema assegnatogli dal Management. Insomma, questo poveraccio lavora assiduamente ed ha un esaurimento nervoso per colpa di alcune formule a cubetti. Sarebbero state più credibili schermate su schermate di codice verde alla Matrix, anziché la trovata del regista statunitense. Poco convincente anche la stessa evoluzione di Qohen che, da operaio asociale depresso, arriva ad essere, indovinate un po', un operaio asociale depresso. Perché nonostante si guadagni l'amicizia di Bob (un'efficace Lucas Hedges), figlio del Management, e l'affetto della bella e sexy Bainsley, alla fine viene giudicato dal direttore-dittatore, alla pari di tutti gli altri, come un semplice strumento utile al business, il quale sembra essere il fine ultimo delle corporazioni che a colpo d'occhio governano questo mondo.
E tuttavia si deve riconoscere la genialità dell'amara ironia che pervade tutto il film, di stampo kafkiano, data da un misto di citazioni più o meno esplicite di vecchi cult, e la generale disillusione con cui Terry Gilliam dipinge la società futuristica della sua opera. Una visione chiaramente pessimistica che probabilmente è volta a ricordarci di come già oggi noi siamo controllati dalle multinazionali e dalle corporazioni, che hanno invaso la nostra vita con i loro prodotti, presentatici come indispensabili ma in realtà assolutamente superflui. Inoltre è innegabile non accorgersi della pregevolezza dell'ambientazione. Buona parte di esso si svolge all'interno di una chiesa, convertita in laboratorio e abitazione del protagonista, nel quale il medesimo vive in precarie condizioni igieniche, tra installazioni ipertecnologiche molto diverse da quelle che conosciamo (i software sono contenuti in provette) ed elementi d'arredo tipici dei luoghi sacri. Peccato che il suddetto sia nella sua interezza estremamente complesso, l'ho seguito con difficoltà, e non mi ha particolarmente emozionato. Limite personale, senza dubbio, ma tanti dettagli mi sono sembrati esclusivamente di maniera, e la parte centrale del film assai noiosa. Ritengo che l'argomentazione del film potesse essere condensata in una durata assai minore senza perdere nulla nella portata espressiva. E insomma, molti tecnicismi, ma non troppa sostanza. Oggettivamente un buon lavoro, ma a me non è molto piaciuto. Per carità, resta un film di Terry Gilliam al cento per cento e quindi un film davvero notevole in quanto ad idee, visioni ed inventiva, ma non è un film potente e compiuto come Brazil o l'Esercito. Detto questo, anche se il doppiaggio italiano non è proprio il massimo, la pellicola vale una visione e non merita certamente un giudizio estremamente negativo, ma solo parzialmente. Voto: 5,5

11 commenti:

  1. E meno male che non meritava un giudizio estremamente negativo.... L'hai ucciso.
    Comunque non l'avrei guardato a priori.
    Bisous

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    1. Per ucciderlo avrei dovuto dargli 4, e invece non l'ho fatto, proprio perché pessimo assolutamente non è ;)

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  2. Solo bella dici la Thierry? :D
    Son sicuro che un senso ce l'ha, ma non credo lo rivedrò per trovarglielo io, mi basta il tuo ;)

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  3. In questo caso guardato Babylon A.D. di Kassovitz 😆

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  4. Credo di non conoscere...però nel cast c'è anche Vin Diesel, e quindi l'avrò forse visto? Mah..

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  5. Non ne ho mai sentito parlare, lo aggiungo alla mia lista! :)

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    1. Ciao, innanzitutto benvenuta e poi che comunque fai una scelta giusta, anche se a me non ha convinto, ad aggiungerlo ;)

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  6. Sinceramente regista a parte non sono film che mi fanno saltare sulla sedia.
    Poi leggendo attentamente la tua bellissima descrizione, non mi attrae più di tanto anche se poi probabilmente , lo vedrò
    Ancora grazie per le tue precisazioni e critiche cinematografiche.
    Un abbraccio serale

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    1. Effettivamente Terry Gilliam è sempre Terry Gilliam, ma purtroppo questo film fa parte dei tanti suoi bassi ;)
      Grazie ed abbraccio a te, ciao :)

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