mercoledì 18 aprile 2018

Recuperi Sky on demand (Marzo/Aprile 2018)

Chi mi conosce sa, o anche chi di cinema è appassionato, che le liste dei film da vedere non finiscono mai, e infatti tra le mie tante liste, eccone una rimasta per un po' di tempo in sospeso, ovvero i film che non sono riuscito a registrare da Sky (causa motivi dettati dal tempo, dalla voglia e da imprevisti tecnici) e che grazie al servizio on demand della piattaforma stessa ho potuto finalmente vedere. Una lista per fortuna piccola (solo 12 titoli, che saranno perciò divisi in due tronconi) e film che in ogni caso (a parte soprattutto le prossime sei pellicole) non sono e non saranno più disponibili alla visione, se vi interessano infatti dovrete trovare altri modi, o più semplicemente aspettare un passaggio televisivo (anche se forse non tutti verranno trasmessi) per vederli. Ma a parte ciò questi suddetti film, molti usciti in sordina e poco conosciuti, altri meno inediti, son contento di aver visto, ho fatto bene difatti a volerli comunque recuperare, perché, anche se non ho la sfera magica, so che nessuno mi deluderà tanto (forse solo un pochino), a partire proprio da questi primi sei, film molto interessanti, belli, passabili e quasi certamente da consigliare e vedere.
In Svizzera due immigrati, un belga appena uscito dal carcere e un algerino che abita in una roulotte con la figlia adolescente e che ha pure la moglie malata in ospedale, progettano il colpo della loro vita, rapire la salma di Charlie Chaplin, morto di fresco, e chiedere il riscatto alla ricca famiglia. Parte da questo episodio realmente accaduto Il prezzo della gloria, film del 2014 dove il regista Xavier Beauvois danza tra il melodramma familiare e la commedia amara, e con un tono che oscilla tra il mesto e il surreale, quasi un'incrocio di un clima degli anni '70 (evidente non solo per l'ambientazione del film) dove le maschere avevano insieme un lato comico, grottesco e tragico. Non a caso in questa sorta di "febbre dell'oro" il cineasta francese stavolta non agisce di sottrazione, come era avvenuto nel discreto Uomini di Dio, film che l'ha fatto conoscere, giacché ne Il prezzo della gloria reinventa il fatto di cronaca attraverso una gestualità visiva (la scena della tomba trafugata, le telefonate dalla cabina) che vuole essere forse (quasi certamente) un continuo omaggio al mitico Charlot, quasi un film sulla mimica del corpo che tuttavia si appesantisce nelle continue citazioni (il processo) o nella rappresentazione della sua famiglia nella residenza di Vevey. Difatti il film di Beauvois ha la volontà di trasferire l'atmosfere chapliniane in questa pellicola (nonostante una sceneggiatura poco approfondita che manca di quel lancinante senso del tragico che ha sempre costituito il cupo rovescio delle migliori commedie del grande attore britannico) dove l'indigenza dei protagonisti costituisce la molla per il loro folle progetto, con conseguenze tragicomiche data l'inesperienza criminale dei due disgraziati (in tal senso l'attore che rievoca la figura di Chaplin è Benoit Poelvoorde, adeguatamente coadiuvato da un buon Roschdy Zem), purtroppo però delude le attese malgrado il soggetto sia interessante. Certo, ha un ritmo appassionato seppur disordinato, coinvolge seppur respinge, ma sfrutta solo in parte l'irrefrenabile carica di Benoît Poelvoorde, un "physique du role" con lo sguardo vispo e sempre in movimento, però a volte, manifesta tonalità forse troppo gigionesche. In più, al contrario del suo cinema (dove l'ironia si abbatte solo sul maggiordomo della famiglia Chaplin che, con militaresco e britannico sussiego, gestisce il recupero della salma), Il prezzo della gloria da l'impressione di essere troppo carico, tra improvvise apparizioni (Chiara Mastroianni) e la musica di Michel Legrand, incontrollata nel dare pathos alle scene madri. Che invece è in netto contrasto in un film dove funzionano meglio i silenzi, troppo poco sfruttati in un'opera sulla mimica ma sovraccarica di parole. Rispetto alle opere precedenti del regista e attore infatti un passo indietro, anche perché se la parte descrittiva e tragica del contesto di povertà è abbastanza curato, molto meno quello più comico dove manca la necessaria brillantezza, svilendo le potenzialità di entrambi i personaggi che rendono meno di quello che potrebbero. Non a caso il film cala nella seconda parte (dove di comico non c'è niente e di humor pochissimo) e francamente delude un finale, comunque simpatico, troppo scontato. Non proprio una delusione è tuttavia il film, ma poco ci manca (non dimenticando un taglio troppo "televisivo" che non aiuta). Perché anche se questo film con poca anima racconta un incredibile vicenda vera, senza tuttavia osare più di tanto, senza perciò centrare del tutto il suo obiettivo cinematografico, ha il merito di riportare l'attenzione su Chaplin, in quest'omaggio forse a metà ma dignitoso. Voto: 6- [Qui più dettagli]
Poggia tutto (forse troppo) sull'intensa interpretazione di Penelope Cruz Ma Ma: Tutto andrà bene, film del 2015 di Julio Medem, regista di Lucía y el sexo. Il risultato finale di questo melodramma infatti, che in apparenza aveva tutte le carte in regola per convincere e per commuovere, lascia un po' a desiderare, sembra difatti di trovarsi di fronte a una di quelle operazioni costruite a tavolino che frenano il coinvolgimento dello spettatore. Non a caso il film, pur godendo di un buon cast e di accortezze registiche da occhio attento e raffinato (anche se solo in parte), rischia in più di un'occasione di afflosciarsi su un'eccessivamente lenta narrazione. Senza dimenticare che la trama, che racconta di una malata terminale che incontra un altro uomo a cui è capitato un grave lutto e insieme cercano di andare avanti, tra l'altro con una gravidanza inaspettata che ha il sapore di un riscatto di fronte alla morte incombente, non brilla per verosimiglianza, dato che allinea alcuni eventi tragici in modo troppo programmatico, ad esempio l'innamoramento di Arturo per Magda è un po' troppo repentino, soprattutto se si considera il doppio lutto di lui, poi anche i rapporti di Magda col ginecologo vanno un po' troppo oltre quello che ci si aspetterebbe nella realtà, e certe intuizioni come le visioni in cui appare la bambina russa Natascha si rivelano piuttosto inutili, finendo per appesantire un film che si appoggia soprattutto su un'intensa interpretazione di Penelope Cruz, qui anche produttrice, sicuramente degna di migliore causa, che tiene in piedi con il suo carisma un'opera altrimenti claudicante che punta troppo, troppo spesso alla lacrima dello spettatore senza essere poi in grado di far sfociare il tutto in un mélo di categoria. Anche il ricorrente espediente stilistico di alternare col montaggio due situazioni ben distinte, creando una serie di studiate corrispondenze, si rivela alla lunga piuttosto formalistico (non dimenticando una ridicola rappresentazione "calcistica"). Altresì anche la sceneggiatura, denota qualche limite nella descrizione dei personaggi, dato che molti aspetti non vengono approfonditi dignitosamente. Tuttavia grazie alla protagonista (e alla grande star spagnola), che letteralmente sacrifica non poco anima e corpo nell'affrontare la tematica della malattia incarnando una figura femminile che non crede in Dio e che vi sia una vita nell'aldilà, ma che crede nella vita e pensa che la cosa principale da fare sia cercare di essere il più felici possibili e incoraggiare chi le è vicino a fare lo stesso, il film respira nonostante tutto, un'aura, seppure ovviamente non allegra e spensierata, di serenità e positività che lo rendono (proprio per l'insegnamento più o meno diretto, ma molto evidente, che essa dà allo spettatore o, meglio, alle spettatrici, di non lasciarsi andare alla commiserazione eccessiva e cercare di lottare per affrontare al meglio il lungo e doloroso periodo della malattia) particolare ed affatto scontato. Così tanto che il film si fa tanto apprezzare, anche e non solo per la straordinaria performance della Cruz, ma per una fotografia abbacinante che aiuta non poco a creare quel tono da 'dramma felice' e lo stupendo accompagnamento musicale, soprattutto sul bel finale. Certo, i personaggi dei due uomini, pur importanti, non convincono, soprattutto il bravissimo Luis Tosar, qui quasi inespressivo, o comunque frenato, ed alcuni dettagli non risultano tanto efficaci (mi riferisco alle immagini dei battiti del cuore), ma pur scontando diversi difetti (tutti già evidenziati), quest'opera risulta riuscita, un'opera da vedere, a meno che non risulti per alcuni spettatori troppo pesante e difficile da guardare. Voto: 6,5 [Qui più dettagli]
Il Claudio Giovannesi di "Ali ha gli occhi azzurri", dirige con accuratezza ed efficacia un film intimista, fatto di sguardi e sfumature emotive, di studi approfonditi eseguiti a colpo d'occhio per capire e decifrare emozioni che le circostanze non permettono di sviscerare, ma anche un film di scatti emozionali, di rincorse in riva al mare e di fughe a rotta di collo, quando il sentimento è più forte del pericolo che incombe in seguito alla punizione. Fiore infatti, film del 2016 del regista romano, narra attraverso e nonostante l'esperienza dura della prigione, come gli istinti primari, sia positivi, il bisogno di essere amati, sia negativi, la tendenza a trasgredire alle regole imposte e la ricerca della fuga, non ci lascino mai soli. E per farlo il regista ci racconta in maniera nuda e cruda la vita della giovane Daphne, chiusa in un carcere minorile e con rapporti familiari spesso difficili. Ma nel grigiore generale (anche perché francamente pensare che la riabilitazione possa passare attraverso quelle mura, sembra improbabile, è più facile che invece incattivisca ulteriormente) troverà un caldo raggio di sole nell'amore verso un ragazzo con altrettante problematiche. Non a caso il film (un film decisamente coriaceo ma realistico e ben interpretato), non è altro che il desiderio d'amore di una adolescente e della forza che trova nel manifestare la propria dolcezza contro un destino apparso, fin da subito, tristemente segnato. Il film però proprio per questo ha una cifra non nuova e ben riconoscibile (che non sempre basta), tra la durezza del documentario in presa diretta, la denuncia sociale e le emozioni del melò, mutuato da altri prodotti del genere, ma è condotto in maniera credibile e sfrutta al meglio le discreti doti della protagonista. Perché sì, non sempre la sceneggiatura è strutturata in maniera perfetta (colpa di molti cliché carcerari e di improbabili coincidenze e circostanze) ma ci sono indubbi elementi di forza a sostenere la baracca. Non solo per una delle canzoni della colonna sonora, che è la Maledetta Primavera reinterpretata da Greta Manuzi, ma perché di sdolcinato c'è davvero poco e per larga parte del film si rimane affascinati dalla verve e dall'energia della protagonista, minuta ma esplosiva allo stesso tempo, con uno sguardo davvero magnetico. Da sola infatti Daphne Scoccia innalza il livello della pellicola che in ogni caso più che un film di denuncia sui riformatori o sulla vita carceraria è soprattutto un inno alla libertà, alla voglia irrinunciabile di vivere un amore e una speranza. In questo Valerio Mastandrea, per una volta in un ruolo secondario (con cui però ha vinto un David di Donatello), viaggia con il pilota automatico nella parte di padre non certo irreprensibile, che prova a ricominciare daccapo e lascia spazio alla coppia di protagonisti, entrambi alle prime armi, ma opposti nel risultato delle loro performance, se straordinaria è Lei, lo sfortunato Josciua Algeri invece, scomparso in circostanze tragiche, a causa di un incidente, è decisamente impacciato nella parte. Tuttavia è pur sempre artefice di un discreto prodotto italiano che con un pizzico di attenzione in più verso i dettagli (come una seconda parte fin troppo positiva, altamente lontana dalla sordida realtà mostrata, che lo avvicina più a certi film del filone sentimental-giovanilistico del quale non si sentiva il bisogno) e il montaggio, sarebbe potuto diventare un cult. Giacché il film, che chiude sui ragazzi insieme in fuga, incoscientemente felici, senza esplorare quel che sarà poi (cosa già vista in altre pellicole) lascia la sensazione (anche se esso lascia comunque allo spettatore la possibilità di sperare o disperare, seppur con la sensazione confortante che la forza dell'amore ha liberato Daphne, almeno per un breve momento) di non aver goduto fino in fondo il messaggio del regista restando in sospeso per mancanza dell'ultimo battito di ali. In ogni caso film da vedere ed ammirare. Voto: 6,5 [Qui più dettagli]
Gli spagnoli ultimamente producono meno horror (o forse ne vedo pochi io), ma stanno sfornando discreti thriller come questo Che Dio ci perdoni (Que Dios nos perdone), film del 2016 diretto da Rodrigo Sorogoyen. Questo thriller infatti, che ricorda altresì alcuni ottimi prodotti di genere made in Usa, e che ricorda anche l'affascinante e riuscito La Isla Minima, è un noir di tutto rispetto, fedele a molti degli stilemi di genere, compresa la durezza senza sconti nella rappresentazione della violenza. Difatti a questa pellicola di genere non manca oggettivamente nulla rispetto a tanti altri, segue i canoni prediletti con zelo, riuscendo tuttavia nello stesso momento a variarne caratterizzazione e tono. Giacché questo noir dall'impostazione classica, è capace di istantanee brutali e di squarci visionari disturbanti, ma è anche attento alla definizione dei caratteri, andando a segno soprattutto per lo spessore dei personaggi. Rodrigo Sorogoyen infatti non comprova solamente la propria conoscenza del filone in questione, bensì arricchisce la già prelibata pietanza con particolari finezze. Non a caso i due protagonisti sono ben caratterizzati, perché non hanno solo la vita da detective ma anche loro hanno i propri segreti e peccati. Come segreti e tanti peccati ha il vero, ambiguo e feroce protagonista della vicenda, un serial killer dalla psiche disturbata e perversa dai tratti comuni quanto inquietanti che se la prende con le donne anziane con una brutalità fuori dal comune. E così, immerso in una realtà sociale incandescente, fra visite papali e crisi sociale con manifestazioni di protesta, si sviluppa una trama avvincente, vivida, sensoriale, a tratti disturbante, che lavora con ritmo incessante fin dalla scena d'apertura, in una corsa che tale rimane anche nei brani della colonna sonora dall'andatura più compassata. Anche perché due diversi ispettori (due personalità non solo "divergenti" ma decisamente conflittuali), con cui nessun collega vuole avere a che fare, sono chiamati a collaborare con un ordine ben preciso e chiaro, risolvere il caso il prima possibile e in silenzio. Ma molte saranno le difficoltà in questo caso intricato e parecchio sconvolgente, che porteranno a una soluzione faticosa, difficile, controversa e...dopo molto tempo, dopo (più che altro) molte difficoltà tra i due incaricati delle indagini e con i colleghi. Tuttavia a parte il discreto ritmo, la più che buona tensione, aiutata da una messa in scena arida e spoglia, come lo squallore che avvolge i crimini, e nonostante una buona direzione degli attori, su tutti Antonio de la Torre e Roberto Álamo (quest'ultimo ha vinto il premio come miglior attore protagonista ai Premi Goya 2017), meno il crudele predatore, a volte un po' sopra le righe, non tutto è perfetto. Non solo perché un epilogo meno frettoloso ne avrebbe fatto un'opera ancora migliore, ma perché il messaggio di fondo dell'opera (Dio e la religione), portato purtroppo avanti senza troppa convinzione in alcune fasi (come se la pellicola in questione non ne necessitasse così tanto) non arriva e non convince (come non tanto convincente è il fatto di tralasciare alcuni dettagli sulla vita dei due detective e di molto altro), anche perché nella pratica la situazione sta effettivamente in questi termini, usando il filo conduttore solo da spunto, da cornice di un'opera non eccezionale seppur del tutto capace di sostenersi e sostentarsi da sola. Perché in ogni caso il film, avvincente e ben diretto merita di essere visto. Voto: 7- [Qui più dettagli]
Questa è la storia di Alex in arte Zeta, giovane rapper che insieme ai suoi amici cerca di sfondare con la musica. Alex ci riesce ma il successo da alla testa e solo dopo alcuni imprevisti ed errori troverà la forza, nonostante le tante avversità, di capire sé stesso e ciò che vuole veramente. Con una costruzione lineare e schematica, che fa della divisione in tre atti una missione primaria, Zeta, film italiano del 2016 diretto da Cosimo Alemà, è facilmente collocabile nel filone del teen-movie musicale (d'ispirazione soprattutto anni '80) che così prepotentemente vuole omaggiare e rilanciare. Giacché l'idea alla base della pellicola, sicuramente radicata in un immaginario giovanile caratterizzato dalla ribellione adolescenziale, è la ricerca, smodata e forse superficiale, di un riscatto attraverso il canto e la musica, raccontata sì con molta semplicità e linearità, ma anche con una banalità e prevedibilità senza eguali. Il film di Alemà, infatti, segue una struttura ben riconoscibile che rispetta tutti i topoi del genere, e lo fa in maniera così certosina da risultare inevitabilmente telefonato e prevedibile per un pubblico minimamente alfabetizzato. Questo non è essenzialmente un male, visto che Zeta non ambisce a rivoluzionare nulla ma semplicemente a inserirsi onestamente in un percorso già avviato da altri, ma dà la sensazione di essere il classico prodotto fuori tempo massimo, arrivato senza un reale bisogno. Perché il film, vorrebbe ricordare Saranno famosi e Footlose, però vira spesso ne Il tempo delle mele sfociando così nel banale, ha comunque contenuti solidi e qualcosa di veramente importante da comunicare, ma con un coinvolgimento emotivo quasi a zero. Forse, nelle intenzioni voleva essere un 8 Mile "all'italiana" o essere una versione più light di Straight Outta Compton (con l'unica differenza rappresentata dalla periferia di borgata romana molto meno glamour e patinata), ma purtroppo soffre di alcune pecche che inficiano parecchio il risultato di un film che di certo ha tra i pregi l'utilizzo della musica, perfettamente amalgamata alla storia e capace di cadenzare il ritmo degli eventi, un rigore tecnico apprezzabile e una riuscita generale formale (anche se non coincide sempre con una reale bontà di scrittura). La storia infatti seppur sufficientemente credibile non è sempre "fluida" (colpa di qualche ingenuità e qualche forzatura che sicuramente potevano essere evitate o meglio gestite) e retorici sono in verità i monologhi in voice-over del protagonista. Tuttavia qualcosa di buono c'è, certamente nell'insieme i protagonisti seppur dimostrano talvolta rigidità e inesperienza funzionano, senza decollare buona la prova di Diego Germini (passabile quella di Jaopo Olmo Antinori) e nonostante la candida ingenuità apprezzabile quella di Irene Vetere. Non eccezionali invece i cammei dal mondo del rap italiano, alcuni più incisivi (Clementino, Salmo, Fedez, Briga, Rocco Hunt etc.), altri più raffazzonati (J-Ax), mentre totalmente sprecato è Salvatore Esposito, assurdamente finto. In definitiva, l'ultimo lavoro di Cosimo Alemà è un'opera incompleta e allo stato primordiale che forse avrebbe avuto bisogno (con un approccio più dimesso e meno forzato) di un forte spessore e di maggior sostanza, anche se alla fine, se presa per quella che è, ovvero un'opera senza troppe pretese, la leggerezza e la godibilità c'è e si vede, seppur al massimo da vedersi alla tv. Voto: 6- [Qui più dettagli]
Non nascondo un po' di timore nell'aver visto e affrontato il tema di Noi siamo Francesco, film italiano del 2014 diretto da Guendalina Zampagni. Il film infatti si confronta con il doppio tema (per me molto vicino e attuale) amore-disabilità, in un'opera che tuttavia sprizza (una lodevole) sincerità da tutti i pori, un film abile nel far (com)baciare leggerezza dei toni e profondità delle argomentazioni, anche se non sempre, perché Noi siamo Francesco non è propriamente una commedia, né un film drammatico, si ride poco e altrettanto poco ci si ferma a riflettere, anche laddove lo richiederebbe la portata dei temi sollevati. In ogni caso protagonista è Francesco (Mauro Racanati), ventidue anni, ottimi voti universitari, un giovane come tanti altri, che ama la vita e ama stare con gli amici, ma ha un handicap, non ha le braccia, una mancanza che rischia di compromettere le sue relazioni con gli altri, in particolare con l'altro sesso sia a livello sentimentale che sessuale, grazie però all'intervento forse non voluto dalla madre Grazia (Elena Sofia Ricci) e soprattutto dell'amico Stefano (il personaggio forse più riuscito del film interpretato da Gabriele Granito) alla fine, in un finale forse troppo ottimistico in verità, troverà l'amore. Lo si potrebbe definire per questo un film di formazione "all'acqua di rose", anche perché non sempre il lato più importante, ovvero quello emotivo e psicologico, non viene, per colpa della scarsa introspezione e mancanza di profondità (e del taglio quasi "documentaristico"), approfondito. Tuttavia la pellicola sfugge dal moralismo in cui è fin troppo facile cadere trattando una simile tematica, e, anzi, riesce a costruire un'amicizia credibile, realistica e sincera nonostante una recitazione non sempre all'altezza. Non a caso il film è anche un film sull'amicizia e sul rapporto genitori-figli, sui limiti da (im)porre alle premure e alle preoccupazioni che ogni genitore ha verso la prole oramai cresciuta. Altresì Noi siamo Francesco non è solo un film sui ragazzi, ma pure sugli adulti, su quella perduta innocenza che spesso ci porta a rimuginare sul niente e a rendere giganti problemi minuscoli quando invece basterebbe mettere in pratica quanto uno dei personaggi si è scritto sulla mano, non pensare. La pellicola difatti, partendo proprio dal titolo programmatico, perché mette a fuoco sin da subito i motivi per cui la regista ha deciso di portare sul grande schermo una storia così particolare, la parabola che Francesco si trova a percorrere infatti riflette, amplificandoli, gli stessi problemi che qualsiasi adolescente affronta nel momento in cui deve rapportarsi con l'altro sesso, e mettendo in scena l'espediente efficace della disabilità, riesce a parlare di tematiche universali, quali appunto l'amicizia e il bisogno di affetto. Tuttavia, quello che colpisce del film è sopratutto il modo della regista di affrontare il rapporto tra Francesco, Stefano, Maddalena (Diletta Acquaviva) e Sofia (la bellissima Gelsomina Pascucci) in un crescendo di emozioni e gesti d'affetto che rendono indissolubilmente legati i quattro personaggi, mostrando come non sempre la disabilità sia qualcosa che allontani le persone. In tal senso delicato e scevro da morbosità è sicuramente il primo approccio sessuale di Francesco e poetica e quasi onirica la festa che si svolge a casa del protagonista. Concludendo, Noi siamo Francesco è davvero un film (legato e scandito da una colonna sonora mai ridondante, girato in una Puglia assolata e indefinita, senza tempo, che si avvale di ottimi interpreti, tra cui anche Paolo Sassanelli e Luigi Diberti) prezioso, intelligente, schietto, dotato di una genuinità resa ancor più palpabile dalla simpatica, acuta e spigolosa musicalità del dialetto pugliese (soprattutto grazie alla presenza della mitica Mariolina De Fano). Insomma, se è vero che la prima volta non si scorda mai, anche questo è un film (che speranza certamente da) che non si fa scordare facilmente (anche se un po' male mi ha fatto). Voto: 6 [Qui più dettagli]

6 commenti:

  1. Ho SkyGo ma non mi attira nessuno sinceramente.

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    1. Questi 12 infatti (gli altri 6 a giugno) sono gli unici che mi interessavano vedere, tutti gli altri visti o scartati ;)

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  2. E infatti sai che io guarderei proprio i tre film italiani, compreso l'8mile de noantri?
    Mi hai incuriosito con Noi siamo Francesco... ma perché un voto così basso se è un film prezioso?

    Moz-

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    1. Perché è fin troppo ottimistico...e comunque il 6 non è un voto "basso" ;)
      In ogni caso per il cinema italiano sono davvero prodotti consigliabili seppur non del tutto riusciti :)

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  3. Benoît Poelvoorde mi ha fatto scompisciare dal ridere in "Niente da dichiarare", mi è piaciuto in diversi altri film (quello in cui fa il mastro cioccolataio, che è più commedia romantica, non ricordo il titolo; film visto con mia madre e mia zia), mentre mi ha deluso in "Dio esiste e vive a Bruxelles": mi aspettavo un film più commedia e meno cupo.

    Cosimo Alemà? Ricordo il terribile "At the end of the Day". Me ne starò alla larga dai suoi film XD

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    1. Il film è Emotivi anonimi, che ho anche visto e che mi piacque pure abbastanza, lui invece è uno degli attori francesi che più mi piace, non a caso mi è piaciuto molto sia Niente da dichiarare che Dio esiste e vive a Bruxelles, che a me nonostante la variazione "tematica" mi ha fatto tanto divertire ;)
      Io per fortuna quel film l'ho evitato, il binomio italia-horror ultimamente fa davvero pena..

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